Astrazione, decorazione, intreccio, trama, ripetizione, immagine, debito

conferenza in occasione della mostra “Arte in memoria”, a cura di Adachiara Zevi presso la Sinagoga di Ostia antica.

Forse dovrei chiarire perché sono qui, oggi, a parlare in previsione della settima edizione della mostra che si svolgerà presso l’antica sinagoga d’Ostia pur non avendo la fortuna di parteciparvi. Basterebbe sostenere che la curatrice dell’iniziativa, Adachiara Zevi, (che ringrazio per l’invito) mi ha chiesto di parlare in quest’occasione. Ma perché, mi sono chiesto, parlare è importante pur non essendo invitato alla mostra? La risposta che mi sono dato è: la cosa importante, in quest’occasione particolare, non è tanto parlare ma scrivere e, anche per questo motivo, vi sto leggendo un testo piuttosto che parlare senza una traccia scritta.

In altri termini attraverso la scrittura posso partecipare a quest’iniziativa pur non facendone parte integrante. Posso inoltre riflettere (brevemente) sul senso di fare una mostra nei resti della Sinagoga più antica d’occidente e infine provare a intrecciare un tessuto di relazione fra l’arte e una cultura come quell’ebraico-giudaica che, partendo da un tempo ormai remoto ma tutt’ora aperto a interpretazioni e ipotesi di lavoro, continua a porci delle domande che bruciano nelle carni della cultura attuale fino a scoprirne i nervi vivi. Tutti noi dovremmo chiederci, aldilà d’ogni dimenticanza colpevole o reale ignoranza dove siano rintracciabili i temi caratteristici di questo pensiero nelle trame attive della cultura artistica contemporanea. Attraverso quali strumenti ideali si è diffusa la sua influenza? Dentro quali statuti ha preso forma? Infine, se e come sia possibile oggi ragionare di “forma astratta” fuori da questa tradizione di pensiero. La questione che dobbiamo porci è, se l’arte che conosciamo e pratichiamo sia da continuare ad interpretarsi esclusivamente nella scia e dentro il risultato di una rivolta iniziata con le avanguardie storiche (come sempre si fa), o invece non debba essere immaginata e vissuta (se non altro anche) alla luce di tradizioni ancora più antiche che arrivano fino a noi senza che ne siamo pienamente consapevoli. Se così fosse, non sarebbe forse necessario rileggere e riscrivere tutta l’arte recente con una consapevolezza più radicata di questo tragitto? E che domande pone l’eventuale scoperta che quest’influenza sia ancora in corso e che anzi continui ad agire in noi, magari in maniera “omeopatica”, cioè senza che ce ne accorgiamo. Io penso che questo flusso sia ancora attivo e, come in un fiume carsico, di tanto in tanto riappaia in superficie per tornare a chiederci: quale rapporto si stabilisce fra forma e informe? Quale ruolo svolge dentro l’arte il termine lavoro inteso sia come attività ripetitiva e produttiva che opera finale di quest’azione? Quali trame formali, umane, storiche e simboliche intrecciano l’arte col reale e col suo linguaggio? Quali debiti si stabiliscono fra il fare comune e l’arte? Al termine, come contribuisce l’arte a fare del Noi una comunità, o addirittura un popolo e quale lo spazio, dentro gli intrecci di queste questioni, per la nostra solitudine?
Questi, sono solo alcuni dei temi che mi sono balzati addosso da quando ho conosciuto meglio da vicino insegnando, in veste di visiting professor, alla Bezalel Accademy di Gerusalemme dal 1997 al 1999. Per prima cosa allora mi ero chiesto cosa potesse significare o a chi fosse appartenuto il nome “Bezalel”, qui, tutti gli specialisti presenti in sala (e mi scuso in anticipo con loro per tutte le eventuali imperfezioni che potrò dire) sanno che vuol dire “L’ombra di Dio” oppure “Colui che sta nell’ombra di Dio”. Così come sapranno pure che Betsaleel è innanzi tutto il nome dell’artigiano costruttore del Tabernacolo.

Nel libro Esodo al punto 31:1 è scritto (in sintesi):

“1 L’Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo: “Vedi, io ho chiamato per nome Betsaleel, 3 e l’ho ripieno dello spirito di Dio, di abilità, d’intelligenza e di sapere per ogni sorta di lavori, 4 per concepire opere d’arte, per lavorare l’oro, l’argento e il rame, 5 per incidere pietre da incastonare, per scolpire il legno, per eseguire ogni sorta di lavori. 6 …. e ho messo sapienza nella mente di tutti gli uomini abili, perché possano fare tutto quello che t’ho ordinato: 7 la tenda di convegno, l’arca per la testimonianza, il propiziatorio che vi dovrà esser sopra, e tutti gli arredi della tenda; la tavola e i suoi utensili, 8 il candelabro d’oro puro e tutti i suoi utensili, 9 l’altare dei profumi, l’altare degli olocausti e tutti i suoi utensili, la conca e la sua base, 10 i paramenti per le cerimonie, i paramenti sacri per il sacerdote Aronne e i paramenti dei suoi figliuoli per esercitare il sacerdozio, 11 l’olio dell’unzione e il profumo fragrante per il luogo santo. Faranno tutto conformemente a quello che ho ordinato”.

Quindi Bezalel è il lavoratore, l’artigiano che costruisce, manipola e decora il tabernacolo dietro indicazione Divina, e, sopratutto, segue in ogni cosa la sua parola per costruire quello che gli è ordinato di costruire. La parola, in questa prospettiva, è quindi da considerarsi il principio creativo dell’universo. E’ dalla parola che prende forma sia il tabernacolo, costruito da Betsaleel, che il suo opposto: il feticcio o il golem (del quale non sappiamo il nome del creatore), rappresentazione semi-umana del corpo, fatto di materia confusa, privo di forma certa e di anima, ma comunque assemblato, con le stesse parole che compongono il nome di Dio anche se disposte in maniera errata.

Ecco cosa è scritto nel libro Salmi al punto 139:16, dove si parla della nascita del Golem:
“I tuoi occhi videro la massa informe del mio corpo; e nel tuo libro erano tutti scritti i giorni che m’erano destinati, quando nessuno d’essi era sorto ancora.”
Ed ecco cosa scrive Gershom Scholem in “Il Nome di Dio e le teoria cabalistica del linguaggio”:
“Dio ha creato tutte le cose per mezzo delle trentadue ‘meravigliose vie della sophia’. Queste vie sono costituite dai dieci numeri originari, qui chiamati sefirot, che sono le potenze fondamentali dell’ordine della creazione, e dalle ventidue lettere, cioè dalle consonanti, che sono gli elementi di base di tutto il creato”
Allora, nelle parole e nella loro forma e intreccio (quindi sia nella loro immagine singolare sia nella loro disposizione compositiva) risiede oltre che il segreto della creazione del mondo, anche tutto il bene il male possibile. Nelle parole e non nelle immagini e sopratutto non in quelle immagini che riproducono il corpo oppure lo evocano come soggetto necessario di ogni narrazione. Questo carattere non-figurale, che potremmo chiamare “astratto” è a fondamento d’ogni discorso che pone, per la tradizione l’accento sull’impossibilità dell’arte di porsi ad un livello “creativo” pari a quello divino. Anzi, forse, si potrebbe addirittura arrivare ad affermare che in essa ogni atto creativo darebbe vita ad una forma confusa e senz’anima: ad un golem appunto. Di contro, il lavoro dell’artigiano, di colui che non smette di decorare e di ripetere all’infinito gesti e formule conosciute, assomiglierebbe maggiormente ad una preghiera tesa a confermare la parola di Dio, la sua luce e la sua sophia, ovvero, la sua conoscenza e sapienza.

A questo punto, si apre (verso noi) un interrogativo che grava pesantemente sul senso da dare a questi termini: arte, artista, sapienza ….etc. Un interrogativo fondato su un conflitto che appare sullo sfondo, che apre uno scontro con la conoscenza e, infine, una diaspora. Non più, però, collettiva, che riguarda cioè un popolo e la sua fuga, ma soggettiva. Una diaspora che dà ragione d’esistere all’arte in generale, una fuga dal linguaggio, dalla sua consapevolezza e conoscenza anche se, questa fuga, non ne cancella una volta per sempre la sua origine simbolica, la sapienza artigianale o addirittura rituale. Ogni artista, grande o piccolo che sia, aumenta, col suo fare, il numero di questa diaspora. Ogni artista è Bezalel in fuga dai suoi obblighi, Bezalel che abbandona nell’accampamento comunitario gli attrezzi del suo lavoro. Bezalel che fugge dal cono d’ombra protettivo di Dio perdendone così la guida, la voce interiore e certa. Bezalel infine che prova rimorso (ma anche eccitazione) per il suo abbandonarsi al cammino del linguaggio aprendo, così, un debito con la sua comunità che, forse, non sarà mai saldato.

Cos’ha a che vedere questo con la mostra di cui si parla oggi? All’apparenza nulla, in verità molto, e, seppure nessuna delle opere presenti in mostra ha (o ha avuto nelle opere in passato) origine diretta da questi discorsi, questi temi appaiono in filigrana coesistendo fra loro e intrecciando una trama di segni e di senso che ci riporta irrimediabilmente a quei temi. Per esempio molte opere sono essenziali, astratte e sapientemente realizzate, essenziali come parole e ben realizzate come l’opera di un grande artigiano. Inoltre, molte opere si intrecciano con i resti della Sinagoga come se si componessero in una trama unitaria che mantiene uniti luogo e materiale, una trama fatta di storie e relazioni, un intreccio che pone in maniera pressante la questione del rapporto fra arte e conoscenza, arte e rinnovamento costante dell’arte, arte e realtà, arte e politica, arte e società, infine fra arte e debito nei confronti della parola.

Il fascino eventuale di questo discorso è tutto dentro la storia di questa diaspora. Però il fatto che noi ci stiamo sforzando di conoscerne le ragioni e seguirne le tracce addirittura dentro le scritture sacre non fa di noi dei sapienti o dei conoscitori in anticipo del suo destino così come, invece, promettevano le parole del Salmo 139:16 …. nel tuo libro erano tutti scritti i giorni che m’erano destinati, quando nessuno d’essi era sorto ancora … al contrario, l’arte e l’artista, sfiorati ormai dal golem e dalla sua materia informe, senza senso, senza sophia, senza conoscenza non ci aiutano a conoscere nulla che non conoscessimo già prima. L’arte è ora cadenzata da un ritmo ripetitivo e rotatorio che, tornando continuamente su se stesso, ci allontana da una visione prospettica e comunitaria della conoscenza. Semmai, allora, l’arte ci trascina fuori della pratica del conoscere comunitario, perché il suo orizzonte (ammesso che se ne possa individuare uno) è mobile, genera miraggi di conoscenza, però n’alimenta il bisogno attraverso l’interrogazione permanente cui ci sottopone col suo esistere ed essere fra noi. Ma questo interrogarsi non bisogna immaginarlo come un atto di riflessione (cioè qualcosa che guarda il mondo facendosene specchio), né tanto meno quanto uno d’astrazione (cioè qualcosa che guarda il mondo disprezzandolo), bensì si fonda sull’esperienza di un’immagine che chiede al linguaggio: chi sono io? Ma sopratutto che ragione ho d’esistere?

Bisogna rispondere a questa domanda in maniera (fin troppo) semplice dicendo che l’immagine non è la messa in scena di una domanda e neanche di un’idea, semmai, rappresenta, nella commedia degli uomini, il lato oscuro, la risposta mancata, il rilancio del problema. Infatti, l’arte, che ne è il veicolo, ha provato a rispondere rinnovandosi di continuo, di più, ha fatto del suo rinnovarsi il carattere principale della sua esistenza proponendoci la sua vitalità come strumento per conoscere il nuovo: Ma come può l’arte, per via dell’immagine, farci conoscere il nuovo quando essa stessa appartiene a quello che esiste già e in più non intende manifestarsi attraverso la pratica della conoscenza? L’arte pur non dicendoci nulla di nuovo, rinnova però le cose del mondo (e noi stessi) portandocele alla pura presenza. Ad una presenza maggiore di quella che conoscevamo già. Ma seppure rinnovandole, non ci spinge per forza a conoscerle. Le cose nuove sono quelle che ci appaiono giovani pur avendo superato (da tempo immemore) la soglia della vecchiaia. Esse si mostrano a noi rinate e fatte sempre in maniera differente da come le abbiamo già viste e conosciute. L’opera d’arte non è mai i-innovativa ma re-innovativa. Essa rigenera il nuovo nascosto in quello che è terminato e consumato dentro una realtà pietrificata (come un golem). Sarebbe però errato immaginare questo lavoro dell’arte come qualcosa interamente esercitato all’interno della grammatica del linguaggio artistico, anzi, quanto più l’arte e il suo lavoro permangono in questa grammatica tanto meno si compie quel rinnovamento che abbiamo detto essere il tratto distintivo dell’opera d’arte. Per questo motivo l’invenzione dell’immagine ne rimane lo strumento privilegiato, perché senz’essa non ci sarebbe raffronto, dialogo, che arricchisce il linguaggio, bensì tradizionalismo e formalismo. Compito quindi dell’atto creativo è di richiamarci alla vista la vivacità della tradizione rinnovata, mostrarcene la sua viva necessità, significando con questo termine la sua assoluta presenza. L’invenzione rende presente il rinnovarsi del mondo attraverso l’opera, lo presenta a noi e lo concepisce per noi. Però attenzione, il termine Noi e quello Società non sono da confondersi; la società è un patto comunitario finalizzato a governare attraverso il gusto. Noi è differente, in questo termine non v’è accordo e neanche gusto comune, ma confronto e solitudine. Esso raccoglie il nuovo, lo rinarra stupito della propria capacità e grandezza, della propria voce e armonia. Questo stupore ne qualifica il metodo. Esistono certo degli scambi tra società e noi, però essi si mischiano come l’acqua con l’olio. O meglio, mischiandosi, si viene a formare una sostanza in cui le scie dell’una e dell’altra rimangono divise, e non c’è maniera di fonderle fra loro fino a renderle invisibili. Qualcuno aveva provato a immaginare una crescita della bellezza dentro il reale fino ad occuparlo per intero, fino a farne qualcosa che fondesse insieme estetica ed etica su un solo piano. Operazione che, oggi, ci appare in tutto il suo orrore. L’affermazione e l’estensione di una società estetica sull’intero pianeta trova paragone solo nel programma di soluzione finale applicato in Europa durante la seconda guerra mondiale, anzi potremmo dire esserne il conseguente completamento, la sua applicazione in scala universale con la conseguente creazione di un unico punto di vista. L’arte che vede “…come luogo di rifioritura la scena del mondo” (come dice Harold Rosemberg in,-The Tradition of the New- nel 1959) si è infranta come la fragile scialuppa di Majakovski, sugli scogli della realtà finendo in frantumi. Da questi frantumi abbiamo ricominciato a lavorare, non più per ricostruire il vascello perduto (o il tabernacolo che n’è all’origine) e senza neanche averne più come riferimento disegni o progetti originali essendo anch’essi andati perduti e seppure di questi frammenti narrativi ne siamo a volte custodi o altre volte li usiamo come galleggianti a cui tenersi aggrappati nella tempesta del linguaggio sappiamo però che solo l’immagine è la nostra certezza e anche il tramite per provare a pagare un debito che, a questo punto bisogna dirlo, non riguarda solo il linguaggio ma anche la storia. “Noi”,occidentali, abbiamo contratto col popolo ebraico un debito difficilmente colmabile, un debito che solo l’immaginario può provare a sanare. Un immaginario complesso che tenga insieme la sua origine e la diaspora del linguaggio. Un immaginario capace, anche, di imporsi sul reale laddove si tende invece di rendere inimmaginabile quanto è accaduto nei campi di sterminio, relegandolo in un capitolo che riguarda non più la storia degli uomini bensì la mistica e il suo destino. Un immaginario che provi quindi, in questo caso, a restituire una forma, un’immagine, una qualche verità a quanto accaduto e che allo stesso tempo sappia spingerci verso una dimensione più ampia della storia e dell’arte e che la renda realmente una storia del pensiero e degli uomini in generale.

Vi leggerei a conclusione e in omagio alla giornata della memoria che stà per arrivare le parole del filosofo Georges Didi-Huberman che introducono il suo libro “Immagini malgrado tutto”. Un libro dove il filosofo si batte contro chi ritiene che l’immagine sia sempre sacrilega, fino a negare l’autenticità e il valore testamentario di alcune immagini fotografiche che lui definisce “quattro pezzi di pellicola strappati all’inferno”, ovvero le sole quattro immagini che ci sarebbero arrivate dai campi di sterminio in azione e che ne mostrerebbero le attività criminali che vi si svolgevano all’interno:
Per sapere occorre immaginare. Dobbiamo provare a immaginare l’inferno di Auschwitz nell’estate del 1944. Non parliamo di inimmaginabile. Non difendiamoci dicendo che immaginare una cosa del genere, in qualsiasi modo ci proviamo, è un compito che non possiamo assumerci, che non potremo mai assumerci – anche se in fondo è vero. Poiché comunque dobbiamo provarci, dobbiamo confrontarci con questa cosa difficile da immaginare. E’ come una risposta da offrire, un debito da saldare nei confronti delle parole e delle immagini che certi deportati hanno strappato alla loro spaventosa esperienza reale. Dunque non parliamo di inimmaginabile. Le nostre difficoltà non sono nulla al confronto di quelle dei prigionieri che hanno sottratto ai campi questi pochi brandelli di cui oggi noi siamo depositari e il cui peso affligge i nostri sguardi, brandelli più preziosi e meno rassicuranti di qualsiasi opera d’arte, brandelli strappati a un mondo che li considera impossibili. Immagini malgrado tutto allora: malgrado l’inferno di Auschwitz, malgrado i rischi corsi. E noi abbiamo il compito di contemplarle, di renderne conto, di assumerle. Immagini malgrado tutto: malgrado la nostra incapacità di guardarle come meriterebbero, malgrado il nostro mondo, un mondo rimpinzato, e quasi soffocato, da merce immaginativa.

Alfredo Pirri

Roma 11 Gennaio 2013, Casa della Memoria