I.   La poststoria dell’arte

I teorici dell’arte europea ci avevano abituato a un dibattito riguardante la «morte dell’arte» come suo assorbimento nell’ambito filosofico. In ogni caso comune piattaforma, per marxisti e non, era costituita da un concetto della creazione progressivamente assorbita dallo sviluppo onnivoro della tecnica. D’altronde tutta l’arte contemporanea, dall’impressionismo ad oggi, dalla metà del secolo scorso alla fine del nostro XX, sembrava una sfida portata dall’artista ad un’epoca improntata sulla riproducibilità tecnica. Il senso evoluzionistico del contemporaneo era dunque supportato dalla ideologia del «darwinismo linguistico», frutto di un’idea di sviluppo lineare della ricerca e di una impronta storicistica del progresso. Progresso della storia e progressione dei linguaggi costituivano una obiettiva convergenza parallela nei riguardi di un ottimismo produttivo sperimentale riguardante la società e l’arte da essa espressa.
La crisi dei modelli degli anni Settanta ha comportato una revisione di tutto questo e nel campo dell’arte abbiamo assistito ad un passaggio teorico dalla linearità «evolutiva» delle neoavanguardie alla progressione eclettica della transavanguardia. La fine delle grandi narrazioni, per alcuni, ha significato la tanto agognata «morte dell’arte», assorbita dall’ineluttabile carattere analitico che indubbiamente segna la cultura della tecnica. Merito di A. Danto è quello di avere immediatamente colto il passaggio dell’arte dalla storia a una interna poststoria, che in ogni caso ne preservava l’esistenza e ne assicurava una felice continua discontinuità. Nel suo complesso pragmatismo filosofico, lo studioso americano ha indicato un modo originale di guardare l’arte, garantendone il carattere nomade ed uno speciale spirito investigativo. Ma se precedentemente aveva affermato un’«arte trasformata in filosofia», successivamente è approdato a un concetto più elaborato: attraverso lo sviluppo interno dell’arte è emersa la vera forma della questione filosofica riguardante la natura dell’arte.
Danto ha perseguito una linea, in questo senso, antieuropea, egemonizzata dallo storicismo di Croce e dalla fenomenologia, che vede nell’estetico una pratica conoscitiva e ha sviluppato piuttosto un filo teorico che parte da Dewey, da un pragmatismo filosofico che non separa mai estetico e pratico, esperienza creativa ed esperienza del quotidiano. In tal senso Danto afferma il valore dell’arte attuale, la capacità spirituale di influenzare attraverso le proprie forme le posizioni del vivere.
Lo studioso americano assume nell’ambito del teorico una visione antropologica per la quale il processo creativo come fertile metamorfosi include dentro di sé le prove della propria realtà attraverso la forma. La forma nel tempo si tramuta in stile e dunque diventa visibile prova della trasformazione della vita.
Mentre il realismo socialista si poneva come apologia dell’esistenza, organica attività gregaria alla metafisica entità costituita dalla ideologia, la teoria di Danto afferma l’ambivalenza dell’autonomia dell’arte e la sua interazione con il mondo che la circonda.
Qui non si afferma un superbo valore egemonico del processo creativo, piuttosto si segnala la capacità incisiva dell’esperienza estetica sulla esperienza quotidiana. Nello stesso tempo si segnala il modo permanente di quest’ultima di accompagnare la strategia dall’artista nella complessità di un universo dominato dalla telematica.
La telematica tende a sviluppare inevitabilmente un principio di anoressia, vaporizzazione della consistenza dell’oggetto, per meglio irradiare il dato reale come pura informazione. Il processo di scomparsa dell’oggetto non viene mimato dall’arte, che invece oppone uno spirito resistenziale in quanto afferma non il semplice e statico valore informativo, ma quello più complesso della comunicazione. Questa avviene non soltanto attraverso la elaborazione linguistica, ma anche mediante la scelta del soggetto da trattare che esalta l’«hic et nunc» dell’artista nel proprio contesto, l’elaborazione spirituale di tematiche che appartengono all’attualità come la sessualità, le problematiche del corpo e della malattia.
Ecco che la pura informazione riguardante notizie dal mondo si trasforma in elaborato formale capace di incidere sulla coscienza collettiva proprio attraverso il processo creativo di un’arte che non è mai statica evidenza, ma sempre metamorfosi verso il persistente. Un lavoro che afferma un processo dallo spazio nel tempo, dal gesto verso la durata. In definitiva la visibilità dell’arte si misura attraverso la consistenza della forma, capace di testimoniare la felice fatica del vivere e il riscatto della verticalità temporale del presente, nella tenuta orizzontale, se pure complessa, della storia. La poststoria è l’astuzia positiva per sconfiggere nella durata la distruttiva disperazione del puro presente.
Esiste una citazione di Nietzsche estremamente puntuale per svelare l’ambivalenza, l’ambiguità della creazione artistica. Egli sostiene che l’arte, nella sua tensione creativa, contiene anche un desiderio di destrutturazione. Ecco che questa proposizione ci apre verso gli scenari complessi dell’opera di Alfredo Pirri.
In un momento come l’attuale, in cui una serie di teorie che riguardavano la crisi del soggetto ci indirizzano verso un’archeologia del moderno, Nietzsche aveva già intuito che l’archeologia è il passaggio naturale entro cui l’artista si muove e propone la sua creazione. Dunque al di là di certe ideologie che vorrebbero l’arte capace di trasformare il mondo e di migliorarlo in quanto strumento al servizio dell’uomo e della società, Nietzsche svela l’ambivalenza strutturale della creazione, laddove appunto sottolinea l’altra pulsione che accompagna ogni atto creativo. Questa ambivalenza si segnala proprio perché mette in risalto lo scenario entro cui Pirri opera e crea la propria immagine, a partire dalla storia che giace intorno, immortalata nel reperto. Egli guarda la rovina che lo attira con la sua cordialità, interessante in quanto traccia che permette di ricostruire con l’immaginazione un’architettura, di creare un’ipotesi visiva della memoria. Si pensi alla magniloquenza retorica dell’architettura romana, celebrazione del vuoto e dello spazio e, di conseguenza, allo spaesamento che produrrebbe in un uomo della nostra epoca, trovarsela di fronte ancora intatta, con la possibilità di poterci penetrare o, al contrario, al rapporto di cordiale e pensosa contemplazione che si può stabilire nel momento in cui la stessa architettura gli si pone davanti in frammenti, rovine, passando quindi da uno stato verticale ad uno orizzontale. Il reperto della memoria possiede la capacità di umanizzare il rapporto con il passato, permettendo di riappropriarcene, di utilizzarlo come ready-made, elemento da innestare in un gesto di cleptomania, di assorbimento e ricostruzione tutta fantastica. L’operazione artistica è questa, utilizzare l’archeologia strutturale e filosofica delle forme e dei generi (astratto–figurativo, pittura-scultura, creazione-riflessione), che non è solo il segno del tempo passato, ma la descrizione precisa del paesaggio entro cui l’artista si muove. Questa dichiarazione di Nietzsche è fondamentale, perché ci aiuta a superare la dicotomia, la contrapposizione che si è cercato di creare in questi ultimi anni tra avanguardia e transavanguardia, tra recupero della pittura e altre tecniche, a partire dal fatto che l’avanguardia avrebbe prodotto modelli alternativi alla realtà, mentre la transavanguardia avrebbe evitato lo scontro frontale con la storia ponendosi in una posizione di lateralità. In realtà se noi partiamo da questo assioma nicciano e ammettiamo che accanto alla pulsione creativa affermativa e propositiva esiste anche un desiderio costante di destrutturazione, ci rendiamo conto che l’arte è un movimento doppio e non a senso unico e quindi non è possibile spartire maniacalmente la storia dell’arte in artisti buoni e cattivi, rivoluzionari e conservatori. E’ certo è che in alcuni periodi della storia, come ad esempio il nostro, la dichiarazione di Nietzsche, per cui l’artista stesso d’istinto sospetta di sé, di un suo carattere parassitario e di inutilità, viene accolta in maniera più naturale rispetto ad altri, Pirri evidenzia l’etica del fare e riflettere insieme per svelare proprio la cattiva coscienza dell’opera.
II.L’arte della storia
Nello stesso manierismo, quella pulsione distruttiva di cui parla Nietzsche, la si ritrova necessariamente nella scelta dell’artista di iniziare la sua opera partendo da reperti che giacciono intorno a lui, seppur come memoria, che poi riarticola a riattiva, riciclandoli dentro un’immagine che gli appartiene. Si arriva così al lavoro attuale di Pirri che realizza questo riciclaggio ma attraverso la capacità di giocare su un «progetto dolce», un’idea di costruzione in quanto strutturazione dei materiali, ma sempre a partire da una coscienza bilanciata, in cui due termini si tengono tra loro intrecciati.
Oggi è veramente importante capire che l’arte non è l’effetto di un progresso, né un difetto rispetto ad una mancanza di progresso, bensì una sorta di opulenza che ci accompagna dalla nascita dell’umanità, scarto, differenza, introduzione di sorpresa che serve all’umanità per procedere oltre i codici della comunicazione assestata dei rapporti interpersonali. Non richiede collegamenti o omologazioni con altre discipline, né riconoscimenti a livello politico, in quanto è finalmente riuscita a svincolarsi dall’ossessivo confronto con il mondo della tecnica e della tecnologia, come testimonia ciò che è avvenuto dall’impressionismo in avanti, in rapporto prima alla fotografia, poi al cinema, alla televisione ecc.
Fino agli anni Settanta l’arte ha trovato il suo valore nella processualità, vedendo quindi una garanzia nell’identità dell’artista in quanto collegato in termini paralleli a una ideologia politica. Nei momenti in cui l’identità dell’artista è collegata anche a una sua professionalità, in quanto produttore di opere, torna di nuovo la complessa questione della qualità e del valore dell’opera, visto che non esistono parametri capaci di definirla. L’arte di Pirri si fa riconoscere permettendo l’inciampo delle forme, a partire da un valore che solo il risultato può determinare, non potendo più essere determinato in termini idealistici da parametri oggettivi, non dalla novità della tecnica, bensì per l’intensità dell’opera, ovvero la sua capacità di suscitare energia, scarto e sorpresa, quella capacità, irruenta e catastrofica dell’opera, di entrare nello scenario delle nostre immagini e di sconvolgerle.
III.La vittoria di Pirri
L’attualità di Alfredo Pirri risiede nella forte presenza di un’opera che ha saputo trovare un equilibrio tra processo ideativo e risultato formale. Generalmente l’arte tesa verso la smaterializzazione dell’oggetto, ha privilegiato il momento progettuale rispetto a quello esecutivo. Invece l’artista ha sempre lavorato nella doppia direzione del concetto e dell’oggetto da quello promanante Senza dubbio il valore della progettualità assume un peso determinante nella strategia linguistica di Pirri in quanto portatrice di particolari articolazioni della materia ideata dall’artista. Egli predispone una forma iniziale che si sviluppa progressivamente attraverso momenti modulari che moltiplicano, senza ripetizione, quello di partenza.
Il modulo diventa l’elemento strutturale che fonde la possibilità della forma giocata sempre sulla complessità che moltiplica potenzialmente all’infinito la sorpresa della geometria. Convenzionalmente la geometria sembra essere il campo della pura evidenza e dell’inerte dimostrazione, il luogo di una razionalità meccanica e puramente funzionale. In questo senso sembra privilegiare la premessa, in quanto la conclusione diventa lo sbocco inevitabile di un processo deduttivo e semplicemente logico.
Pirri ha invece fondato un diverso uso della geometria, come campo prolifico di una ragione irregolare che ama sviluppare asimmetricamente i propri principi, adottando la sorpresa e l’emozione. Ma questi due elementi non sono contraddittori col principio progettuale, semmai lo rafforzano mediante un impiego pragmatico e non preventivo della geometria descrittiva. Non a caso l’artista passa continuamente dalla bidimensionalità del progetto all’esecuzione tridimensionale della forma, dal bianco e nero dall’idea all’articolazione policromatica.”>A dimostrazione che l’idea ingenera un processo creativo non puramente dimostrativo ma fecondante e fecondo. Infatti la forma finale, bidimensionale o tridimensionale propone una realtà visiva non astratta ma concreta, pulsante sotto lo sguardo analitico ed emozionante dello spettatore. Il principio di una ragione asimmetrica regge l’opera di Pirri che formalizza l’irregolarità come principio creativo. In questo senso la forma non si esaurisce nell’idea, in quanto non esiste fredda specularità tra progetto ed esecuzione. L’opera porta con sé la possibilità di un’asimmetria accettata e assimilata nel progetto, in quanto partecipante della mentalità dell’arte moderna e della concezione del mondo che ci circonda, fatto di imprevisti e di sorprese.
La classicità di Pirri consiste proprio in questo nell’aver accettato senza scandalo il caso intelligente della vita, la disponibilità dell’universo. L’arte diventa il luogo dove l’artista formalizza tali principi, inglobandoli nell’opera attraversata da una geometria giocata sull’asimmetria che produce dinamica e non staticità. Infatti l’artista lavora sempre su famiglie di opere, in quanto derivanti da matrici capaci di moltiplicarsi in forme complementari a differenti. In tal modo il concetto di progettualità viene investito di un nuovo senso, in quanto non rimanda più ad un momento di superbia precisione, ma semmai di verifica aperta, seppure pilotata da un metodo costruito mediante la pratica e l’esercizio esecutivo. Il metodo rimanda naturalmente ad un bisogno di un parametro costante e progressivo, ancorato ad una coscienza storica del contesto dominato dal principio della tecnica. La tecnologia sviluppa processi produttivi, ancorati sulla standardizzazione, l’oggettività e la neutralità. Principi costitutivi di una diversa fertilità rispetto a quella costruita sulla tradizionale idea iper-soggetiva della differenza. Questo svuotamento non è visto da Pirri come una perdita, come potrebbe sembrare ad una mentalità tardo-umanistica o marxista. Invece diventa il portato di una nuova antropologia dell’uomo che funziona secondo un metabolismo di ragione modulare che non significa però ripetizione simmetrica ma moltiplicazione asimmetrica, applicazione appunto delle nuove regole del caso intelligente contrapposto al caos indistinto. Caso intelligente significa capacità dell’uomo di accettare le discontinuità senza cadere nella disperazione di una razionalità incapace. L’accettazione nasce dalla perdita di superbia da parte del logocentrismo occidentale che ingloba la paziente analiticità del mondo orientale e si muove pragmaticamente non in assetto di guerra ma di disponibilità verso il mondo. Questo fa Pirri che, a suo modo, costruisce i suoi monumenti alla realtà contemporanea. Molte concordanze e discordanze esistono tra il suo lavoro e quello di Tatlin che ha realizzato il suo monumento alla Terza Internazionale. In entrambi esiste la fiducia nella ragione etica dell’arte, capace di fondare forme linguistiche adeguate al proprio tempo. La differenza sta nella diversa nozione di utopia impiegata dai due artisti, uno russo operante durante la rivoluzione sovietica e l’altro italiano, operante successivamente. In Tatlin prevale un concetto di utopia positiva, peraltro presente in tutte le avanguardie storiche del nostro secolo. L’idea appunto di un potere dell’arte e del suo linguaggio, di essere capace di ribaltare il proprio ordine sul disordine del mondo. L’ottimismo della ragione, seppure in questo caso creativo, di essere capace di incidere sul processo di trasformazione del mondo e dei comportamenti sociali.
In Pirri come negli artisti europei ed americani del secondo dopoguerra, emerge un concetto di sana utopia negativa, intesa come coscienza dell’impossibilità dell’arte di fondare un ordine fuori dal proprio recinto. In qualche modo prevale l’etica del fare sulla politica del creare. Un’etica che in ogni caso individua un processo di messa a fuoco del procedimento ideativo ed esecutivo dell’arte.
Infatti Pirri progetta in maniera solitaria le sue forme e poi ne delega alcune volte l’esecuzione. Questo non vuol dire abbandono del prodotto o superbia dell’artista che privilegia il momento progettuale rispetto a quello della realizzazione. Semmai possibilità dell’arte di aprire uno scambio ed un contatto col sociale, eliminando il rituale convenzionale dell’invenzione, il momento di religiosa oscurità della realizzazione dell’opera che ha accompagnato molta arte contemporanea. L’asimmetria significa anche principio di collaborazione e di contatto collettivo.
Qui non abbiamo figure, ma installazioni, sculture ed altre forme geometriche guizzanti nel mito, che costituiscono il figurativo della nostra epoca abitata dalla tecnologia tesa alla smaterializzazione ed alla astrazione dei corpi. Ma l’arte tende invece a rendere evidenti le forme, a dare corpo anche alla geometria. Infatti le forme di Pirri bidimensionali o tridimensionali, sono sempre concrete realtà linguistiche, affermazioni di un ordine mentale mai repressivo e chiuso ma germinante e imprevedibile. In ogni caso le forme germinano e si moltiplicano con improvvise angolazioni che dispiegano le potenzialità di un nuovo erotismo geometrico. Queste forme sono sempre di una monumentalità domestica, che non allude alla prepotenza o alla retorica della scultura. Questo vuol dire non voler produrre una convenzionale guerra alle forme esistenti nella realtà, semmai realizzare un campo linguistico di analisi e sintesi. L’analisi è prodotta dalle possibilità di verifica sulla germinazione di queste famiglie di forme e la sintesi della forza delicata dell’insieme che si dispiega sotto ai nostri occhi.”>Piramidi dell’arte sono le opere di Pirri, luoghi di confluenza dove pensare ed agire, progetto e realizzazione si intrecciano concretamente per fondare un sistema produttivo non soltanto di forme ma anche di comportamenti sociali. Questa è la vittoria di Pirri. Una vera vittoria. Quella dell’arte. Perché il nome è un destino. Pirri e non Pirro.

Achille Bonito Oliva