Testo introduttivo all’opera “Piazza” realizzata per il nuovo museo Archeologico di Reggio Calabria

Piazza

Nella copertina del fascicolo che illustra l’opera che ho progettato per il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria metto a confronto due cose per me importanti: Il titolo dell’opera Piazza e una foto che testimonia l’avvio del lavoro di restauro del cortile (ovvero ex cortile) interno del palazzo che ospita il museo.

Questa fotografia rende evidente la mole d’impegno dispiegato per questa lavorazione; travi enormi in cemento armato, spessori sovradimensionati etc..

Vorrei partire da questa immagine perché essa, ai miei occhi, testimonia la finalità autentica del progetto che è stato realizzato, che non si limita al recupero e restauro di un edificio e neanche solo alla presentazione di un’opera d’arte, bensì mette in campo un’operazione fondativa e civile nel senso più ampio della parola.

Con quest’opera-zione (intendo con questo termine il complesso di architettura ed opera d’arte) si è realizzata una Piazza, un luogo pubblico, un pezzo di città che prima non c’era, un luogo aperto a tutti, molto più che il cortile interno di un palazzo al servizio delle attività conservative come prima era.

Attraverso l’architettura e l’arte si è restituito alla Città uno spazio prima inaccessibile creando un luogo pubblico nuovo.

Questo luogo nuovo, è una piazza e un palcoscenico dentro cui muoversi, stare, guardare e talvolta assistere al miracolo di tre tende che si aprono come un sipario per lasciare vedere i tre gioielli custoditi nelle stanze del museo: le due sculture denominate affettuosamente “Bronzi o guerrieri di Riace” e la terza chiamata “Testa del filosofo”.

Fin dall’inizio non ho immaginato il mio lavoro come qualcosa che si andasse a sovrapporre all’architettura, bensì ho cercato un dialogo con essa che si spingesse fino all’integrazione e alla mimesi. So bene che con questo termine, per noi, oggi, s’intende qualcosa di negativo e consumato, qualcosa che ci ricorda la semplice imitazione e che ci terrebbe distanti da un più adatto (per i nostri tempi) gesto creativo autonomo.

Però quello che ho proposto è da intendersi mimetico nella direzione più radicale e autentica che il termine connota, cioè qualcosa che si manifesta in “continuità con” ovvero che vive in armonia col soggetto con cui si confronta. Un’armonia scambievole, in cui il soggetto ( l’opera) e il suo contesto ( l’architettura) si combinano e confrontano senza gerarchie.

Se per un verso mi sono orientato verso la realizzazione di un’opera armoniosamente integrata con lo spazio, dall’altra, l’idea che ne sta alla base si distanzia da un atteggiamento multidisciplinare che tenda alla totale (e a mio parere totalitaria) confusione fra immagini e discipline per loro natura differenti.

Anzi vorrei sottolineare come un dialogo tanto intimo fra arte e architettura sia stato qui possibile proprio in virtù di un’architettura (quella del gruppo ABDR) che non imita l’arte e di un’arte (la mia opera) che non recita la parte destinata all’architettura bensì la guarda come l’allegoria di un mondo espressivo ampio e perfetto restituendocene il sogno. La mia opera è nata dall’esigenza di pensare un’opera monumentale che allo stesso tempo non spicchi in modo esagerato dal contesto, non se ne allontani del tutto facendone solo uno sfondo sul quale stagliare nettamente una figura “artistica”, ma invece si affidi fiduciosa allo sfondo allontanandosene lievemente quasi solo a sottolinearne gli elementi costitutivi, creando con questo distacco, in questo respiro, un piccolo e delicato disequilibrio. Lo stesso disequilibrio che abbiamo negli occhi ogni volta che guardiamo all’arte, sia a quella del nostro tempo che a quella del passato e anche all’archeologia che infatti si presenta a noi per frammenti, affidandoci la responsabilità di ricostruire un universo di forme idee e narrazioni a partire da pezzi rotti. Questo modo di raccontare è, per me, particolarmente importante, ovvero: manifestare la capacità e il desiderio di raccontare qualcosa di coerente attraverso un singolo frammento come se questo nascondesse dentro di se l’opera intera da cui proviene, tutto il suo spirito originariamente fondativo..

L’opera intitolata Piazza è composta con elementi prelevati dal disegno delle facciate architettoniche (Marcello Piacentini 1932/1941 e ABDR ,2009/2011) e sovrapposte sulle stesse in modo da realizzare una partitura di frammenti che, pur essendo composti da forme astratte, denunciano la loro provenienza dallo spazio costruito. Questi elementi disegnano delle quinte teatrali di pochissimo aggettanti rispetto alle pareti reali (a loro volta concepite dai progettisti come un muro che duplica quello originale di Piacentini e vi si sovrappone come un coperchio forato). Queste quinte sporgono grazie ad un telaio inclinato di 45° e dipinto di rosso in modo che il colore si riverberi sulle pareti retrostanti dando la sensazione di una velatura bianca che si staglia sul bianco del muro grazie ad un alone di luce (ovvero di ombra) colorata. Una superficie rotta e in parte ricomposta un po’ fantasmatica un po’ strutturale. Forme disegnate da un colore che si riflette seguendo il movimento naturale della luce che penetra dall’alto e intramezzate dalle ombre (mobili e spezzate anch’esse) prodotte dalle trame metalliche che sorreggono la grande vetrata che copre tutto.

Dentro questo spazio, abbiamo dunque la sensazione di trovarci immersi in una piazza luminosa ma anche dentro il palcoscenico di un teatro, un teatro classico del tipo “all’italiana”, quindi un teatro frontale non circolare, tant’è che la parete che marca l’ingresso nello spazio, quella che ci si trova immediatamente alle spalle entrando dentro la Piazza, non è toccata dall’arte, perché vorrei che l’attenzione dello spettatore venga immediatamente attratta da quello che gli sta di fronte, come un quadro che si espande verso i lati  e dà vita a delle quinte laterali. Un palcoscenico dunque; un palcoscenico speciale perché dentro di esso sono ritagliate tre aperture che ospitano gli attori principali di questa “recita dell’antico”: i due bronzi e la testa del filosofo.

Gli elementi aggettanti sono realizzati con gli stessi materiali (cartongesso e acciaio) con cui sono composte le pareti reali della corte e sono rifiniti con lo stesso intonaco realizzato in accordo con gli architetti per rivestirne le pareti.  Anche il pavimento (anch’esso bianco) è stato scelto in accordo in modo che l’interezza dello spazio risulti un fatto unitario. Inoltre il pavimento ospiterà i mobili necessari al normale svolgimento delle attività museali, tali mobili saranno disegnati dagli architetti utilizzando ancora alcune delle forme dedotte dalle facciate originali e non utilizzate nel mio lavoro. Tutto l’insieme ha la forma di un “esploso” architettonico fatto di frantumi di un’architettura più ampia in dialogo armonico.  

L’opera, quindi, si confonde con lo spazio che la ospita facendosene parte costitutiva, quasi ne fosse una sottolineatura, come si fa con un pennarello per evidenziare e marcare quello che ci colpisce di più in un’immagine o nella frase di un libro.

La successione delle forme esposte nello spazio, ci ricorda, infatti, brani spezzati di frasi, lettere d’alfabeto, racconti interrotti o intenzioni di racconto. In tal senso col mio lavoro vorrei rifare quello che tanti lettori fanno quotidianamente di fronte alle pagine di un libro; un grande romanzo, un trattato botanico, un libro sacro etc: leggere, imparare, interpretare e tradurre in forma nuova anche un solo particolare, una sola parola, una singola punteggiatura. Mi sono posto di fronte alle pareti di Piacentini/ABDR come di fronte alle pagine di un libro, un libro classico che ci racconta una storia altrettanto classica.

Con Piazza, ho cercato quindi di riassumere in una forma unica tre spazialità, caratteri e capitoli, tre motivi che stanno alla base dell’idea stessa di museo: La Piazza, Il Teatro, Il Libro.

In fondo cos’è un museo di archeologia se non un luogo dove si ospitano parti di un intero che non c’è più, raccolti con cura, ripuliti e ordinati con regola in modo che si riesca a percepire l’unità del tempo nascosto dentro il disordine della storia?

Alfredo Pirri