Venticinque carte dipinte in parte ad acquerello, in parte pressando colore a olio con una matrice, sono incassate in due delle pareti che delimitano lo spazio espositivo di Tor Bella Monaca. Sebbene la collocazione dell’opera evidenzi l’aspirazione a fare muro, a costruire un ostacolo che si frappone al flusso generale (Pirri), qualcosa di diverso sembra accadere rispetto ai precedenti lavori di Alfredo Pirri. Quelli in cui le forme scaturiscono da un atto di resistenza e si manifestano nel momento dell’attrito. Come nelle Squadre Plastiche, realizzate negli anni Ottanta, dove la pittura si rilevava nell’impatto con la parete o nelle più recenti Facce di gomma che portano i segni del loro opporsi o andare incontro al colore. Su ciascuno dei fogli incassati nel muro è stampato il Qui riposa dei cimiteri tradotto nelle principali lingue europee e inserito in un rettangolo nero.

Aloni acquerellati irradiano da queste strutture monolitiche simili a lapidi. La parola è avvolta in una mandorla blu, azzurra, verde, viola o rossa. Sul muro si aprono infiorescenze di colori diversi e la superficie assume lo stato morbido della pittura. Due anni prima la mostra di Tor Bella Monaca, nel 1996, a Serre di Rapolano un’intera stanza era disseminata di queste visioni e dalle finestre, accortamente schermate, insieme alla luce, si diffondeva il colore dell’indaco. L’esterno, quello reale, dove la gente cammina, conversa, sbriga le commissioni, fatica, era omesso. Ma l’affiorare del colore dalla parete e la luce che penetrava nella stanza lasciavano intendere la presenza di un altrove. Si stava in un luogo disegnato dall’autore responsabile anche di quello che si poteva percepire come fuori. Le finestre schermate impedivano di vedere cosa accadeva nella strada e la luce che entrava era blu come il cielo, ma più intensa di quella naturale. Le pareti con il loro motivo di parole e colori inserito in una struttura orizzontale simile a un grande blocco di pietra, erano i muri che definivano lo spazio, ma con le loro infiorescenze apparivano anche superfici che si schiudevano, membrane sensibili. Facevano venire in mente il respiro, un soffio. A Serre di Rapolano il titolo della mostra era Il luogo ritrovato. L’edificio che l’ospitava era stato adattato ai canoni espositivi contemporanei e la stanza dove Pirri ha allestito il lavoro era spoglia e interamente dipinta di bianco. Si aveva la sensazione che quelle infiorescenze sulle pareti fossero, tra l’altro, anche un modo per infrangerla. Di quello spazio depurato dagli accidenti della vita che viene generalmente allestito nelle gallerie e nei musei a protezione dell’arte, Pirri sembra considerarne la necessità storica e allo stesso tempo agire perché si apra a un altrove. Ma quale altrove? Non quello quotidiano, degli infiniti gesti diversi, la cui presenza all’interno del lavoro di Pirri è assicurata dallo spettatore che abita il luogo dell’opera. Un altrove, invece, dal quale proviene una luce più intensa di quella naturale e che si manifesta attraverso varchi che sono brani di pittura. Un altrove che l’autore non affida alla vita, ma vuole governare. Lo magnifica con la luce colore dell¹indaco, lo esprime attraverso la metafora di una forma aperta, lo rappresenta con l’esemplarità dei colori dispiegati sulle pareti neutre dello spazio architettonico dato. L’opera ha un titolo, Sonno d’Europa, che pone l’accento sulle parole che vi compaiono. La scritta Qui riposa e il rettangolo nero che la contiene simile a una lapide, fanno pensare inizialmente a un’esequia funebre, un memento mori, pensiero suffragato anche dai lutti che hanno devastato l’Europa negli ultimi anni, la guerra nella ex Jugoslavia e, proprio nel 1997, lo scoppio della guerra civile in Albania. Ma un’altra suggestione si fa strada. Potrebbe trattarsi del sonno inteso come un allontanarsi dagli accidenti del mondo, uno segno di saggezza. Giuseppe nelle rappresentazioni della Sacra Famiglia spesso è ritratto addormentato, il suo personaggio è esempio di consapevolezza e di pazienza, come quello di Giacobbe cui fu dato di vedere in sogno il Paradiso. Il destino di Buddha è annunciato dal sogno premonitore della madre Mâyâ ed è durante la notte, nelle ore generalmente dedicate al sonno, che il profeta conquista l’illuminazione. Dante scelse la metafora del sonno per spiegare lo smarrimento in seguito al quale intraprese il suo memorabile viaggio. Il sonno è la condizione propizia per le visioni, è lo stadio intermedio tra la coscienza e l’immaginazione. Nel Sonno d’Europa il luogo è ritrovato perché l’autore si è raccolto in se stesso. Ha rinunciato ai toni semplici della conversazione, a dettagliare gli accidenti del quotidiano e si è assopito per poter generare una nuova visione, un nuovo modo di guardare alle cose. Si manifesta in quest’opera una pratica ascetica, altre volte riscontrata nel lavoro di Pirri. Una attitudine a considerare i fatti umani, contingenti o storici, alla luce di un intenso desiderio di sciogliere le contraddizioni, vincere il dolore, saper vedere e comprendere. Con le Squadre Plastiche, intesa per ragioni storiche la pittura come riflesso, riverbero, ha costruito gli ostacoli perché il colore-luce si manifestasse invece che disperdersi, fino a porre il suo stesso volto a sostenerne l’urto. In Sonno d’Europa sembra aver cambiato prospettiva. Qualcosa deve essere mutato nel suo modo di guardare alle cose. Non è più scudo, ma luogo abitabile, organismo interno che morbidamente si schiude all’altro.

                                                                                                                                  Daniela Lancioni

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