Testi di Cecilia Canziani e Giorgio Verzotti per la mostra Eighties are back!, Macro Roma, 2010

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Alfredo Pirri

Nel suo lavoro Alfredo Pirri riconduce la gestalt dell’opera al suo ruolo profondamentepolitico restituendola a una funzione civile, senza sottrarsi alle difficoltà di interrogarsi sucosa sia l’arte, quale il ruolo dell’immagine. Forse è qui che io, che faccio parte di unagenerazione nata in mezzo al deserto, parafrasando Deleuze, posso ritrovarmi nel lavoro di un artista che di un altro deserto parla, quello della sua generazione, altrettanto arso. A un primo sguardo Squadra Plastica adotta il linguaggio proprio del minimalismo: è un oggetto specifico – né pittura, né scultura – una superficie monocroma costruita attraverso l’alternanza di vuoti e pieni, one thing after another. E’ un’opera monumentale nelle sue dimensioni, si dispiega nello spazio lungo due assi: la verticale del piano pittorico e l’orizzontale, data dalla ripetizione dello stesso modulo e che ne restituisce la processualità. Ma a differenza del monumento non ha retorica, e del minimalismo rifiuta la logica dell’autonomia dell’oggetto. Questa distesa vibratile sembra un’essudazione della parete, una partitura di ombra e luce. Ed è nel suo timido confondersi con il muro che la sorregge, che Squadra Plastica si dichiara come un’interrogazione della possibilità della pittura di risignificazione. Ci vuole coraggio e costanza a rimettere la pittura sul muro, a dichiararla nei propri limiti, a metterne in scena gli scarti. Squadra Plastica lo fa attraverso il dialogo con l’architettura, che delle arti conserva in maniera più evidente la sua dimensione pubblica: quest’opera all’apparenza astratta in realtà evoca le facciate degli edifici della città, delle quali imitando gli intonaci mutua anche la quotidianità. Lo fa attraverso il dialogo con la scultura, a cui l’artista lavora nello stesso periodo in una serie di opere tridimensionali, Gas, strutture di metallo su cui delle tavole in legno dipinte di gesso su un lato sono coricate una sull’altra. Come in un’altra opera il cui titolo ci dischiude la dimensione esplorata da Alfredo Pirri – Infanzia della pittura – questo lavoro cerca di ricucire una relazione con la tradizione: la pittura di Piero, la scultura di Donatello, luoghi in cui si annida una dimensione condivisa e collettiva dell’arte con cui si può ancora fare i conti: il suo dispiegarsi allo stesso tempo – nel tempo – come linguaggio quotidiano, umano, civile.

Cecilia Canziani

Alfredo Pirri e le parole primordiali

L’opera in mostra appartiene ad un gruppo di lavori che Alfredo Pirri ha realizzato partendo da un unico principio strutturale, che ha generato una famiglia di forme simili. Il plexiglas e le piume sono i materiali che denotano questo gruppo, mentre il terzo elemento significante è il colore qui usato secondo le modalità che sono state tipiche dell’artista fin dall’inizio: il colore usato per la traccia luminosa che lascia sulle superfici a cui è accostato, l’ombra colorata che tocca l’ambiente espositivo tramite una presenza discreta, ma atta ad influenzare la percezione dello spazio.
La struttura che contiene le piume è plexiglas trasparente, che apre la struttura (a parete, o posta nello spazio, o anche a pavimento) virtualmente allo spazio, mentre le piume diventano qui materia pittorica: molte fra esse sono coperte di pittura, diventano pennellate solidificate, scaglie leggere di colore. Questo si pone in rapporto con il non-colore, il bianco delle piume intoccate, in modo da riuscire a disegnare come un andamento cromatico, a volte un vortice, insomma a porre dinamismo nell’opera e nel porre l’opera in divenire. Divenire cosa? Non è questione di identità, anzi. Pirri lavora alla sua destituzione, alla sua frammentazione nelle identità possibili perché sa che una verità (dell’opera) sarà percepibile solo dopo questa destituzione, che relativizza di ogni verità.
Pittura, scultura, installazione, l’opera resta radicata in una polisemia che ci impedisce di assegnarla a quella o quella dimensione, e inoltre la sua caratteristica maggiore, l’espansione del colore, come di una essenza che da un interno si propaga per minimi riflessi verso un esterno, è quanto di più imprendibile, di più indefinibile si possa dare, in arte. Inoltre, l’artista stesso ci fa notare come le opere di questo ciclo restino bilicate anche fra astrazione e figurazione, dove la plasticità degli elementi che concorrono alla messa in forma assume valenze allusive, apre ad associazioni mentali, a ipotesi di narratività.
Cos’è allora quest’opera? Un gioco intellettuale che genera un esercizio formale, senza aderenza con la realtà che pure evoca, dandosi come diaframma trasparente, pura apertura all’latro da sé? Niente affatto: ambiguità, doppiezza, indecidibilità sono connaturate al reale stesso. Ce lo dicono perfino le parole primordiali, quelle a cui ricorriamo quando sentiamo il bisogno del fondamento, dell’origine, di qualcosa a cui ancorare le nostre incertezze.
Le parole dell’origine, i geroglifici egiziani, e le lingue del ceppo indoeuropeo, l’arabo antico, hanno sempre due significati opposti, luce vuol dire anche tenebra, forte vuol dire anche debole, comandare è anche servire: così ci spiega Freud, nel suo breve saggio “Significato opposto delle parole primordiali”, basato su studi di glottologia. Gli artisti, come è noto, giungono alle stesse conclusioni degli scienziati, fidandosi delle loro intuizioni, a cui anche noi faremmo meglio a prestar fede.

Giorgio Verzotti