Testo di Maria Vittoria Marini Clarelli per Passi, GNAM, Roma 2011

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LA SOGLIA DEL MUSEO

Ogni museo è, a suo modo, un microcosmo e, come ha scritto Adalgisa Lugli, “la soglia che si oltrepassa entrandovi è un confine. Quello che sta di là è una specie di mondo alla rovescia” . Chiunque si occupi di musei si è imbattuto nel problema di questo limes, che, dal punto di vista della collezione, coincide con la demarcazione fra le cose della vita e gli oggetti musealizzati, e, dal punto di vista del pubblico, segna il cambiamento di atmosfera che il visitatore sperimenta una volta entrato. Alcuni musei enfatizzano l’approssimarsi alla soglia collocandola al termine di un percorso (una scalinata, un pronao, un viale di accesso) altri lo sdrammatizzano, rendendo l’attraversamento del varco quasi impercettibile. E’ questa, per esempio, la prima differenza che si coglie fra il Metropolitan Museum of Art e il Museum of Modern Art di New York, confrontando i quali Arthur Danto ha collegato il tema dell’accesso a quello dell’accentuazione o del dissolvimento dell’aura .
Anche nella Galleria nazionale d’arte moderna la soglia è preceduta da una scalinata solenne, ma, nel tempo, l’atto di varcarla si era ridotto al transito della barriera burocratica costituita dalla biglietteria e dal metal detector. Abbiamo scelto di recuperare il senso di questo confine nel 2011, quando, in occasione del centenario della sede progettata da Cesare Bazzani, l’esposizione permanente del museo è stata riordinata e riallestita. Il motivo non era l’anacronistico ritorno al modello del museo-tempio, cui pure allude la nostra fisionomia architettonica, ma piuttosto la necessità di dichiarare subito al visitatore che questo è un luogo altro, un artificio, in senso non negativo ma comunque di separazione dalla quotidianità. Inoltre, occorreva rendere esplicita, fin dall’ingresso, la duplice anima, moderna e contemporanea, della Galleria e identificarla come italiana.
Abbiamo dunque cercato un’opera site specific che potesse significare tutto questo, entrando in rapporto con l’architettura di Bazzani nella sua sala più tipica, quella d’ingresso detta originariamente delle cerimonie, che due colonnati separano, rispettivamente, dall’atrio e dal salone centrale, e che affaccia lateralmente su due corti concepite come giardini di sculture. La poetica di Alfredo Pirri, in effetti, presuppone il dialogo costante con l’architettura. “Per me il rapporto con lo spazio fisico è del tutto identico a quello con uno spazio immaginario” aveva dichiarato nel 2008. “Quello che mi interessa non è l’immagine dello spazio in sé quanto il racconto che ne scaturisce”. E ancora: “Mi interessa far rilevare qualcosa di significativo dello spazio che in quel momento preciso coincida con qualcosa di significativo dell’opera in maniera che insieme, spazio e opera, possano contribuire a quella narrazione di cui parlavo prima” . Con i lavori della serie Passi, l’artista aveva inoltre affrontato il tema architettonico direttamente connesso con la soglia, quello del pavimento, di cui aveva già studiato, nel progetto finalista per l’atrio del MAXXI, il passaggio dal livello installativo a quello permanente, dalla rottura performativa degli specchi a quella provocata per choc termico in laboratorio.
Lo specchio è un simbolo ambivalente, come attestano le due allegorie contrapposte che, nell’iconografia tradizionale, lo esibiscono come attributo, la Vanitas e la Veritas. Ambivalente, in questo caso, diventa anche lo specchio rotto, che ha una tradizionale valenza negativa, nel frantumarsi del soggetto insieme alla sua immagine, ma ne acquista qui una positiva nell’affrontare e superare la superstizione . Di specchi è piena la storia dell’arte, anche contemporanea e anche in Italia, ma quelli che Pirri ha rotto sulla soglia della Galleria nazionale d’arte moderna hanno la qualità principale della metafora che , per citare ancora Danto, il quale a sua volta si riferisce a Aristotele, risiede nel “connettere tra loro due cose ordinarie in modo sorprendente” .
E’ difficile dire se sia l’ammirazione, la superstizione o la flagranza metaforica (o forse il loro combinarsi) a far indugiare tutti i visitatori – chi più, chi meno – sull’orlo di questa soglia, della quale Pirri scrive nel pannello esplicativo: “Attraversarla è una cerimonia che accentua la percezione di una dimensione spaziale e temporale irreale ma allo stesso tempo radicalmente e intimamente materiale. Con quest’opera vorrei dare allo spettatore l’impressione che, muovendosi nello spazio, ne possa modificare la visione compiendo una doppia azione contemporanea di demolizione e ricostruzione dell’immagine”.
E’ come camminare sulle acque di confine che il linguaggio del mito ci ha insegnato a concepire fra il cielo e la terra (il firmamento) o fra questo mondo e l’altro (l’Averno); acque che si sono solidificate, ma che mostrano già le crepe di passi precedenti ai nostri. Prima di noi sembrano, infatti, averle abbiano percorse – e rotte – le statue ottocentesche, scese dai loro piedistalli, che Pirri vi ha disseminato scegliendole nel vasto repertorio di fine secolo che la Galleria gli ha messo disposizione. Il visitatore condivide il loro spazio ma compiendo un’esperienza personale che – come scrive l’artista – “lo porta a pensare di essere egli stesso soggetto dell’opera e nello sperimentare l’azione del guardarsi capovolto e sentire quello spazio infinitesimale come una pelle che lo lega e separa dalla propria immagine, per condurlo a farne parte in maniera “naturale” allo stesso modo di come si fa parte del mondo”.
Nella seconda fase della lunga progettazione, Pirri aveva proposto di far proseguire Passi 2011 anche al di là delle porte finestre che immettono nelle due corti, dei Romani e dei Saturnali, concependo due passerelle coperte, due scatole, che consentissero di uscire senza interrompere la climatizzazione. Si sarebbero così collegati l’interno e l’esterno e anche le relative sculture, tutte esemplificative dello straordinario virtuosimo della plastica italiana di fine ottocento. E’ un’ipotesi che non si è potuta percorrere per motivi economici ma che ancora non è del tutto esclusa.
La sera dell’inaugurazione del riallestimento del museo era stata aggiunta a Passi 2011 la colonna sonora realizzata da Paolo Modugno registrando nella vetreria il rumore del frantumarsi prodotto dallo choc termico. Abbiano discusso se mantenere questa evocazione dei primi Passi, quelli effimeri destinati a essere rotti dai visitatori, o considerare invece il sonoro come un accompagnamento facoltativo, un’enfatizzazione paragonabile alla rotazione dell’Ercole di Canova, che eccezionalmente permette di cogliere gli infiniti punti di vista di questo gruppo scultoreo. Abbiamo scelto questa seconda soluzione per ragioni non solo pratiche, perché duplice è il senso delle cerimonie cui è stata re-intitolata la sala che l’opera occupa: sia quella ordinaria e individuale d’ingresso nel museo, sia quella festiva e collettiva che rende solenne la soglia in determinate occasioni. Come, appunto, quella in cui questo libro sarà presentato.

Maria Vittoria Marini Clarelli