Testi di Barbara Goretti e Silvia Dal Prà per l’opera Bandiera, Liceo T. Tasso, Roma, 2011

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Mostrare un legame, dal mattino presto.

L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.
Art 33. della Costituzione Italiana
La scuola è aperta a tutti.
Art. 34 della Costituzione Italiana

Percepito spesso come un oggetto polveroso e consunto più che come emblema di identità nazionale, la bandiera veicola attraverso la sua stessa denominazione, un significato altro rispetto all’idea di feticcio celebrativo. Per i popoli Germanici la parola band (sebbene il termine compiuto derivi dal provenzale ban(d)iera) indicava una porzione di stoffa colorata attorno alla quale si radunavano gli appartenenti allo stesso gruppo, alla banda.
Materia e colore si fondevano in un elemento visivo che segnalava e definiva uno spazio, chiamava e sanciva un’appartenenza. Restituire l’essenza di un simbolo che è, prima di ogni cosa, un’immagine, una visione, significa ri-guardare il Tricolore italiano, spogliarlo dalla retorica celebrativa, offrirne – ad occhi e menti solitamente distratte e anestetizzate – il carattere vibrante della storia che vi si condensa.
L’installazione di Alfredo Pirri si riappropria dell’originaria forza attrattiva del vessillo estendendola allo spazio fisico – la facciata – a quello virtuale – il sito web realizzato da Pirri per lo stesso Liceo – al luogo di pensiero – la Scuola, che per mandato costituzionale forma cittadini – testimoniando ancora una volta come l’artista e l’atto creativo debbano farsi portatori di responsabilità civile.
Bandiera per il Tasso é un lavoro che conferma la ricerca di Pirri verso la sintesi tra l’elemento astratto e la concretezza scultorea della materia, tra la forza del colore in espansione e la forma che ne delimita i confini; un complesso ordito di cordoni, singoli e differenti, cuciti insieme ed esposti alla città, che ci ricordano come all’ambigua etimologia della parola bandiera appartengano, sebbene non filologicamente confermate, due radici piuttosto evocative – Bhan e Bha – legare e mostrare.
La forma di questo legame e la sua epifania si traducono in una lunga treccia multicolore che richiama la policromia esplosiva di La Città/Arlecchino, 2008, le fluorescenze dei ventagli nei lavori più recenti. Un forte elemento femminile che ci restituisce da un lato l’associazione ottocentesca tra donna e Nazione – la femminilità corpulenta della Libertà di Delacroix, quella composta e operosa delle cucitrici risorgimentali di Borrani – dall’altro l’energia trasgressiva insita nelle capigliature: architettoniche nelle dame di Füssli, sensuali nei dipinti Preraffaelliti, ribelli (e prettamente maschili) per la Scapigliatura che vi si identificava proprio nel decennio dell’Unità. La bandiera, come una chioma, intreccia identità, riunisce insieme maschile e femminile, trova il suo fondamento nell’appartenere a tutti, come l’opera d’arte, come la Scuola: non è un caso che il primo Tricolore nasceva dall’iniziativa di due studenti. Lo mostrarono, la prima volta nel 1794; forse al mattino presto.

Barbara Goretti

L’Italia salvata dai ragazzini

In quei giorni di celebrazioni per l’unità d’Italia non mi era molto chiaro che cosa mi premesse festeggiare: l’ultimo mezzo secolo di storia?, no; la politica?, ah-ah; le condizioni socio-economiche in cui questo paese mi costringe a vivere?, per carità; Dante Petrarca Boccaccio, la nonna partigiana, la costituente?, troppo facile.
Quando non so cosa dire cerco spunti nei libri, ma, come tattica, non sempre funziona: e, essendo un’insegnante, avendo appena pubblicato un libro sulla scuola, ho finito necessariamente per riaprire il libro Cuore, una delle prime summa di indicazioni pedagogiche dell’Italia Unita, trecento e passa pagine tese a spiegare agli studenti cosa sia l’Italia, cosa debba essere un italiano.
E mi sono resa conto che no, non siamo partiti bene: non c’è niente da fare, Cuore mi resta indigesto, per quanto ne possieda un’edizione commoventissima con i pasticci a margine fatti nell’infanzia da me, mia sorella, mia madre – io e quegli uomini lontani siamo troppo diversi per avere ancora qualcosa in comune. Certo, De Amicis, o il maestro Perboni, o il signor Bottini o tutti quegli adulti, di sicuro non avrebbero avuto il mio stesso problema. Alla parola “Italia” scattano tutti subito sull’attenti, e, per quanto riguarda il significato profondo del termine “patria”, non hanno il minimo dubbio: carezze del re da tatuarsi sul volto, etica del sacrificio da imprimere bene nelle menti dei bambini, mutilati di guerra, e poi eserciti e morti e battaglie, fino ad arrivare a quella “campagna coperta di cadaveri e allagata di sangue” che, a sentire il signor Bottini, padre dell’io-narrante Enrico, dovrebbe farci gridare evviva l’Italia con trasporto ancora maggiore.
Per carità: eravamo punto a capo. Mi ero riletta un libro per intero per capire che io, con quell’Italia (che, secondo Umberto Eco, non a caso ci avrebbe portato dritti dritti al ventennio mussoliniano) non avevo niente a che spartire. Solo che, a quell’Italia, i valori venivano facili: saldi, ferrei, retorici e pesanti come il marmo; mentre io, nata e cresciuta nel relativismo postmoderno, abituata a sentir parlare di patria soltanto dai neofascisti, e di Italia solo in relazione ai mille problemi del paese, io non sapevo davvero da dove cominciare. La costituzione, ok, la scuola pubblica, va bene, tanto più che sono pure minacciate: il problema è che, se penso ad entrambe, più che la stima e la gratitudine per quelli che hanno contribuito a crearle, mi viene la rabbia per quelli che ne appoggiano la distruzione – e non mi andava che la mia festa fosse sovrastata dal lutto.
Così, ho pensato di chiederlo ai miei studenti, che cosa, dell’Italia, valeva la pena festeggiare – e, tra la solita pizza, la Roma, il Colosseo e una sfilata di nomi maschili che le ragazze mi scrivevano circondati da cuoricini, è uscito Pinocchio. Lo leggevamo in classe, un’ora a settimana, l’unico momento di reale euforia, in cui riuscivamo a dimenticarci una realtà esterna che pesava non poco – oltre ai soliti palazzoni della periferia, nell’ordine: una prima media; due terzi della classe straniera; qualcuno con un italiano fluente, qualcuno scarso, qualcuno che oltre il “professoressa, posso andare a bagno?” non riusciva ad andare; un gran caos; un programma redatto dal ministero di certo non pensando a noi; la collega di sostegno che arrivava tutte le mattine col treno da Napoli, perché in Campania non c’è lavoro e con due figli non si poteva trasferire; io che dopo la riforma mi ero dovuta riciclare nelle supplenze brevi; le solite storie pesanti; il solito registro pieno zeppo di note e consigli straordinari – e Pinocchio, che strappava gli applausi di bengalesi, cinesi, filippini e italiani.
La situazione, in classe, non era semplice, il programma avanzava a fatica: eravamo quelli che a fine anno abbassano la media nel test Invalsi, quelli che fanno dire a qualcuno “io mio figlio alla pubblica non ce lo mando”, quelli che, più che a Enrico, assomigliavano a Franti; quelli che, nella scuola dell’ordine e della disciplina, sarebbero già stati spediti da tempo a casa. Però, nonostante tutte le difficoltà, c’era, nell’aria, qualcosa di estremamente civile. Una rete di piccoli traduttori che giravano per la scuola per sopperire all’assenza di mediatori linguistici, ad esempio, o una solidarietà costante per aiutare i compagni rimasti indietro; c’era il quaderno delle lingue con tante frasi in cinese, rumeno, arabo, italiano e filippino che venivano mandate a memoria; c’erano i ragazzi italiani che corteggiavano la più carina della classe, che portava lo chador; c’erano dei genitori che si dicevano felici di quella situazione, e che mai hanno pensato di portare tra noi le solite proteste razziste e rancorose che sentiamo in televisione, e c’era una prof, io, che in tanti mesi non ha mai sentito una sola frase razzista, un solo commento cinico, squallido, volgare.
Forse, dalla scuola di Cuore saremmo stati espulsi, certo, ma non in quella di Pinocchio, che ha un modo tanto diverso di “fare gli italiani”: l’educazione che a me piace non insegna a stare ciascuno al proprio posto, ma aiuta a trovare la propria strada, non propaganda formulette morali preconfezionate, ma fa riflettere sull’esperienza, sulla realtà che i programmi ufficiali non sanno vedere – e noi, in quella prima media di periferia, di realtà ne avevamo più di un’intera biblioteca.
Vista da quella prospettiva, mescolata tra gli undicenni, l’Italia non era quel paese di cui avevo imparato a vergognarmi, la solita sfilata di miserie nazionali, ma era un luogo stranamente civile. Così, dopo avere cercato invano nel passato, è questa immagine che portavo con me, ai festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia al liceo Tasso: non i mutilati e i soldati caduti di Cuore; non la triste immagine dell’Italia di oggi, e neanche i soliti proclami un po’ retorici, quei paroloni astratti che, declinati nel mondo degli adolescenti, non fanno mai presa; ma Pinocchio, quella scuola, e i venticinque undicenni che mi hanno ricordato che le ricchezze dell’Italia non appartengono solamente al passato.

Silvia Dal Prà