Testi di Carolyn Christov Bakargiev e Giorgio Maragliano per la mostra di Alfredo Pirri Galleria Planita/Galleria Alice, Roma, 1988

Alfredo Pirri predilige Mishima, ama certe idee di Heidegger, l’architettura del razionalismo, l’alto ed esile carattere tipografico “Futura”, il senso del sublime e della potenza, certe idee del movimento Moderno. Entro tali coordinate si intrecciano un leggero senso di nostalgia, come se i caratteri da usare non potessero che essere di legno leggermente corroso, e un gran senso di speranza; un gusto per la retorica addolcito dal sorriso sottile di chi sa di dover pazientare. Le Squadre Plastiche (1987-88) sono composizioni di tavole rettangolari, di varie dimensioni, laccate uniformemente come fossero parti di mobili. Il retro, sagomato, è dipinto di un colore che riflette sulla parete dove le squadre sono appese, come una aureola attorno alle tavole. Le Squadre Plastiche sono il “cuore” del lavoro attuale dell’artista, spesso collocate nello spazio intimo e raccolto che egli defìnisce architettonicamente – tempio, mausoleo, scena ritagliata dal mondo, luogo “esemplare”.

Negli anni ‘30, ispirati dagli ideali moderni, costruivano monumenti di pietra correndo, ignari, verso la tragedia. Oggi, l’immagine del monumento è l’involucro metafisico del Soggetto che sente il peso della mancanza, inevitabile, di progetto. Scenografia di un dramma avvenuto, chiesa già sconsacrata.

I. Schermi rovesciati, schermi accesi

Oltre alle Squadre e agli spazi raccolti Testo di che le custodiscono, Pirri costruisce anche installazioni dove immagini-video entrano a far parte di luoghi “edificati”. Non è quindi con amnesia reazionaria o solo formalista che Pirri ritorna al monocromo nelle Squadre Plastiche. L’eventuale nostalgia per un’epoca di grandi ideali e forte progettualità, come è stata quella del razionalismo, non è mai scissa da una volontà di riscattare la contemporaneità, di comprendere dove la comunicazione passa prevalentemente attraverso immagini televisive. Per Pirri i “modelli” non precedono mai, insomma, il “reale”, ma ne vengono a fare parte senza essere sempre motivi di alienazione o perdita di autenticità. Le Squadre (quelle per tracciare un disegno, magari architettonico, e quelle di uomini ed eserciti) sono plastiche, ricoperte di lacca poliestere e non ammiccano a ritorni a materiali tradizionali – antichi olii o marmi. La Squadra può essere allora una sorta di schermo televisivo, anche se lontano dal vuoto potenziale del monocromo-schermo mediale che ha preceduto la Pop Art, aperto semiologicamente al mondo. È invece uno schermo acceso, da cui deborda solo luce, tanta luce. La luce riflessa non è prelevamento di luce “artificiale” (elettrica) o luce della ambient art, è simulazione pittorica, leggermente fluorescente, della stessa luce televisiva (la quale, invece, simula il reale) ed è quindi ri-flessione su di essa. In quanto riflessione, da una parte viene a patti e, dall’altra, neutralizza la simulazione, la incorpora in una visione globale che umanisticamente impedisce la sconfitta e la perdita del Soggetto della fine del moderno.

Riformulando e traducendo con mezzi pittorici la luce “artificiale” e “plastica” del tempo, essa la addomestica e la fa diventare di nuovo fonte di energia, luogo di cultura.

II. Vuoti e pieni

La superficie frontale delle Squadre plastiche, prima nera e lucida, poi bianca e rarefatta, ancor più recentemente di un celeste chiaro ed etereo (come il cielo ma anche come uno schermo acceso che non riceve segnali!) non reca figurazione. È l’oggetto muto che defìnisce il luogo dell’aureola che la circonda, il luogo del pensiero, immateriale e parzialmente nascosto. Diventa così metafora del vuoto che non è assenza, e di come basti spostare lo sguardo all’intorno delle opere, alle loro rifrazioni sul e nel mondo, per riceverne un senso. Sono quindi tavole che si collocano dopo il monocromo “linguistico” che attraversa il secolo, dove la riduzione geometrica e formalista tende a fare coincidere segno e significato, come se la loro distanza non fosse altro, in fondo, che una bugia. Sono anche tavole che si collocano con fiducia oltre l’“ultimo quadro” del monocromo esistenzialista.

Se l’idea di una “pienezza” del vuoto, di una potenza in equilibrio con l’impotenza e di un agire nel non agire, suggerita dalle Squadre plastiche, può ricordare alcuni aspetti della filosofia Zen, non è però il silenzio o l’intricato rumore bianco di per se stessi a interessare Pirri. L’accento non è, infatti, posto su ciò che è possibile proiettare al centro del vuoto, come nelle “nubi” formate dalla carta bianca circondata da schizzi di montagne in un disegno giapponese o nell’equilibrio calligrafico di un dipinto “zen” di trent’anni fa. Il luogo “vuoto” rimane tale nella Squadra plastica e assume un’aura di potenza proprio dall’essere evidenziazione del suo intorno.

L’espressione della potenza (o della forza) e della rinuncia (o del contenimento) sono i due poli di una ricerca del sublime che, essendo opposti, stimolano nient’altro che un senso di stabilità e di nulla che risuona però dell’aura della stessa potenza e rinuncia.

III. Squadre

Prima delle Squadre plastiche, molti quadri di Pirri avevano una forma circolare. Il senso del cerchio è quello di qualcosa che ritorna sempre sugli stessi punti, accrescendosi e modulandosi, come nella musica iterativa. Vicino a quella del cerchio, quindi, è la struttura seriale nonché la sottolineatura retorica prodotta da una sequenza.

Le tavole, ciascuna con la propria aureola, non sono mai isolate icone rettangolari. Sono invece sempre raccolte in squadre, sequenze modulate di elementi di diverse dimensioni e in numero variabile. Si compongono in ordinati “disegni” dai quali emerge soprattutto un’attenzione ai margini e ai contorni delle forme. L’intervallo fra ogni tavola è misurato con cura e semplicità e la sezione aurea non è né rifiutata con pretesa di originalità, né esaltata come mistero inviolabile della Tradizione. E’ utilizzata con la naturalezza di un architetto funzionalista, per formare solenni raggruppamenti, come merli sopra una torre antica o come la cornice di un portone moderno.

Le Squadre si danno oggetti nel mondo piuttosto che finestre sul mondo, ma non oggetti banali del mondo.

Come il tavolato grezzo e umile che doveva reggere un Cristo scolpito con cura, le tavole di Pirri si guardano con riverenza e meraviglia, crocefissi dove la struttura a squadre (a serie) sostituisce (come farebbe l’allusione al senso) la struttura a croce, che definiva, un tempo, il luogo del senso.

Carolyn Christov Bakargiev

Questo testo è stato pubblicato per la prima volta in, Carolyn Christov Bakargiev (cura e testo in catalogo), catalogo della mostra personale, Galleria Alice e Galleria Planita, Roma, novembre-dicembre 1988.

 

Dell’ordine Inverso[1]

Le opere di Alfredo Pirri affrontano sin dall’inizio il problema dei nessi fra il soggetto e l’opera. La datità anomica ed “estatica” dello spettacolo, sottoposta ad interrogazione, si converte oggi nei tratti precisi ed ineludibili di una rappresentazione retta da leggi rigorose. Esse non si risolvono nel pathos di un “clima” emotivo in cui l’opera, in quanto prolungamento della soggettività, spettacolarizza l’iscrizione euforica o luttuosa in una totalità mondana che è avvertita come una potenza estranea, di cui quindi è impossibile determinare limiti. Al contrario, i lavori di Pirri pretendono, attraverso un’articolazione sintattica delle figure che determinano ab origine il rapporto privilegiato che intrattengono nell’arte di questo secolo soggettività e opera, di mostrarne l’interna legalità, fino ad arrivare alla soglia di riconoscimento della figura-chiave, per cui l’opera è rappresentazione di una soggettività essenziale, che pone l’esistenza del mondo. Questa figura, per la quale il soggetto è la forma della rappresentazione degli oggetti in generale, può essere denominata inversione. Se in Kant è proprio l’inversione del pensiero tradizionale, nel momento in cui egli ritrova nella soggettività forme a priori che costruiscono l’esperienza, a consentire l’accesso alla realtà empirica, nella storia del pensiero e dell’arte, fin dal romanticismo tedesco in poi, tale figura denoterà una totalizzazione della soggettività per la quale meta finale diviene il riferimento del soggetto a se stesso, la risoluzione di qualsiasi datità ad esso esteriore al momento della sua libera creatività. In arte, tale processo di totalizzazione della soggettività raggiunge il suo culmine nelle varie forme di arte non-oggettiva, il cui criterio finale della riuscita dell’opera è la definizione di un intero auto-finalizzato, costituito da segni puri perché privi di riferimento. Non è difficile cogliere, nei tratti apparentemente tutt’altro che antropomorfici dell’opera astratta, un rappresentante metonimico della infinita e pura soggettività creatrice.

Nell’opera di Pirri i luoghi cardinali dell’arte intesa come “sistema autonomo”, linguaggio autoreferenziale, mostrano la loro interna aporia.

A partire dai Tondi, fino alle Squadre Plastiche e alle installazioni della Biennale di Venezia e di Taormina Video d’Autore di quest’anno, Pirri delinea i tratti di un percorso in cui oggetto proprio della ricerca è il campo di tensione tra un’opera che pretende di non esaurirsi nell’analogia, rappresentazione o tipizzazione di realtà esterne a essa e l’appello che l’opera stessa rivolge allo spettatore, la richiesta conoscitiva e critica che l’artista rivolge al suo lavoro. Nessuno di questi poli si risolve compiutamente negli altri, lo spazio dell’opera è anzi l’agone in cui vengono messe alla prova le loro pretese di assolutezza; nell’installazione della Biennale, l’asta di bandiera, la soggettività “eroica” dell’artista, i pannelli monocromi con il loro alone luminoso, la mistica autoreferenzialità dell’opera, le scritte, la pura contemplazione giudicante dello spettatore, l’intera installazione, la sacralità dello spazio estetico in quanto monumento. L’opera non è ironica; essa, per quanto analitica, non è auto-riflessiva, non prende a oggetto se stessa, non parla di se stessa. A decantare qui, è la visione di una non-oggettività che per astrazione giunge ad una realtà altra, interamente data nello spazio dell’opera, visione che da Malevich alla Pittura Analitica è mitologia somma dell’avanguardia. I tropi retorici attraverso i quali l’opera non-oggettiva diveniva metonimia della soggettività pura vengono deformati, violati fino al loro rovesciamento: i moduli monocromi delle Squadre Plastiche con il loro aggetto dalla parete violano la regola essenziale, e tautologica – estremo approdo dell’autoreferenzialità – della piattezza; dall’altra, l’alone di luce che circonfonde i pannelli è raddoppiamento, sovrapposizione, doublure barocca di quella luce unica e irrelata che il puro colore dovrebbe irraggiare. In alcune opere della serie, Pirri usa il bianco, e proprio il bianco, vorrei dire, come un colore torbido, come l’antitesi della trasparenza, come colore che vela le forme, e cancella luce e ombre, ma che mai potrà cancellare l’alone perverso che l’incornicia. Tale perversità nel trattamento che Pirri impone alla luce è ancora più apparente nelle ultime opere della serie, in cui l’identità tra colore della superficie e colore dell’alone riconduce per via di finzione il doppio all’uno, l’oggetto alla parete, la luce allo spazio “reale”. Ma la violazione più estrema e più significativa operata da Pirri consiste nella giustapposizione, vista nell’installazione della Biennale, di moduli monocromi e scrittura. Se qui viene infranto il tabù elementare della specificità linguistica del monocromo, “sublime” o “tautologico” che sia, è soprattutto nelle ingiunzioni rivolte allo spettatore che tale opera riporta per così dire sulla terra, mostrandone l’interna legalità, la soggettività mistica dell’arte non-oggettiva. Il giudizio che ogni opera astratta enuncia rispetto al mondo, nel suo essere personificazione di un assoluto della coscienza al di sopra della caducità e accidentalità degli oggetti, viene pronunciato a chiare lettere all’esterno della camera chiara e celata in cui i pannelli svolgono il loro discorso silenzioso; l’asta di bandiera custodisce un segreto, quello dell’interno – interiorità, che essa stessa tradisce, dissimula e dissolve al tempo stesso.

E’ noto come nella mitologia nordica compaiano figure intermedie, fra divino e umano, la cui funzione è appunto quella di vegliare e guardare che il prodigio mitico che alberga in ogni soglia, in ogni passaggio fra informe esteriorità profana e ben sancito perimetro del sacro, avvenga secondo la legge. Non è forse casuale, anche se senz’altro non tematizzato dall’artista, che questa asta di bandiera, goethiano guardiano della soglia, rinvii ad una qualità del divino che gli inni vedici associano al movimento agile della bandiera: il termine sanscrito isirah, accostabile al greco bieros, “sacro”, indica il vigore, la vivacità, da cui isiram ketum, “stendardo agitato”. Se ci si permette di continuare in questa associazione, potremmo cogliere ancora come la peculiare forza di questa installazione stia in quello che solo in apparenza è procedimento di sparizione della presenza, modalità di presentificazione dell’assenza, quanto è invece inversione dei modelli retorici attraverso i quali l’opera diveniva rappresentazione della soggettività assoluta, definita appunto per absentiam, per sottrazione degli attributi empirici e caduchi dell’oggettività. L’assenza dello stendardo non è allora segno di lutto per la perdita di un senso pieno e conciliato, di un “vigoroso” custode che veglia su un segreto “terribile”, quanto indice del fatto che per Pirri oltre la soglia non vi è alcun segreto, che la “dura lex” è già da sempre esposta, che l’opera articola segni finiti, determinati, puramente immanenti, non-simbolici.

Come nella parabola kafkiana Davanti alla legge, l’ingresso alla camera chiara della soggettività che questa installazione consente è tale per ciascuno di noi preso nella sua singolarità, e non in quanto esempio di un assoluto che l’opera si incarica di personificare: monumento non di ciò che deve durare, ma di ciò che non può che morire. L’appello affidato alle parole incise sulla parete di ingresso diviene allora, da giudizio trascendente e indifferente al chi, al qui, all’ora, urgente e puntuale chiamata ad un’agire di cui noi possiamo dire che esso si può svolgere solo al di fuori dell’opera. Ennesima inversione, apertura verso un fuori essenziale, un’esteriorità che l’opera non può dissolvere, una necessità che l’estetico è condannato a tradire.

L’assenza del simbolo esplicita la finitezza e la caducità di ogni segno, naturale o artificiale che sia. Ma proprio tale finitezza, sembrano dirci queste opere, sostanzia la loro importanza per noi.

                                                                                                  Giorgio Maragliano

[1] Questo testo è stato pubblicato per la prima volta in, Christov Bakargiev Carolyn (a cura di), catalogo della mostra personale, Galleria Alice e Galleria Planita, Roma, novembre-dicembre 1988.