In una recente intervista, Marc Fumaroli sostiene che la società attuale sta progressivamente dimenticando la sua storia culturale. Secondo lo studioso francese “la postmodernità (…) rifiuta la sintesi e la narrazione storica, preferendo la citazione, il montaggio o il collage di brandelli culturali isolati e sospesi nel vasto universo dell’intrattenimento contemporaneo”. Questo tipo di atteggiamento riguarda ovviamente anche il mondo delle arti visive. Passata ormai da tempo l’era dei citazionismi, ora viviamo il culto mediatico dell’immagine big and terrific, il cui intento programmatico è quello di colpire il “bulbo oculare” del pubblico, secondo la nota espressione coniata dalla rivista “Wired”. Alla difficile autonomia sintattica di un linguaggio compiutamente formulato si sostituisce progressivamente un’ossessiva reiterazione dell’immagine, prelevata nel grande mare della cultura visuale attuale.
Viviamo insomma tempi immemori e veloci: per questa ragione forse l’ultima personale di Alfredo Pirri nella Galleria Tucci Russo ci appare come qualcosa di profondamente insolito e curioso. Si tratta infatti di una mostra che sviluppa proprio la consapevolezza storica di un certo linguaggio, quello pittorico-astratto, e lo fa senza ricorrere a quel facile citazionismo episodico in voga fino a qualche tempo fa. Pirri riesce a snodare un racconto raffinatissimo e coerente sulla pittura, prendendo in considerazione la storia dell’astrazione europea dell’ultimo secolo, da Paul Klee fino alla ricerca materica degli anni cinquanta. Questo discorso attorno all’astrazione si svolge secondo i modi di un linguaggio pittorico e ambientale autonomo, e si pone come tappa importante dell’identità linguistica e anche esistenziale dell’artista. D’altronde Pirri proviene dalla pittura, e verso la grande pittura ora torna con decisione, sviluppando una riflessione emotiva, oltre che culturale, su una parte della sua storia.
L’intero ciclo di lavori presenti in mostra è stato creato nel corso di un anno, ed è il risultato dell’applicazione di una disciplina precisa, basata su un certo numero di ore di lavoro giornaliero e sulla rinuncia a qualsiasi tipo di apporto esterno. Manipolando e strappando una carta di cellulosa pura, Pirri ha creato una serie di frammenti dallo spessore omogeneo, con i quali ha assemblato per stratificazione le diverse opere esposte. I frammenti di carta sono dipinti sul retro con un colore arancione fluorescente e si compongono in un racconto ordinato e continuo. I singoli lavori, seppure completamente autonomi, sono pensati in relazione a quelli precedenti e a quelli successivi, dando l’impressione di essere singoli frames di una lunga pellicola filmica, lungo la quale le forme sembrano partecipare a una festa delle possibilità, a un raffinato concatenarsi di ipotesi e rimandi. Il passato non è citato, quanto piuttosto rivissuto dall’interno, alla luce di una grammatica formale autonoma, di una notevole sensibilità compositiva e cromatica. Il colore si riflette sulle opere stesse e sulle pareti, invadendo l’ambiente secondo precise modalità ritmiche e armoniche, quasi musicali. La particolare temperatura cromatica dei pigmenti fluorescenti consente infatti alle carte di Pirri di svolgere un’azione performativa nello spazio proprio grazie alla rifrazione del colore nell’ambiente. Se la prima parte della mostra è basata su un’idea di filtraggio memoriale, emotivo e metalinguistico di immagini astratte, nella seconda sala le carte sono inserite o sorrette su supporti di alluminio, e tendono a evocare paesaggi montuosi e anche urbani disseminati nello spazio. Questi paesaggi sospesi in aggetto sulle pareti si pongono come il risultato di un atto operativo minimo, controllato, e sviluppano nell’ambiente suggestive trame cromatiche, con un accento neoromantico. La decantazione atmosferica dei pigmenti, così come l’arancione del bordo frastagliato delle carte, danno vita a una vera e propria epifania luminosa, lirica e lunare. L’altissima qualità della proposizione pittorico-ambientale di Alfredo Pirri fluttua dunque poeticamente tra una raffinata lettura di certa pittura astratta e una intenzione invece più intimamente diaristica, che descrive il paesaggio attraverso una sorta di accento interiore, intimo. Tuttavia non vi è assolutamente nulla di gergale o di banalmente introiettivo in questo suo ritorno alla grande pittura, al contrario impressiona la capacità di Pirri di portare il discorso sul piano del coinvolgimento affettivo, quasi sensuale, mantenendo al tempo stesso uno straordinario rigore formale. A una nozione di racconto ambientale e di opera aperta fa riferimento inoltre il lavoro Alba – tramonto, composto da due grandi strutture tubolari trasparenti, dipinte con strisce di colore verticale, anche queste appese al muro e collocate in successione nella prima sala. Al loro interno l’artista ha collocato vari frammenti di carta, a descrivere in successione e in profondità una serie di catene montuose colorate. Questi due lavori presentano un imprevisto di natura percettiva: uno sguardo da lontano li trasforma in due semplici oggetti, mentre uno sguardo ravvicinato ne consente una visione solo parziale. Anche in questo caso il lavoro fa riferimento a una mobilità fenomenologica e a un’idea di passaggio: l’oggetto si pone come una sorta di pellicola tridimensionale, che va vista quindi muovendosi da un capo all’altro del lavoro, facendone esperienza frontale e fisica. Si tratta di una coppia di oggetti che media, visivamente e concettualmente, l’evocazione memoriale delle composizioni astratte della prima sala, con l’irradiazione cromatico-luminosa dei paesaggi della seconda sala.
Un altro oggetto quadrangolare in plexiglas con dieci ripiani trasparenti e altrettante carte dipinte invita a un contatto ravvicinato con la rifrazione del colore e dei pigmenti fluorescenti. Il volume appare letteralmente attraversato da vari fasci di luce orizzontali che variano gradualmente dall’arancione al giallo, dal rosa fino al verde. Sui fogli sono poggiati una serie di cucchiai di acciaio dipinto, inserimento oggettuale di carattere narrativo attraverso il quale Pirri offre la suggestione di un avvicinamento al colore tramite il gusto, come se le carte mantenessero una capacità nutritiva. Anche questo lavoro è realizzato riducendo al minimo qualsiasi apporto tecnologico e celando al tempo stesso l’abile regia artigianale. Come nel caso delle altre opere, ne viene fuori un prezioso rigore formale, dall’eleganza quasi distante, che complessivamente dona alla mostra un aspetto etereo e incantato, da latitudini nordiche. La rifrazione performativa del colore nelle composizioni astratte e nei paesaggi e l’andamento stratificato e luminoso delle carte sovrapposte creano un effetto generale di imponderabilità visiva. Si tratta della somma di piccole difficoltà percettive che insieme immergono l’ambiente quasi in una nebbia, in una sorta di bruma chiara nella quale tutte le cose perdono i propri confini definiti. Lo stesso contrasto tra la delicatezza e la precarietà di un materiale come la carta, contrapposta all’idea di un paesaggio eterno che ricorda le cave di marmo, dona alla mostra un aspetto molto particolare, di grande suggestione magico-fiabesca. Pur essendo caratterizzata da un’aura quasi iniziatica, quella di Torre Pellice non è tuttavia una mostra oscura o alchemica, al contrario l’intero percorso assume le tinte di una visione serena, tra un’intelligente rivisitazione storica dell’astrazione e la composizione di un paesaggio cromatico irradiante, carico di luce e colore. Il tempo che si dispiega attraverso l’analisi di Alfredo Pirri è un tempo memore, un tempo che trova la propria compiutezza tornando alla calma serena del processo linguistico, con le sue concatenazioni e con i suoi ripensamenti. Attraverso l’intelligenza di uno sguardo che sa leggere il linguaggio anche come fenomeno collettivo e continuamente verificabile, frutto di conquiste e rinunce, Pirri ci consegna un’opera intensa, energica, profondamente autonoma e intimamente motivata. La raffinata nostalgia che da sempre permea il suo lavoro sembra esprimere la tensione dell’artista verso una soglia, che è al tempo stesso il confine incerto dello spazio fisico dell’opera, sempre aperta e trascorribile, e anche la zona immateriale di un campo linguistico continuamente sottoposto ad analisi e sintesi.
La ricerca di Pirri non procede insomma per rotture o invenzioni a sorpresa, ma secondo i modi coerenti di un linguaggio che intende essere praticato nella sua storicità, e in questa storicità cerca la sua freschezza comunicativa e dialogica, più che meramente creazionistica. Allora appare evidente che anche questa mostra di Alfredo Pirri, come tutte quelle passate, debba essere letta non in senso assoluto e definitivo, ma come un racconto aperto, come appunto la bruma di un’alba che annuncia il ciclo perenne di morti e resurrezioni della pittura.

Andrea Bellini

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