Dialogo tra Cecilia Canziani e Davide Ferri in occasione della mostra Giorno/Notte presso Eduardo Secci Contemporary, Firenze, 2019

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Giorno.

Cecilia Canziani: è un invito diverso dal solito

Davide Ferri: non tanto, ogni invito a scrivere su di una mostra è un incontro

C.C.: sì, ma normalmente ci si prefigge un obiettivo, un fine. Si scrive un testo, che in un certo senso è la traduzione dell’incontro tra artista e critico, critico e opera, opera e pubblico. La consuetudine con l’artista può continuare, ma l’occasione produce una forma chiusa, per così dire.

D.F.: in questo caso l’invito è aperto

C.C. Esatto. Entrambi conosciamo Alfredo Pirri da diverso tempo, ma l’invito a scrivere di questa mostra è l’inizio di una conversazione a tre voci, di durata indefinita, e perciò anche il testo che accompagnerà la mostra sarà un frammento di qualcosa che continuerà nel tempo. Insomma, mettiamo in scena un patto reciproco. La premessa quindi è: una visita allo studio di Roma di Alfredo Pirri, una domenica mattina di sole. Quartiere Tuscolano, che Alfredo dice essere il più densamente popolato d’Europa: ha tanti abitanti quanti la Valle d’Aosta. Il tipo di osservazione che per me è tipica del suo modo di guardare alle cose, e che nell’apparente leggerezza fa sempre pensare. Lo studio è uno spazio ctonio, si scende una scala, ci si trova nel ventre di un palazzo, circondati da edifici di otto, nove, dieci piani. Un falansterio, tipico di questa parte di Roma. Lo studio si snoda stanza dopo stanza, in una successione di spazi funzionali che sono laboratorio, archivio, magazzino. Avevo appena letto il testo di Ilaria Gianni per il libro i pesci non portano fucili, ed è proprio come lei dice, è uno spazio sorprendente, che sembra continuare all’infinito.

D.F. Questa volta lo studio ospitava i lavori per la mostra di Firenze, ripartiti in tre ambienti – e più o meno nella stessa progressione in cui saranno installati.

C.C. Il primo oggetto che si incontra nella mostra è un lampione. Una grande biglia trasparente, montata su un palo della luce in tutto simile a quelli disseminati nella città accoglie lo spettatore. È un brano di città. La dimensione urbana, nel senso di spazio ma anche di modo di stare in un luogo, come comunità, è un aspetto importante nel lavoro di Pirri. E c’è un’altra cosa che mi sembra importante sottolineare: la superficie della biglia è stata realizzata con un plexiglass che ha un effetto frosted glass. Insomma, è un materiale che rifrange la luce e complica la visione. In maniera diversa, ma simile allo specchio che pure Alfredo Pirri usa molto, rifrange l’immagine, la frammenta.

D.F. Un lavoro simile, commissionato da Paola Tognon che dirige il museo Fattori, sarà collocato a Livorno all’interno di un boschetto di bambù, e delimitato da una zona di rispetto. L’effetto in esterno e in interno è molto diverso, e forse è interessante pensare quasi questi interventi in relazione, ma quello che è un dato importante è che la luce è in fondo un materiale – è un equivalente del colore. Con Alfredo, ad un certo punto della nostra conversazione, abbiamo parlato proprio di colore/luce, poi di colore/cemento (in questo caso in relazione alle Arie, come delle due nozioni di colore che sostengono la sua pratica. Si tratta in entrambi i casi di colori che costruiscono lo spazio.

C.C. ..nel senso che come la luce e il cemento il colore si espande.

D.F. E come il suono – dunque potremmo anche aggiungere la definizione di colore/suono, che anche in questo caso sottende una capacità del colore di espandersi, di “fare spazio” -, a cui anche Alfredo guarda spesso. Questo ritorna anche nelle grandi carte installate nella prima sala, acquarelli su carta Arches, la cui superficie è stata incisa con forme circolari. Il colore si addensa, si precisa nei solchi, ma l’effetto è quello di un colore che sembra essere soffiato a partire dal centro di queste figure, come quando un sasso cade nell’acqua, o come le onde acustiche.

C.C. A me fanno pensare a mappe astrali, cieli stellati – c’è una relazione molto forte con studio per All’imbrunire, da città trasfigurata, notturna. I materiali – i supporti – sono sempre molto importanti per Alfredo: prendi la carta Arches. È una carta che ha una qualità specifica nell’assorbire il colore, il taglio. O il plexiglass, che qui ricorre in molti lavori, è un materiale industriale, ma da anni Alfredo collabora con un’azienda per reinventarne formule. E poi i colori, le lacche.. Insomma, c’è un’attenzione da artigiano rispetto ai materiali, ma proprio – e sempre – in termini di quanto essi veicolano luce e colore: come vibrazione, quasi come ritmo, no?

D.F. Frequenze luminose, dice Alfredo – ed è un’espressione che riassume bene un aspetto del suo lavoro. C’è il supporto, c’è il colore, e c’è un materiale che lo veicola – in questa relazione c’è un equilibrio, la possibilità dell’oggetto di proiettare attorno a se’ uno spazio, un’espansione, insomma. Una di queste carte: Indaco e neutral tint. Sì, sembra un cielo notturno. Tutta la stanza sembra rimandare a una visione di notte. Però a questo espandersi corrisponde un altro movimento: una sorta di caduta, un cedere – o affidarsi – alla forza di gravità.

C.C. Questo si percepisce anche nei grandi plexiglass di piume nere. Anche questi lavori sono scuri, la materia è catramosa: le piume che sono pneuma, respiro, in questa serie sono dense, vischiose – diventano una materia oscura – ctonia, primordiale.

D.F. Ma conservano anche l’altro movimento: sono lastre sospese, e scostate dal muro – ciascuna trova una propria giusta distanza – moltiplicano attraverso il riflesso la propria aderenza al piano pittorico, si sottraggono alla gravità. Per via della distanza e della diversa articolazione delle distanze, inoltre, è come se lo sguardo si muovesse, dilatandosi, dal piano pittorico, dalla lastra come presenza oggettuale, ad una dimensione che eccede i limiti materiali della superficie – sai quanto sono interessato all’idea di quadro e sue articolazioni, materiali (in comune con Alfredo abbiamo anche questa venerazione per i libri di Stoichita, che in modo così chiaro ha parlato dell’emersione della consapevolezza, nel mondo fiammingo del sedicesimo e diciassettesimo secolo, dell’idea di quadro come oggetto. Alfredo non nega mai questa presenza materiale dei suoi lavori, ma ci gioca, contraddicendola con le vibrazioni che ogni suo oggetto dipinto è in grado di generare. È come quando apri il suo libro edito da Quodlibet, I pesci non portano fucili, il pieno delle pagine quando il libro è chiuso, posato sul tavolo, dunque in tutto e per tutto un oggetto, una presenza materiale, è controbilanciato dal riverbero del colore dell’interno della copertina sulla prima pagina, che in fondo è la sottolineatura di un altro spessore, quello del vuoto.

C.C. Il vuoto era anche il tema di una discussione che ascoltammo anni fa a casa di Alfredo – era la prima volta che tu lo conoscevi, ti ricordi? – a cui partecipò tra gli altri Pietro Montani. Il vuoto in scultura è generativo. Pensa al vaso come forma archetipica della scultura: superficie tesa attorno a un vuoto. L’oggetto che vediamo ha la forma del vuoto che contiene. O pensa alle Nature di Fontana, o alle sculture in terracotta di Arturo Martini: le percepiamo come un soffio. Di nuovo: pneuma: un respiro che conferisce una forma. Io sento sempre molto forte in ogni lavoro di Alfredo una tensione tra pittura e scultura, grace et pesanteur

D.F. Guarda anche come la seconda e la terza stanza stanno in relazione una con l’altra: in una, il centro è vuoto, i pannelli d plexiglas, così verticali, quasi luttuosi, quasi arcaici, listano le pareti.

Nella sala seguente i muri sono spogli, mentre il centro è occupato da una grande struttura modulare e praticabile. Vuoto e pieno, nello spazio espositivo, ma anche nello spazio dell’opera.

C.C. Studio per Compagni e Angeli è pura luce. Sono tutte – come le hai chiamate? – frequenze vitali: giallo, arancio, rosso, verde. All’interno delle lastre di plexiglass galleggiano piume, sembra davvero un contrappunto alla prima stanza. Torna il respiro delle carte, la leggerezza della prima sala anche se qui ha un ritmo diverso.

D.F. Mi viene in mente, guardando questa struttura che fa pensare a Dan Graham per le trame di sguardi che l’opera è in grado moltiplicare su/attorno a se’, un’espressione bellissima che Lara Conte usa per il lavoro di paolo Icaro: parla di minimalismo mediterraneo. Questa definizione ha molto a che fare con il modo di Alfredo di pensarsi come autore: “riscaldare” la forma/l’oggetto minimalista (dotandolo di un potenziale vagamente narrativo) è il suo modo di apparire nel lavoro come presenza autoriale.

C.C. Da un lato siamo all’interno di un modulo: i pannelli hanno una certa misura data dallo standard di produzione, dall’altro però queste superfici sono anche colore, lo essudano, lo proiettano e lo spazio che pratichiamo è uno spazio reale, investito di luce. E’ uno spazio confortevole, si sta bene dentro queste nicchie. Se alzo lo sguardo trovo ancora colore – se devo pensare a un uso simile dello spazio penso di nuovo a Fontana, che è tra i pochi artisti in anni vicini a noi ad aver usato non solo muri o pavimento, ma anche il soffitto che è stato un luogo privilegiato per la pittura per secoli – poi basta.

D.F. L’impressione è anche di una struttura la cui forma non può essere afferrata facilmente dallo spettatore, un lavoro centripeta, senza centro, con molti centri, che abolisce le differenze tra dentro e fuori, un lavoro non finito, che può potenzialmente espandersi in un qui e ora dell’esperienza dello spettatore. Sì, ovviamente siamo proprio dentro a quella logica della scultura e del suo campo allargato di cui parla Rosalind Krauss..

C.C. Certo: lo spazio della scultura si apre, lo spettatore ricuce con la propria azione l’opera, ne diventa il centro.

C.C. Qui però il dato percettivo è ulteriormente complicato dal colore, e di nuovo rientra in gioco la pittura secondo me, perché il sovrapposi di diversi colori fa diventare questa scultura fluida, mutevole..

D.F. Alfredo parlava di Piero della Francesca, e in effetti questo è uno spazio reale, come reali sono gli spazi di Piero, ma definiti solo attraverso il colore.

C.C. Piero e Fontana –

D.F. Nel lavoro di Pirri siamo sempre dentro uno spazio, lo vedi – anche qui. Una strada – la prima sala; una stanza, la seconda; un ambiente, la terza. Non è un caso che Alfredo ad un certo punto, ci abbia parlato dell’ultimo romanzo di Murakami (L’assassinio del commendatore), in cui si sente come imprigionato. La qualità di alcuni libri di Murakami, come l’ultimo che anch’io ho appena iniziato, è proprio che tutto concorre a far entrare il lettore in un ambiente preciso con le sue articolazioni, e ogni volta che lo riprendi in mano è come se venissi di nuovo catapultato in quello spazio, prima che in una storia. La questione dello spazio, dell’architettura, è ancora più evidente nei disegni, che hanno quasi sempre una cornice architettonica.

C.C. ..o nelle diverse versioni di Passi, in cui l’architettura si specchia e si riflette nell’intervento a pavimento (ma gli specchi sono rotti, anche in questo caso la visione viene complicata). Stefano Velotti scrivendo di ..Eppure siamo solo all’inizio.. ricorda che Pirri parla di alcuni suoi interventi architettonici come di pittura espansa. Così le superfici trasparenti o rifrangenti, la pittura vischiosa o luminosa, le piume e il colore, sono funzionali alla creazione di spazi che si attivano attraverso il cambiare della luce. Uno spazio di luce. Uscendo dallo studio il corridoio ipogeo che porta allo studio, abbiamo notato le grandi macchie geometriche proiettate sul pavimento dal sole che filtrava dall’alto. E ci siamo scattati due foto. In campo e controcampo. Giorno. Notte. Giorno.