Testo scritto in occasione del incontro pubblico su Arte e Stato
Sabato 20 settembre 2014 dalle ore 10,30 alle ore 18,30
Sala della Guerra, Galleria nazionale d’arte moderna
Viale delle Belle Arti, 131 – 00196 Roma

Questo testo, diviso in tre variazioni denominate “Prologo” “Testo” e “Canto”, è stato composto riscrivendo frammenti di miei testi precedenti con l’aggiunta di altri scritti per l’occasione.

Prologo

Riflettendo sul rapporto fra arte e stato e preparandomi a scriverne, ho riletto altri miei testi precedenti e riguardato al mio lavoro alla luce del tema da trattare. Mi è apparso che nel tempo si sia annidato dentro entrambi, come un soggetto che agisce nell’ombra, un argomento che solo per semplicità chiamerò politico. Ma questo termine non esprime pienamente il senso di quanto vorrei dire perché non mi aiuta a fare emergere in me quegli aspetti consapevoli e centrali che ne farebbero un soggetto pieno e autonomo. Riesco a parlarne, invece, solo come il risultato residuale o addirittura accessorio dentro un’immaginazione e una pratica artistica più ampia che l’accudisce.

Quest’ombra scura, rintanata nel mio lavoro, esprime la convinzione che ogni forma politica (particolarmente quella per eccellenza lo stato), sia il risultato di una varietà e quantità d’immagini e azioni artistiche accumulate nel tempo che ne hanno lentamente disegnati i contorni e motivato i contenuti. Quest’idea, piuttosto fantasiosa e poco dimostrabile, quasi solo un’immagine, mi fornisce lo spunto per pensare che lo stato non possa considerarsi come l’organo semplicemente tecnico, logistico e amministrativo che conosciamo ma che, invece, dovremmo riuscire a immaginarlo essenzialmente come la simbolizzazione sintetica e la forma maggiormente raffinata dell’azione di un popolo, una forma pubblica composta di un insieme d’immagini individuali ma che non è ottenuta sommandone aritmeticamente le singolarità, bensì è il risultato di un’azione di scambio permanente che fa si che ogni volta che queste vengono in contatto qualcosa dell’una rimane intrappolata dentro la struttura molecolare dell’altra.

Da questo ragionamento ne deriva che si possa parlare di stato solo se s’intende come la forma maggiormente rappresentativa di quelle identità in gioco che sommate fra loro, assumono i caratteri di una moltitudine e di un popolo e tutti noi sappiamo come sia proprio l’atto artistico, per la sua capacità di inglobare caratteri differenti, quello che maggiormente ne ha caratterizzato (fino ad oggi) l’identità e di come questa, grazie all’arte, possa oggi intendersi come apertura democratica e dinamica e non sclerotica difesa di una forma fissata per sempre.

All’inizio di queste mie riflessioni ho avuto spesso (come molti di noi credo) la sensazione che arte e stato fossero inconciliabilmente antagonisti, oppure che ci fosse, sì, un legame ma solo strumentale, invece ho poi compreso come un vincolo sotterraneo e forte, un desiderio di simbolizzazione osmotica li lega entrambi al medesimo destino e che ogni artista, quando realizza un’opera, tenda forse a rinnovare questo vincolo dandogli forma nuova. Non solo donando vita all’opera, ma anche inventando un modo e una forma dello stare insieme intorno o di fronte a quell’opera e creando, di conseguenza, un’azione che porta dentro il gesto estetico anche un’etica del come stare insieme nei confronti dell’opera medesima. L’insieme e direi quasi l’assemblea di questi modi etici di porci in confronto alle opere d’arte costituisce, a mio parere, le fondamenta essenziali dello stato democratico. Parlo di assemblea di modi differenti invece che personali solo perché laddove si affermi in maniera esclusiva la forma individuale, si attesta la pratica di un’arte al servizio diretto dello stato e conseguentemente di uno stato solo apparentemente estetico in realtà an-esteticamente asserragliato intorno alla caratterizzazione e alla difesa di una forma estetica preminente. Uno stato che si propone come forma autosufficiente e auto generante. Infatti, talvolta accade che un solo, singolo, artista crea opere che divengono oggetto centrale o addirittura di culto per l’apparato politico e per lo stato che delega quell’opera singola il compito di rappresentarne la sua essenza e identità. Se questo accade (pensiamo al rapporto fra fascismi e avanguardie), è a causa di motivi tutti interni all’opera e di un’etica talmente incarnata nella sua estetica, da farne un’immagine che si trasforma nella metafora vivente di una forma perfetta e quindi (solo all’apparenza) ripetibile e utilizzabile dalla realtà politica come propaganda. Naturalmente tutto questo è maggiormente evidente nelle dittature, ma supponendo che negli stati democratici questo non accada, succede invece che il dominio di una forma su tutte le altre trovi sostegno e legittimità anche poetica, dentro il sistema economico che sostanzia lo stato riconoscendogli un lauto stipendio sotto forma d’investimento culturale (con relativa focalizzazione dei profitti).

Dovremo, allora, inventarci un nuovo dispositivo conservativo (e vitale allo stesso tempo) capace di fornire all’economia, allo stato e all’arte una prospettiva fondata sulla complicità. Non però contraddistinta dal malaffare ma basata su un sistema che preveda perfino lo scontro e la differenza di finalità, ma dentro un patto fiduciario reciproco e rinnovabile, oppure saremo costretti ad assistere inermi alla liquefazione sia dell’arte sia dello stato, che assumeranno sempre più una dimensione informe e caratterizzata da una parte dall’estetizzazione della politica dall’altra dalla politicizzazione dell’arte, due strategie un tempo contrapposte e alternative ma, invece a mio parere, oggi, perfettamente apparentate da una strategia comune.

Testo

Giovanni Battista diceva di sé: Io sono Voce di uno che grida nel deserto.
Il suo grido solitario era distinguibile all’orecchio più lontano, il deserto ne accudiva e intonava la voce amplificandone il suono dentro l’aria calda e vibrante. Trasportava il senso delle sue parole lontano, oltre i suoi confini naturali, di fronte al popolo, dentro le sue tende, al cospetto dei potenti.

Anche l’artista urla per affermare, attraverso opere e parole, i suoi principi ma urla anche di paura quando questi principi diventano egemoni rispetto alla loro forma artistica. Quando le sue idee, proprio quelle cui egli stesso ha dato forma, sono divise dalle opere e assunte a principi generali e poi trasportate lontano fin dentro i confini dello stato senza che esso sappia accudire alle immagini trasformandole in propaganda.

Infatti, un insieme di principi e paure compone il nostro grido attuale.

Gridiamo innanzitutto la convinzione che pratica artistica e democrazia scorrano parallele e gridiamo l’idea che l’arte abbia introdotto nel mondo l’esigenza stessa della democrazia. La conseguenza non è però che la democrazia sia l’ambiente necessario e naturale dell’arte o perfino il suo destino, ma che modificando (come fanno la storia e le azioni degli uomini) i caratteri dell’una, mutino profondamente anche quelli dell’altra. La questione del debito di forma della democrazia nei confronti dell’arte non è riassumibile nelle frasi che dicono “senza democrazia, non può esserci arte” oppure “nessuna poesia dopo Auschwitz” (che in fondo coincidono), si dovrebbe al contrario dire: senza l’arte la democrazia non è immaginabile ed evidenziare l’urgenza della poesia proprio dopo Auschwitz, quando bisogna predisporsi all’arrivo di una democrazia disposta realmente a risarcire il suo debito con l’arte.

Così inizia a chiarirsi i contorni di un discorso che sappia comprendere come la democrazia (e la sua forma principale, lo stato) siano conseguenza manifesta delle riflessioni e delle pratiche artistiche, pur rimanendo l’una e l’altra formalmente e sostanzialmente indipendente. Sono convinto, ad esempio, che l’assonanza dei termini “rappresentanza” e “rappresentazione” ci indichi qualcosa in più di un semplice sillogismo. Quest’assonanza ci suggerisce che un’arte fondata sulla mancanza totale e ultimativa di ogni forma di rappresentazione porti a creare un’astrattezza (più che un’astrazione artistica) e una distanza dalle cose che mette radicalmente in crisi la necessità stessa di ogni rappresentanza politica. La democrazia astratta e immateriale genera uno stato separato e privo di narrazione ma, attenzione! Quando lo stato si appropria dell’urlo narrativo dell’arte uniformandosi a essa o addirittura cercando di espropriarne le caratteristiche e riproducendolo goffamente, diventa uno stato che uccide l’arte integrandone le forme. Bisogna allora che lo stato s’impegni a salvaguardare il grido dell’arte rinunciando a farlo proprio ma prendendone a modello la narrazione.

L’arte e lo stato di un popolo sono l’incarnazione e la somma dei suoi manufatti artistico-storici, dei luoghi rappresentativi della sua identità politico-estetica e delle prospettive che questi aprono per il cambiamento civile della popolazione. Una presa in carico di questa prospettiva è alla nostra portata, prenderne atto dipende solo da noi e dai nostri sentimenti. E’ necessaria un’apertura che non scarti nulla del paesaggio esistente, ma aiuti invece a fare emergere quanto di bello ci sia in ogni cosa, quanto di umano e quanta narrazione abiti il paesaggio stesso, sia inteso in termini naturali sia culturali, anzi solo insistendo sul legame indissolubile fra i due aspetti si può pensare di comprenderne, proteggerne e valorizzarne dinamicamente l’identità.

L’idea di quanto il paesaggio naturale e conseguentemente quello culturale siano oggi distanti dal nostro sentire è detto in maniera esemplare da da Rainer Maria Rilke nel libretto “Worpswede” del 1902.

…il paesaggio ci è totalmente estraneo, e siamo spaventosamente soli fra alberi che fioriscono e torrenti che scorrono. Quando siamo soli con un morto, non siamo così privi di protezione come quando siamo soli con un albero. Per quanto la morte possa essere misteriosa, ancora più misteriosa è una vita che non è la nostra, che non si interessa a noi, e che quasi senza vederci celebra le sue feste, a cui assistiamo con un certo imbarazzo come ospiti arrivati per caso, che parlano un’altra lingua…

Canto

Prima, Rilke ci diceva che neanche vicino a un morto ci si senta tanto soli quanto vicini a un albero ma, aggiungerei, oggi, anche dentro una piazza o di fronte a un quadro. Per esprimere questa solitudine e reagire a essa l’artista, con la sua opera e le sue parole, grida dentro il deserto dei sensi cercando di dirci che intorno a questo grido, solitario e armonico allo stesso tempo, bisogna tornare a modellare e organizzare un sistema complesso in cui riesca a convivere creativamente quel sistema-recinto oggi chiamata democrazia all’interno della quale spicca, come un castello medievale, la forma dello stato con le sue opere, oggi di contorno.

Al contrario, troppo spesso s’impedisce a quella voce di arrivare dappertutto. La nostra voce, e quella che vi sta parlando ora ne è esempio, non appartiene né a un singolo né a un collettivo, proviene invece da una dimensione intermedia e stonata non contrassegnata né dallo stare solitario né da quello comune. La mia voce canta, in questo momento, un canto non armonico insieme con quelli che hanno urlato nel deserto urbano senza riceverne risposta, quella risposta che ci aspettavamo ci tornasse come un eco riverberante che ci avrebbe confermato l’esistenza di qualcosa di solido contro cui urtare, qualcosa che avrebbe forse contribuito a dare forma a quell’urlo, il destino stesso del suo cantare, il cristallo che ne avrebbe amplificato il suono. La mia voce invece, oggi, appartiene a quelle tante che hanno urlato e che mai hanno ricevuto in dono l’eco di una voce temperata e intonata dalle forme dello stare collettivo.

Un io che è un noi vorrebbe essere qui con voi per continuare a cantare insieme la canzone di Allen Ginsberg:

… Ho visto le migliori menti della mia generazione
distrutte dalla pazzia, affamate, nude, isteriche…

La nostra gente e la nostra generazione, ha urlato nelle strade “Vogliamo tutto!” non però tutto il possibile ma tutto il desiderabile. Invece in tutti questi anni, il desiderio non è stato modello del possibile e neanche il possibile ha dato forma al reale. In questi anni, abbiamo chiesto poco, perché volevamo viaggiare leggeri e veloci, in risposta ci è stata concessa una creatività irresponsabile, volevamo spazio e abbiamo avuto in cambio forme scimmiottanti il migliore dei mondi immaginabili, abbiamo chiesto ascolto per le nostre parole nuove, delicate e complicate, ricevendone una multimedialità che ci rimbomba dentro la testa come un cannone. Adesso non vogliamo più tutto, avendo capito l’imbroglio, ma desideriamo essere intatti attraverso immagini che sviluppino storie, avere fiducia nelle sue composizioni e in un’identità formale.

Per fare questo abbiamo bisogno di un’arte e d’istituzioni politiche convinte di non doversi consumare nello sforzo di un semplice conoscere comune, ma che sappiano porre questo movimento dentro un orizzonte che generi prospettive di conoscenza, partendo da noi non attraverso un gesto di riflessione (cioè di chi guarda il mondo facendosene specchio), né tanto meno dentro uno d’astrazione (cioè di chi guarda il mondo disprezzandolo), bensì dando vita all’esperienza di un’immagine che chiede costantemente al linguaggio di fornirgli materiali poco comuni ma non per questo solitari, inadeguati ma non per questo intraducibili, stonati e proprio per questo armonici.

Bisogna affrontare quest’esperienza nuova sapendo che l’immagine artistica non si esaurisce nella messa in scena di una fraseologia politica e neanche di una pura idea, semmai, rappresenti, nella commedia degli uomini, il lato oscuro, la risposta mancata, il rilancio del problema, in questo l’arte assomiglia alla domanda permanente che opera il pensare filosofico. Per questo vorrei terminare, citando e poi alterandone la frase, alcune righe celebri tratte dall’ultima intervista del filosofo Martin Heidegger, rilasciata allo Spiegel nel 1976. “… la filosofia non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato attuale del mondo. E questo non vale soltanto per la filosofia, ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana. Ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta, come unica possibilità quella di preparare nel pensare e nel poetare, una disponibilità all’apparizione del Dio o all’assenza del Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del dio assente, noi tramontiamo)… “

Riscrivendo la frase chiedendole di piegarsi al nostro tema e chiedendo perdono da ora a chiunque si sentirà offeso da questa riscrittura, potrebbe diventare:

… è evidente che l’arte non produca nessuna azione positiva e concreta nel mondo attuale. Ciò come conseguenza dell’altrettanto ormai evidenza che il mondo, la sua stessa presenza, insieme alle forme politiche che ne hanno finora garantito l’esistenza sia ormai estinto. Questo non vale soltanto per l’arte, ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana. Ormai solo uno stato ci può salvare. Ci resta, come unica possibilità quella di preparare nel pensare e nel poetare, una disponibilità all’apparizione dello stato o all’assenza dello stato nel suo tramonto (al fatto cioè che, al cospetto dello stato assente, noi tramontiamo)…

Alfredo Pirri
Roma 2014