intervista di Carolyn Christov- Bakargiev pubblicata in Flash art, n. 161, aprile-maggio 1991.

COMPITO DELL’ARTE E’ TESTIMONIARE UN’ALTERITÀ IRRAGGIUNGIBILE.

Alfredo Pirri: La mia strada d’artista è stata molto lineare. Disegnavo alle Scuole Medie, ho dipinto al Liceo Artistico, ho studiato all’Accademia di Belle Arti spostandomi da Milano a Firenze e a Roma; cercavo fra le Accademie la dottrina, ma non l’ho trovata. Ho finito nel 1978, giusto in tempo per riscaldarmi alle ultime fiammate della politica che inceneriva l’Italia. Fra i primi quadri che hai visto, alla metà degli anni 80 a Palazzo Braschi a Roma, c’erano delle opere visionarie sul tema della luce. Parallelamente, e in margine alla ricerca pittorica, ho realizzato alcune opere video. Mi interessava l’aspetto “collettivo” del lavoro video, fatto insieme ad attori e tecnici: ho realizzato delle opere insieme a Giorgio Barberio Corsetti e a Sandro Lombardi. Ho anche realizzato delle scenografie teatrali fatte di proiezioni multiple di diapositive per due spettacoli di Krypton, l’Eneide e Angeli di luce: si lavorava sull’immaterialità delle luci e delle proiezioni.

Carolyn Christov-Bakargiev: Verso la metà degli anni 80, hai usato la grafite per fare dei quadri che simulavano superfici metalliche, come nel caso della mostra alla galleria Planita di Roma nel 1987.

A.P.: La grafite è la materia di cui sono fatte le matite, la materia base del disegno. Quelle opere non simulavano il metallo, semmai lo “rappresentavano” nel modo più semplice, così come il colore in pittura può rappresentare altro da sé. Le forme erano circolari, assolute, senza prospettiva, e gli interventi pittorici sulla superficie alludevano a degli sfondamenti spaziali, a delle crepe di questa totalità. Erano opere simboliche, sottolineavano la necessità di un senso, non la simulazione di un materiale. Negli ultimi lavori circolari, ho dipinto il retro con un colore giallo che si riverberava sulla parete, a stagliare maggiormente l’oggetto in quanto forma assoluta rispetto alla parete. Il tema della distanza è poi diventato sempre più determinante, fino a portarmi alle prime Squadre Plastiche, annullando il valore di “stacco” dalla parete. Le prime, nel 1987, erano nere, poi ho fatto quelle bianche e via via le altre.

C.C.: Negli ultimi anni hai partecipato ad alcune mostre collettive e sì è parlato di una nuova “generazione” di arte italiana. Condividi questo punto di vista?

A.P.: Dopo le esperienze espositive di cui parli ho capito che il problema di appartenere ad una “nuova generazione”, ampia e capace di soppiantare quella precedente non mi riguarda. Io sono nato nel 1957, oggi ho 34 anni e ritengo di appartenere ad una “microgenerazione” che rischia di rimanere schiacciata da realtà “collettive-generazionali” più potenti e soprattutto più coesive. Parlare a fondo di questa “microgenerazione” (e non penso solo ad artisti), della sua identità, è complesso, perché si dovrebbe parlare a fondo della questione del soggetto, di come questo si pone in relazione al tutto e viceversa, questo credo sia il problema autentico delle persone a cui penso oltre al tema della moralità, che è solo un riverbero di quello che ti dicevo prima. Si parla sempre di identità generazionali, ed io osservo i miei simili preoccupati soprattutto di sfuggire a questo: è come se ci dessimo degli appuntamenti clandestini in luoghi tenuti segreti agli altri, fuori da sguardi indiscreti. Rimane il problema delle mostre, forse è la casualità della vita che ha portato a quelle collettive. E’ curioso, forse ad un certo punto si è immaginato che i rapporti umani, le contingenze del momento, potessero sostituire le ideologie ed i sentimenti. Io oggi non ci credo più. Gli “artisti giovani” (molti di loro), considerano il lavoro come una sintesi diretta dell’esperienza, con un atteggiamento di cinismo pragmatico che non posso condividere.

C.C.B.: L’incontro con i testi di Yukio Mishima, al quale hai dedicato un’opera a Taormina nel 1988, a quando risale?

A.P.: Nel 1968 avevo undici anni e ricordo alcuni scontri di piazza e anche dentro il palazzo in cui abitavo, fra estremisti di destra e di sinistra. Mishima era un personaggio amato dalla destra, innanzitutto per il suo patriottismo. Ma lo stesso autore era amato anche da persone dell’estrema sinistra. In pratica, in Mishima, c’era un fatto che riuniva queste due polarità contrapposte in un interesse unico, quello dell’esaltazione della violenza. Di questo mi sono accorto solo molti anni dopo, quando l’ho letto, appunto. Amo le scelte vitali, esistenziali e letterarie di Mishima così come la qualità narrativa di Peter Handke, oppure la scrittura filosofico-letteraria di Blanchot. Diciamo che sono portato ad amare gli scrittori che manifestano una forte tensione nella ricerca di una sintesi fra la loro esperienza personale e la loro scrittura, o che almeno di questo trattano. Nell’opera di Taormina che citi ho ripreso il testo di un discorso di Mishima – Gli effeminati intelletuali – un discorso molto aggressivo e dolce allo stesso momento, rivolto agli intellettuali che non agiscono. Non è che io condivida tutto quello che Mishima dice: ignorare ogni poesia e scegliere invece una forma diretta di azione, anche perché lui stesso è stato tutta la vita un letterato ed un grande poeta. Ma, al di là di quel suo invito quel che mi interessa molto è l’aspetto fortemente soggettivo, la forsa del “soggetto” Mishima. A Taormina, ho -presentato l’opera nella sede di una vecchia associazione di combattenti e reduci, il che conferiva un’ambiguità al tutto, uno stridore fra la declamazione del discorso di Mishima, le immagini del video e il luogo, “patetico”, dove il tutto avveniva. In fondo anche il comizio finale di Mishima aveva qualcosa di “patetico”.

C.C.B.: A seguito delle Squadre Plastiche (1987/89) dove il colore è dato sulla parte posteriore sagomata di tavole monocrome, conferendo loro un’aura di luce riflessa dalla parete, e dopo le cornici presentate alla galleria Carini di Firenze (primavera 1989), dove la luce colorata è riflessa all’interno stesso dell’opera, stai ora lavorando a nuove opere, presentate ultimamente alla galleria Tucci Russo di Torino (aprile 1990), da Lia Rumma a Napoli (aprile 1990) e allo Studio Casoli a Milano (dicembre 1990-gennaio 1991). Questi lavori entrano tridimensionalmente nello spazio in una maniera molto invadente, lontano dalla rarefazione delle prime Squadre Plastiche.

A.P.: Le strutture tridimensionali propongono un’invasione dello spazio che però non è effettivamente corporale. E’ come se lo spazio fosse invaso da fantasmi. Attraverso gli strumenti della pittura, queste strutture lievitano perdendo ogni loro dato fisico. Riescono a scomparire e quindi, in fondo, non c’era molta differenza fra queste opere e le Squadre Plastiche. In tutti e due i casi, l’impianto tecnico tende a dematerializzarsi attraverso la luce ed il colore. La mostra di Torino si chiamava GAS. Erano esposte tre tipologie di opere secondo un ordine narrativo che parlava della trasformazione della materia (cromatica). Nel piano basso della galleria, lungo le pareti, erano esposti dei frottage ad olio su tela di grandi tombini del gas e nello stesso ambiente, in modo sparso e disordinato, erano esposte le strutture tridimensionali orizzontali (coricate) di cui parlavamo. Al piano superiore, in un ambiente leggermente modificato con una divisione netta in due parti (la zona per le opere e quella per lo spettatore), erano esposte cinque Squadre “quasi nere”, saturate cromaticarnente verso il buio. L’andamento della mostra descriveva la trasformazione di un veleno, che provenendo dal sottosuolo trova vari ostacoli ed ogni ostacolo diventa una forma: dal primo impatto frontale e piatto, quello della tela, la materia si trasforma in struttura (anzi in vuoto di struttura) bianco-glaciata destinata all’organizzazione ed al riposo. Da questo riposo si originavano le opere del piano superiore, grumi di materia colorata portata ai limiti della percezione, ai limiti della differenza, c’è un blu quasi nero, un viola quasi nero e così via. Il colore è tenuto prigioniero, se ne avverte il lamento. E’ il racconto di un luogo di provenienza del colore. Il colore è una materia nobile trattenuta in un veicolo sintetico; in questo senso il colore è imprigionato, intrappolato ed ingabbiato. E’ di nuovo l’idea di un grumo condensato di nobiltà. Si tratta del completamento di una tradizione e non tanto di una riunificazione simbolica o mitologica di opposti.

C.C.B.: L’ambiente della tua recente mostra milanese allo Studio Casoli fa pensare, a prima vista, a quello di una biblioteca.

A.P.: Infatti c’è un dispiegamento dei materiali che ci fa pensare alle pagine di un libro, ad un fatto unitario. Però, oltre ad una biblioteca, si può pensare ad un museo di Etnologia, oppure ad uno zoologico (penso ad una sala sulle farfalle): il rapporto spaziale che si crea fra i quadri a parete e le strutture in legno (strutture portadisegni) fa pensare ai luoghi destinati alla catalogazione, ad una possibile azione di scambio fra tavoli e pareti. I lavori a parete sono interamente realizzati sulla carta degli inviti della mostra torinese, dove c’era scritto “gas”. E’ un atteggiamento ecologico nei confronti del proprio lavoro, un non voler sprecare le cose una volta fatte. Sopra i fogli tipografici sono intervenuto con dei colori realizzati tutti a mano. Sono terre o materiali mantecati e tritati nell’olio di lino. I “tavoli”, invece, sono fatti di piani di legno “glassati” con gesso la cui parte di sotto, però, è dipinta come nelle Squadre Plastiche sicché il colore della parte inferiore di ogni piano in legno si riflette sulla materia bianca del piano sottostante. È catalogatorio anche usare potenzialmente tutti gli elementi tradizionali del fare arte, la tecnica di realizzazione è una specie di somma di tutte le tecniche che ho usato negli anni passati.

C.C.B.: Che rapporto c’è fra le composizioni astratte che fai e l’Astrattismo storico?.

A.P.: Ogni singolo lavoro pittorico a parete contiene l’idea della serie. Metterli uno a fianco dell’altro evidenzia un senso di flusso o di andamento, in cui ogni opera singola acquista valore in quanto riesce a frenare il flusso, a farne un grumo, qualcosa di importante. I quadri sono una specie di ostacolo che si frappone al flusso generale. Complessivamente nella mostra c’è un’evoluzione di stili pittorici che rasentano tutti quanti l’Astrattismo, ma di fatto alcuni lavori, quelli appesi in basso sulle pareti, sono più vicini alla vera e propria decorazione astratta, che pure c’è in mostra. Nei tre grandi lavori frontali che si trovano ai punti estremi (focali) della galleria ho sviluppato, invece, la materia iconologica della croce: si passa da un atteggiamento decorativo ad uno simbolico, ad uno maggiormente astratto. La mostra è una grande storia della pittura in cui alcuni elementi fondamentali del disegno e della pittura vengono presi in considerazione. Di fatto, però, si tratta della storia della mia pittura, della mia arte: non dunque una mostra catalogatoria della Storia dell’Arte, ma una mostra riflessiva e autobiografica, catalogatoria dei miei sentimenti sull’arte. C’è la storia della decorazione parietale, la storia dell’iconologia, della pittura astratta, la storia dei materiali che compongono la pittura e a fondamento di tutto, nelle strutture tridimensionali in legno, c’è il rapporto tenero che si può stabilire fra il dolce ed il disegno, che è il cuore delicato della pittura. Paradossalmente, le strutture tridimensionali sono un omaggio al disegno.

C.C.B.: Ma le forme in gesso che stanno sui “tavoli” e che sembrano quelle delle torte di una pasticceria sono estremamente compatte e dure.

A.P.: E’ un’immagine delicata e tenera, perché quei gessi sono accostati ai blocchi di carta da disegno bianca e, su tutto questo insieme, si riverbera la materia pittorica tenuta nascosta, celata dai piani di legno, come se fosse predisposto nelle cose parlare di pittura.

C.B.B.: L’ambiente delle tue ultime mostre è molto pieno, ma allo stesso tempo le forme in gesso che presenti sembrano dei ftintasmi.

A.P.: Le mostre sono spesso un giudizio su come si provoca il vuoto: a mio avviso è sempre il frutto di un accumulo e mai di una rinuncia. In realtà, dunque, sto svuotando lo spazio riempendolo fino al paradosso, e così imponendolo come apparizione. Però è importante dire che l’apparizione non è la conseguenza di una semplice evocazione, non può esser detta con una frase e basta: è invece sempre il frutto di un lavoro. Lo svuotamento e la dematerializzazione sono frutto di una messa in opera e non di una rinuncia. C’è una materia che deve evaporare, e questo deve essere reale alla percezione.

C.B.B.: L’allestimento che fai è un’installazione nella quale viene coinvolto lo spettatore che vi partecipa attivamente, come l’attore sulla scena, oppure è più vicino all’arredamento di una casa, di una biblioteca o di qualche altro spazio di vita reale?

A.P.: Non mi piace il termine “installazione”. Non mi piace il suo dato teatrale. Qui non c’è un’unica opera nella quale entra il visitatore. C’è un ambiente unitario di opere che dialogano, e fra le quali cammina lo spettatore. In ogni caso c’è sempre un rapporto frontale, di confronto, fra ognuna di queste opere e lo spettatore. Se intendi arredamento come predisposizione ragionata di cose utili per la vita, allora questo è nelle mie intenzioni, che sono di predisporre ed organizzare gli elementi sottolineando l’utilità dell’arte, facendo vedere le cose per quello che sono.

C.C.B.: L’“ambiente” che crei nelle tue mostre sembra un luogo di tranquillità e di silenzio di studio, di lavoro o di raccolta delle cose, lontano dal caos della realtà. Che rapporto c’è dunque fra il tuo fare d’artista e il vivere in un’epoca di enormi rivolgimenti politici, economici, persino bellici? Il muro di Berlino è crollato, e purtroppo c’è anche la guerra nel Golfo Persico.

A.P.: Sono molto scosso dallo scoppio di questa guerra. Da quando è cominciata ho quasi smesso di lavorare. Mi sono trovato nell’impossibilità di decidere sul lavoro trovandomi anche nell’impossibilità di far valere una mia opinione a livello più generale. Solo in seguito sono arrivato alla conclusione che l’artista con il suo lavoro testimonia proprio questa “Tranquillità”, lo “Stare” in contrapposizione allo scorrere, tempestoso. “Stare” è uno stare nella tensione. L’arte, pur non essendo uno strumento politico, di fatto ha il compito di imporsi al posto dell’ideologia della guerra, che è molto più onnipotente di quello che si pensi e non si limita allo scoppio delle bombe. E’ un flusso malefico fatto sì di utilizzo di armi, ma soprattutto di un’ideologia arrogante e pragmatica che porta a considerare il mondo una cosa a portata di mano, qualcosa a cui rivolgersi con stupidità. Il compito politico dell’arte è questo: Testimoniare un’alterità irraggiungibile, che si rifonda in continuazione ad ogni spostamento conciliatorio del nemico. “Chi è il nemico? Il pubblico” (Godard, in Soft and Hard, 1985).