ALFREDO PIRRI, in G. Armogida (a cura di), Roma nuda. 60 conversazioni sull’arte, Miniera, Roma 2020, pp. 331-342.

La seconda metà degli anni Ottanta, in cui lei inizia ad esporre, è stata in Italia e nel mondo una stagione “nuova”, ricca di sorprendenti fenomeni e fermenti letterari e artistici. Di fronte a questo nuovo e vario panorama culturale, in che posizione si poneva?

In quegli anni succedevano cose discordanti. Da una parte, scoppiavano i colori, la sessualità, i suoni e i generi che si mischiavano; dall’altra, iniziavano a morire i ragazzi per una malattia ancora sconosciuta, che si sarebbe chiamata AIDS. I suoni erano ancora vivaci, ma si scurivano. Avevamo tutti adorato il film di Rainer Werner Fassbinder, Querelle de Brest, che ci aveva abituati ad un miscuglio di colori pastello e ombre cupe; poi siamo stati travolti dalle radiazioni di Černobyl. Tutto questo ha trovato una sintesi, agli inizi degli anni Novanta, in Twin Peaks di David Lynch, che guardavamo ipnotizzati dandoci appuntamenti collettivi.

All’inizio, ho partecipato ad un’avventura teatrale insieme al gruppo Krypton di Firenze, col quale ho contribuito a creare spettacoli in cui si sommavano immagini, movimenti e suono. Tutti gli elementi si mischiavano in maniera non specialistica o disciplinare; anzi, eravamo tutti alla ricerca di qualcosa che si distinguesse dalle tendenze identitarie dominanti. Più tardi ho iniziato a guardare agli artisti, poco più anziani di me, che, nel mondo (ma soprattutto in Europa), si trovavano in questo clima da “via di mezzo”: da una parte, il richiamo della storia e delle tradizioni artistiche (anche locali), dall’altro, il riferimento metodologico e immaginario ad altre discipline come l’architettura, la fotografia, il suono, e poi la sirena di una cultura anglosassone che era fuoriuscita dalla recente tradizione pop cercando una sua identità. Questi artisti, per me, erano un modello e li sentivo fratelli; alcuni li ho frequentati, altri no: Thomas Schutte, Günther Förg, Jan Vercuysse, Juan Muñoz, Tony Cragg…

In quel momento, ho sostenuto che la nostra non fosse una vera “generazione”, bensì una “micro-generazione”, cosa di cui sono tutt’ora convinto. Ho espresso quest’opinione in un’intervista del 1991 per la rivista Flash Art, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, in cui si tentava la prima ricostruzione critica della mia, pur ancora breve, esperienza artistica, e alla sua domanda: «Negli ultimi anni hai partecipato ad alcune mostre collettive e sì è parlato di una nuova “generazione” di arte italiana. Condividi questo punto di vista?», rispondevo: «Dopo le esperienze espositive di cui parli, ho capito che il problema di appartenere ad una “nuova generazione”, capace di soppiantare quella precedente, non mi riguarda… ritengo di appartenere ad una “micro-generazione” che rischia di rimanere schiacciata da realtà “collettive-generazionali” più potenti e soprattutto più coesive… e non penso solo ad artisti… Si parla sempre di identità generazionali, ed io osservo i miei simili preoccupati soprattutto di sfuggire a questo: è come se ci dessimo degli appuntamenti clandestini in luoghi tenuti segreti agli altri, fuori da sguardi indiscreti». Come dicevo, non pensavo solo agli artisti, ma anche ad alcuni scrittori che mi pareva cercassero rifugio in modi letterari inediti e classici allo stesso tempo (Peter Handke per me ne era l’esempio). Insomma, pensavo che solo ritagliandosi e abitando un pezzo di mondo fuori da quello dominante, ma non esterno all’esistenza, si potesse dare vita a qualcosa di differente e nuovo.

Sullo sfondo, il tramonto delle “grandi narrazioni” (Lyotard), la crisi del paradigma evolutivo modernista (Jameson) e, in Italia, il “pensiero debole”…

Non mi sono mai sentito a mio agio a bazzicare la festa postmoderna. Ne sono stato ospite come molti, ma marginale e scontento delle sue parole, delle sue forme, dei suoi rumori. Soprattutto le parole: me ne sfuggiva la voce, le trovavo degli slogan usati non per “sentire” sé stessi, cosa stesse succedendo dentro di noi, nei nostri corpi, ma per dominare gli altri con una ragnatela di termini dai quali mi sentivo intrappolato. Prendiamo il famoso libro del 1979 di Lyotard, ritenuto, a ragione, il testo fondativo di quell’epoca: La Condition postmoderne – Rapport sur le savoir, che si presentava, già nel titolo, come l’“analisi” di una “condizione”, il suo “rapporto”, il suo “rendiconto”, ed è diventato invece (e presto) un manuale d’uso, una guida ai comportamenti sociali e culturali, una lingua collettiva e dominatrice. Penso che la condizione postmoderna abbia rappresentato da una parte un potere verbale e formale, in particolar modo al servizio delle regole dell’informazione, dall’altro sia stato uno dei tanti sforzi, compiuti in un lunghissimo arco temporale che arriva fino ad oggi, per riconvertire, attualizzandolo non sempre in maniera coerente, il pensiero marxista, confermandone e perpetrandone il suo risaputo disprezzo per l’arte, relegata a un ruolo secondario nei confronti dei processi storici. Da questo presupposto ne è derivata una svalutazione dell’arte intesa come atto originale, soggettivo e creativo, e da qui il programma di concepire l’opera come laterale rispetto al processo artistico stesso, e la negazione conseguente della sua centralità dentro il dibattito culturale. In Italia, in alcune città, questo clima assumeva però caratteristiche differenti, anche di tipo politico; per esempio a Bologna, dove alcune figure angeliche, fantasiose e tristi, pur immerse dentro la “condizione postmoderna”, proponevano strade nuove, personali e appassionate: ad esempio Andrea Pazienza, Pier Vittorio Tondelli, Francesca Alinovi. Bologna era la nostra capitale culturale e politica, fin da quando ne era stata bombardata la stazione, facendone un simbolo di difesa della democrazia, e dove Carmelo Bene ne commemorava la strage dall’alto della Torre degli Asinelli, compiendo uno dei gesti artistici più importanti e memorabili in Italia.

Tornando all’inizio e ripensando a quanto accadeva nella società in rapporto al pensiero e all’arte, era molto diffuso leggere e cercare di capire le cose usando un approccio filosofico, soprattutto grazie a quello che proveniva dalla Francia, dove alcuni intellettuali provenienti dall’ala radicale cominciavano a ricoprire posti di potere politico. Anche io ero preso da letture filosofiche, ma preferivo rivolgermi alle parole di chi mi sembrava “originale” rispetto alle copie. Per questo, invece che leggere i nouveaux philosophes, che dilagavano con la foga di un verbo divino, preferivo leggere pensatori anomali come Maurice Blanchot, o tentavo di avventurarmi dentro il pensiero misterioso e fascinoso di Martin Heidegger, oppure andavo a sbattere contro Jacques Derrida come un moscone contro il vetro di una finestra. Col tempo, ho però sperimentato che l’arte non si costruisce con le suggestioni e le idee dei pensatori, tantomeno dei filosofi, che, anzi, nei casi migliori, sanno quanto siano le stesse opere d’arte e le poesie ad aprire strade ai concetti, con nuove domande rivolte al pensare e all’agire. L’arte si fonda su un’azione autorevole, ma antiautoritaria e non pre-potente come invece è quella di un pensare filosofico portatore, come ha fatto il postmodernismo, di risposte ultimative alle nostre domande interiori e collettive. Ma, nonostante questo allontanamento dalla filosofia e dal pensare, rimane attaccata a me, come una scoria di quel tempo, una piccola frase di Heidegger che definisce in questo modo cosa sia il “domandare” (che per me rimane la cosa essenziale dell’opera d’arte): «il domandare è la pietà del pensiero». Il postmodernismo era, senza pietà, crudele, ferreo, nonostante il suo aspetto di plastilina.

Questa “pietà del pensiero”, che crede nella dignità profonda dell’interrogare rivolto agli enti, all’essere e alla finitezza e che è propria dell’opera d’arte, assume un senso drammatico: non si tratta di acquietarsi in soluzioni finali, di percorrere vie rassicuranti, ma di affrontare peripezie imprevedibili e di continuare a pensare, trafitti da domande irrisolte. Domande che non vivono nella necessità della risposta né si rifugiano in consolanti utopie.

Per gli antichi la pietà era pietas: un sentimento collettivo, non personale come quello, un po’ psichico, che ciascuno di noi prova oggi, sempre e solo al proprio interno, senza nessuna condivisione comune. La pietas si prova tutti insieme partecipando alle cose essenziali della vita e dello spirito. Senza nessuna nostalgia per il passato, si potrebbe dire che l’opera d’arte è originata dalla pietas. È mossa da una forma, una parola o un suono, che si presenta a noi come qualcosa che, volteggiando fra spinte plurali e singolari, dà vita a un segno che con-muove, cioè agita coralmente le persone che assistono al suo mostrarsi grazie alla relazione che s’instaura fra di loro e fra loro e l’opera che ne è all’origine. Prende forma così quel paesaggio “drammatico”, abitato da quelle domande irrisolte, che lei evoca rappresentandole come pali che trafiggono, ma che, aggiungo io, punteggiano i confini dell’opera come un recinto protettivo. Proporrei un esempio che riguarda questo “volteggiare tragico” fra individuo e collettivo dentro una forma ben precisa; il film Allonsanfànt dei fratelli Taviani. Particolarmente le scene di due monologhi: il primo di Marcello Mastroianni, che osserva uno per uno i ribelli ritraendoli dentro la sua testa; il secondo, quello del solo superstite del gruppo, che va a morire nel tentativo di trasformare i contadini poveri in soggetti insurrezionali. Questo conflitto fra personale e sociale, singolare e plurale, storico e poetico è lo stesso che si agita dentro di noi di fronte all’opera d’arte e forse è anche alla base dell’arte stessa. Un conflitto drammatico che, come forse avrebbe detto Jannis Kounellis, prende forma dentro una “cavità teatrale”, come chiamava lui lo spazio dell’arte o della mostra. Questo termine, non per caso, proviene dall’ambito teatrale, dove si è riflettuto sui termini “drammatico” e “drammaturgico” in una maniera del tutto nuova. Come dicevo all’inizio di questa conversazione, nel teatro si sperimentava l’incontro di differenti discipline arrivando a generare pratiche difficilmente catalogabili, che hanno fortemente influenzato l’universo dell’arte. Nel saggio Sei assiomi per l’Environmental Theatre, del 1968, l’autore, Richard Schechner, sostiene che: «Il fatto teatrale è un insieme di rapporti interagenti. Del fatto teatrale fanno parte il pubblico, gli attori, il testo (perlomeno nella maggior parte dei casi), lo stimolo sensoriale, l’ambiente architettonico (o la mancanza di tale ambiente), le attrezzature per la realizzazione dello spettacolo, i tecnici e il personale di teatro (nel caso in cui ci sia bisogno della sua prestazione). Il fatto teatrale oscilla dalla rappresentazione priva di matrice al teatro tradizionale più formale: dall’evento casuale e dall’intermedia alla “messa in scena di drammi e commedie”. Se allineiamo uno accanto all’altro tutti i possibili fatti teatrali, vedremo che ogni forma sconfina nella successiva». Dall’idea, quindi, di coinvolgere lo spazio scenico dentro la scrittura drammatica e di sconfinamento e scivolamento di una forma e di una materia nell’altra, dal fatto che l’opera si componga della somma di tutti gli elementi che le consentono di esistere, nessuno escluso, prende vita l’idea dell’arte intesa come un flusso creativo che inonda la realtà, travolgendola come un fiume in piena, che marchia tutto quello che incontra sul suo cammino, col suo contrassegno liberatorio e libertario. Il contrario di un’arte intesa come soluzione (sia essa finale o transitoria). Però, c’è da dire che, dentro questa modalità, aleggia in maniera taciuta, sottotraccia, l’idea che l’arte possa fornire una qualche soluzione ad alcuni problemi, per esempio all’assenza di creatività dentro la realtà dell’esistere, e alla conseguente necessità di trovare strumenti che l’arricchiscano creativamente e in maniera diffusa. Vorrei, non generando equivoci, provare a sostenere il bisogno di opere che, pur essendo in dialogo con l’esterno, col mondo ecc., non si esauriscano dentro le regole preconfezionate dell’estetica diffusa e partecipativa. Per me, l’opera è da intendersi come entità racchiusa (più che chiusa), come contenitore (più che contenuto) e la sua immagine è la garanzia principale del suo schiudersi e della sua apertura. In altre parole, la forma dell’opera è l’opera stessa e, ogni volta che essa muta di senso, muta anche nella forma. In più, rinunciando a ogni tutela utopistica o idealista, l’opera non consola, in nessuna declinazione della parola. Il noto trucco linguistico per distinguere “consolare” da “consolatorio” non regge all’urto della realtà: i due termini appartengono entrambi alla categoria dell’attenuazione del dolore, ma l’opera d’arte non appartiene all’ordine del farmacologico e, aggiungerei, neanche a quella del fascino utopico che può nascondere, dentro le sue strategie, perfino finalità autoritarie. Nella visione dell’arte (e del mondo) come processo per il raggiungimento di un fine supremo, dell’estetica al servizio della vita, infine del bello e del giusto vissuto con pienezza di spirito e di corpo, quindi di ogni “bellezza utopica”, convivono fascino ed orrore.

Quanto dice sollecita due ordini di considerazioni. Da un lato, l’idea dell’opera d’arte come una sorta di “cavea teatrale”, di spazio d’esperienza – al cui interno riecheggiano elementi diversi (provenienti da tradizioni non solo eterogenee, asincrone, ma a volte anche fra loro incompatibili e confliggenti) che fanno la loro apparizione e si mescolano con un’infinita varietà di atteggiamenti e situazioni – sostituisce un’idea di “identità” statica, stabile e definitiva con una fluida, processuale, dinamica. Dall’altro, mi pare di scorgere un punto di intersezione tra la sua riflessione e quella svolta da Heidegger ne L’origine dell’opera d’arte, laddove l’opera d’arte è chiamata “intimità del coappartenersi dei contendenti”. L’opera d’arte, cioè, è luogo della medesimezza di terra (la legge recondita che non affiora) e mondo (che pretende la propria misura); è istante in cui la terra si immedesima nel mondo. E questo rapporto di “immedesimazione” tra terra e mondo accade come presenza di una riserva cui attingere illimitatamente e di un fondo da cui dipende l’alimentazione del complesso gioco delle interpretazioni, che si intrecciano dando luogo alla costituzione del mondo.

È una domanda complessa, che trae origine da un testo affascinante, ma anche (o forse per questo) per me particolarmente ansiogeno, che mi ha dato degli incubi. Un testo che ho tenuto di fianco al letto, leggendolo a pezzi, la sera, come i grandi racconti: Guerra e pace, Anna Karenina, Giuseppe e i suoi fratelli, Moby Dick, Il mare della fertilità, Ubik… Heidegger, lì più che altrove, scrive per ondate successive e travolgenti, alternando punti fermi con interrogativi che trascinano pericolosamente verso il mare aperto, è un testo dentro cui si rischia di annegare. Il suo avvio è un succedersi di affermazioni rettificate e capovolte nel giro di poche righe: «Origine significa, qui, ciò da cui e per cui una cosa è ciò che è ed è come è. Ciò che qualcosa è essendo così com’è, lo chiamiamo la sua essenza… Il problema dell’origine dell’opera d’arte concerne la provenienza della sua essenza. Secondo il modo comune di vedere, l’opera nasce dall’attività dell’artista. Ma in virtù di che cosa e a partire da che cosa l’artista è ciò che è?… L’artista è l’origine dell’opera. L’opera è l’origine dell’artista». Il protagonista di queste frasi è mobile, si traveste prendendo solo momentaneamente la sagoma dell’opera e dell’artista. A volte sembra che il vero soggetto del discorso si nasconda dentro il verbo “essere”, adoperato come il richiamo acustico verso un’entità evocata a condividere e giudicarne il discorso, come fosse il personaggio principale e nascosto del racconto… «L’arte è ormai solo più una parola a cui non corrisponde nulla di reale. Non si tratta che di una rappresentazione unitaria in cui facciamo rientrare ciò che l’arte include ancora di reale: l’opera e l’artista». Una cosa, più di altre, mi è rimasta dentro di queste parole: l’arte e la sua opera intese come lotta: «Il contrapporsi di Mondo e Terra è una lotta. Sarebbe però una banale falsificazione della natura di questa lotta se la si intendesse come contesa e rissa, attribuendo ad essa solo i caratteri del perturbamento e della distruzione… ciò non avviene in modo tale che l’opera, nello stesso tempo, attenui e appiani la lotta in un compromesso scialbo, bensì in un modo che la lotta resti lotta». Sono parole di chi ha cercato nel linguaggio, dentro le parole, più che nella realtà, la verità dell’esistere (del verbo essere), confermando l’idea che la forma delle cose richiami il reale più delle cose stesse, affidandosi al linguaggio poetico come il solo capace di interpellare il reale e chiamandolo alla lotta affidandogli il compito del cambiamento.

Da qui (anche da qui), ho iniziato a pensare all’opera come a qualcosa che, provenendo dalla lotta, ne possegga intimamente il carattere, tanto da farsene portatrice spontanea e addirittura inconsapevole. Di conseguenza, per provare anche a chiarire la mia posizione nei confronti di alcune parole chiavi presenti nella domanda (arricchendole di altre non nominate, ma apparentate con esse), che riguardano il carattere specifico dell’opera d’arte, direi che il mio lavoro è “fluido” e “dinamico” sì, “processuale” non del tutto, “relazionale” (soprattutto nel senso misero e attuale del termine) per niente. Penso che queste definizioni (insieme ad altre, quali “partecipativa”, “anonima”, “collettiva”…), pur denunciando un’origine conflittuale e quindi dentro la logica della lotta, ne forniscano una versione attenuata, melensa, moralista, che accentua quel carattere di “rissa” della lotta che Heidegger criticava come origine tuttalpiù di distruzione e perturbamento, non certo di creazione artistica.

Le pratiche artistiche fondate sulla “relazione”, piuttosto che sull’opera, intendono l’“esperienza” in maniera principalmente quantitativa, come insieme di fatti che si accumulano l’uno sull’altro in maniera informale ed inutilmente espressiva. Al contrario, immagino l’esperienza artistica come mantenimento e crescita di una catena di domande (“il domandare è la pietà del pensiero”) più grandi delle forme che di volta in volta esse assumono. Domande “incontenibili”, ma per niente metafisiche, che somigliano a “sagome” di risposte (o di cartone)… forme che, pur facendo da modello per altre, non siano immobili, ma trasformabili e transitive grazie al lavoro dell’arte. Lo so, le mie sono parole tremolanti e sfocate, a differenza di quelle ben incise di Heidegger, che, parlando del tempio greco e prendendolo come paradigma dell’opera d’arte, dice: «Eretto, l’edificio riposa sul suo basamento di roccia. Questo riposare dell’opera fa emergere dalla roccia l’oscurità del suo rapporto, saldo e tuttavia non costruito. Stando lì l’opera tiene testa alla bufera che la investe, rivelandone la violenza. Lo splendore e la luminosità della pietra, che essa sembra ricevere in dono dal sole, fanno apparire la luce del giorno, l’immensità del cielo, l’oscurità della notte. Il suo sicuro stagliarsi rende visibile l’invisibile regione dell’aria». Particolarmente le ultime parole rendono bene il riferimento, ancora una volta, alla sagomatura dell’opera, che, stagliandosi dal paesaggio, ci restituisce unitariamente le sensazioni contrastanti dell’aria e del solido. Niente di mimetico, dunque, ma evocativo di una forma che partecipa con tutto quanto la circonda. Vorrei che si parlasse dell’arte come Paul Celan faceva della poesia: «La poesia che viene al mondo, viene a lui, al mondo, carica di mondo… Viviamo in un’epoca in cui tutti si legittimano a ogni piè sospinto verso l’esterno, per non doversi giustificare di fronte a sé stessi. In questo senso la poesia conserva, nel suo modo odierno, l’oscurità dell’“illegittimo”; si presenta senza referenze, [senza indicazioni] quindi senza virgolette». Parlare dell’esterno e all’esterno, non tralasciando però se stessi e i nostri desideri, e di come questi possano rimanere tali senza trasformarsi per forza in drammi generali, avventure distruttive, movimenti e stilismi collettivi…

Mi viene in mente quella dialettica tra “esser dentro a una cosa” e “guardare una cosa dal di fuori”, tra “sensazione concava” e “sensazione convessa”, tra “essere spaziale” e “essere oggettivo”, tra “penetrazione” e “contemplazione”, di cui parla Musil ne L’uomo senza qualità. Non crede che è proprio a questa forma dualistica di esperienza che “aprono” le sue opere?

Stare “sul bordo”, mai “a bordo” (stare a bordo mi fa vomitare), è la sola regola che ho seguito. Banalmente si direbbe “con un piede dentro e l’altro fuori”; per me, invece, questa condizione vuol dire tenere schiacciata con i piedi una linea immaginaria, scivolosa e tremolante come un serpente. Una linea variopinta che marca la differenza fra luminoso e scuro, ambiente e muro, leggiadro e pesante, immobile e sfuggente, pensato e stupido, solido e scolato. Quando ho iniziato a esporre, la parola che girava di più era “soglia”. La usava spesso Filiberto Menna, fra i primi a scrivere del mio lavoro.

I miei lavori sono stati all’inizio rotondi, di legno, ricoperti per intero di grafite, con la sovrapposizione di linee concentriche, sottili, o dei segni piccoli come graffi… sembravano superfici pesanti e traforate, ma lo erano solo alla vista, era tutto dipinto. Poi i cerchi si sono tinti sul retro, proiettando un’ombra colorata sulla parete. Questa pratica (forse discendente dal teatro barocco?) è diventata, per molto tempo, quella principale, con lavori molto vicini all’architettura e al bisogno di ripartire regolarmente lo spazio immergendolo in un alone luminoso difficilmente qualificabile (Squadre plastiche, Galleria Planita/Galleria Alice). L’uso del colore, inteso come intensità luminescente alternata al buio dell’ombra, ha caratterizzato tutti i miei lavori. Sono diventati quadri pieni di niente, se non di colore incorniciato (L’infanzia della pittura) oppure ambienti percorribili e vuoti ma pieni di visioni (Cure, Via d’ombra, Volume!, Museo Archelogico Nazionale di Reggio Calabria). Opere tanto frontali quanto attrattive, che assorbono lo sguardo come le meduse leggendarie (La stanza di Penna, Mots), altre che raddoppiano la visione delle cose frantumandole e creando suoni d’ambiente che sembrano demolire gli spazi fisici facendoli diventare illusori (Passi a Villa Guastavillani, Ultimi passi, Passi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Passi alla Atomska Ratna Komanda D-0 – Konjic, Passi all’Ex Centrale elettrica di Daste e Spalenga, Idra, Passi alla Cinémathèque Yougoslave – Belgrado, Passi alla Galerija Klub – Podgorica, Passi a Palazzo Altemps, Passi a Palazzo Te) e superfici trasparenti che ingabbiano elementi volatili, schiacciate contro i muri oppure che si muovono nello spazio disegnando ambienti praticabili (Eighties are back!, 7.0, Lanterna termale, Compagni e angeli, Giorno/Notte, All’imbrunire) e anche mostre dove tutti questi caratteri convivono dando vita a un percorso in cui l’eco visiva e acustica diventa il legame unitario e il soggetto narrante della mostra (Motore). Nei miei lavori non sempre è rintracciabile un centro unico, un significato solo. Anche quando si presenta strutturata e forte, l’opera sfugge dalle mani come la sabbia che vuole tornare al mare. Questo, però, non ne cancella la presenza, il suo essere, come diceva appunto Heidegger, una cosa, che, in quanto tale (in quanto reale), ci lega al bisogno di continuare a fare arte, che, per quanto mi riguarda è il solo obbligo morale che attribuisco all’opera d’arte: garantire, con la sua presenza, la sua stessa sopravvivenza e con essa tutto il vivente.