Testo di Daria Filardo per il volume Alfredo Pirri, Passi 2003 – 2012, Gli Ori Editore
Il tempo-ora e il rispecchiamento
Il ‘“tempo-ora’” è un’espressione di Walter Benjamin nella quale la condensazione della Storia e del presente, l’intrico di tutti i tempi eterogenei si fondono nell’unica espressione che tutto include: l’opera d’arte.
Il tempo-ora è anche quello che viviamo camminando sopra Passi di Alfredo Pirri, un terreno specchiante, uno spazio attivo che siamo invitati/costretti a calpestare con cura, un gesto di grande generosità, un invito ad un uso insieme estetico e politico, che ci mette nel mezzo di una vertigine, un’esplosione di punti di vista e rovesciamenti.
Passi è un pavimento rotto che continua a rompersi. Dal 2003 ad oggi Passi è stato realizzato più volte in luoghi di alto valore storico, religioso, politico, in una parola pubblico. Ultimo in ordine di tempo è quello realizzato per la Galleria dell’Accademia di Firenze nella sala della pittura del ‘300 fiorentino. Le storie sacre, l’enorme crocifisso e il fondo oro che tutta questa pittura pervade acquistano un’altra intensità. La visione medievale viene spezzettata mantenendo lo stesso senso magico del colore. Pirri attraverso questo dispositivo scardina lo spazio dando vita a una nuove geometrie.
Gli elementi presenti in Passi – storie, immagini, architettura, oggetti d’uso comune – vengono inglobati dalla superficie specchiante e catapultando lo spettatore in un gioco di continui rimandi. Passi ci costringe ad abbassare gli occhi, ci propone una visione da sotto in su che ci destabilizza, perché rompe con la quella frontale e con le relazioni che intratteniamo con essa, e ci impone di guardare a partire dai nostri piedi e da quello che intorno a loro si allarga. Una visone che riporta lo sguardo sulla terra per poi sollevarlo, che ci fa un po’ paura perché potremmo sprofondare nelle spaccature.
Passi è un’esperienza di ‘tempo-ora’, e Benjamin ci da lo strumento per capire concetti che in Pirri sono ‘istantaneamente’ evidenti, dalla costruzione per accostamenti al funzionamento di una certa memoria involontaria.
“Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma l’ immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: l’immagine è la dialettica nell’immobilità” .
La vita dell’immagine è quindi ‘istantanea’ e Benjamin parla di ‘“tempo-ora’ ” un movimento su se stesso che illumina l’adesso. La memoria che riaffiora riscatta il presente, gli offre la possibilità etica di salvarci attraverso il pathos e la sua forma. Questo processo avviene per Benjamin attraverso la pratica del montaggio , del prendere la storia “a contropelo” , svelando che non c’è storia senza tutti gli incontri di tempi contraddittori, le stratificazioni, le discrepanze.
Insieme a Benjamin anche Warburg usa categorie critiche e interpretative che fanno luce sul lavoro di Pirri, come ad esempio una certa concezione della memoria come accostamento di frammenti e un’interessante idea di artista/storico dell’immagine ‘sismografo’ cioè colui (artista/storico dell’immagine) che vibra e lascia affiorare i movimenti sotterranei, rendendone evidenti la forma e le spaccature.
Warburg e Benjamin – nei primi decenni del novecento – hanno portato al dibattito sull’opera d’arte contributi fondamentali volti a rielaborare la relazione fra la memoria, e la sua attuazione in Forma nel corso dei secoli. Il loro pensiero è un terreno di indagine molto interessante che alimenta e feconda il dibattito contemporaneo.
Le loro riflessioni ancora adesso aprono interrogativi sulla sua natura sfuggente, mai chiusa, a-cronica e allo stesso tempo molto specifica e puntuale dell’opera d’arte. I due pensatori ragionano sul processo di costruzione dell’opera come insieme di relazioni non lineari e non sequenziali che includono l’osservatore; ragionano anche sulla natura attuale, con Benjamin, ‘politica’ dell’opera, che significa una presa di posizione dell’artista nella Storia e la coscienza di una dimensione estetica come nuova e imprescindibile dimensione appartenente alla sfera pubblica;. Ragionano e inoltre su una memoria della Storia come processo fatto di fratture, salti, improvvise illuminazioni, crisi, partecipazione.
La Memoria non è la registrazione sequenziale del tempo che passa, piuttosto è una energia sotterranea che affiora proprio nell’accostamento di frammenti eterogenei che ne risvegliano la profondità, ne colgono il non detto, quel significato non visibile nello sguardo puramente sequenziale, rendendo visibile una ‘dialetticità vertiginosa’.
L’opera d’arte è il luogo ‘eletto’ dove la Storia si rende evidente in un unico sguardo, il ‘luogo’ dove è possibile un’esperienza piena e profonda della realtà. Tutto questo è anche Passi.
In Passi il tempo passato e la memoria, si aggrovigliano e si dipanano, diventano scandagliabili.
Il tempo storico di Warburg (così come quello di di Pirri) è fatto di buchi, latenze e si rende evidente per contrattempi, per ‘sintomi’. Nei suoi scritti e nell’Atlante Mnemosyne Warburg decide di fare della storia una ‘sintomatologia’ e dello storico delle immagini un ‘sismografo’. ‘“Warburg insiste a dire che il sistema del tempo insiste lo stesso apparecchio inscrittore: quando sopravvengono le onde del tempo, il ‘sensibilissimo sismografo’ trema sulle sue basi. Esso trasmette quindi il sisma all’esterno come conoscenza del sintomo, come ‘patologia del tempo’ resa leggibile agli altri. Ma lo trasmette anche all’interno di sé stesso come esperienza del sintomo, come ‘empatia del tempo’, in cui rischia di perdersi” .
Benjamin come Warburg credono profondamente nella possibilità dell’immagine di radicarci, vederci, salvarci. L’esperienza estetica dunque diventa uno spazio che siamo invitati a partecipare e attraversare per costruirci la consapevolezza della nostra appartenenza.
Pirri nella serie Passi ci mette al centro del discorso a volte troppo autoreferenziale della storia dell’arte creando uno spazio formale e discorsivo in cui lo sguardo critico si muove, cammina, riformula.
Attraverso le rotture del vetro possiamo ragionare sull’interruzione di una visione sequenziale, gerarchica, della storia ufficiale, segnata da linee di frattura che sono la prova di movimenti profondi registrati in superficie, movimenti che ridisegnano una nuova mappatura, fatta di zone delimitate, linee continue, linee interrotte, metafora del movimento a balzi della Storia, che mette l’artista e il visitatore nella posizione del ricettore/sismografo della memoria intesa come nuova esplosione che salta il tempo-sequenza.
Questo ‘pattern’ mobile, aperto a trasformazioni, rompe – fisicamente e metaforicamente – l’analogia del rispecchiamento come chiusura narcisistica e si espande alla sfera della vita e alla dimensione civile e politica di chi questo spazio/specchio attraversa.
Lo specchio è legato alla storia dell’arte che dal mito di Narciso in poi ha esplorato la possibilità della riproduzione esatta come discorso sulla rappresentazione. L’indagine sullo sdoppiamento dell’immagine è approdata, in molte occasioni, ad un discorso sull’arte autoreferenziale.
Passi non è naturalmente la prima installazione che usa lo specchio per confrontarsi con la dimensione partecipativa, inclusiva e pubblica del visitatore. Propria di Alfredo Pirri è anzi sempre stata l’intenzione di sostenere, continuare, lavorare la materia senza rinnegare le radici storiche lontane e vicine.
Ma la serie Passi porta con sé un’urgenza e insieme una tensione fatta di equilibri (che è di tutta l’opera di Alfredo Pirri) che ha a che fare con la ‘necessità’ dell’oggetto di venire al mondo.
Proprio questa contrapposizione fra ‘Narcisismo’, come produzione bulimica autoreferenziale e ‘Necessità’ fa di Passi un’epifania che ci meraviglia continuamente, che rende quest’esperienza unica ogni volta che la facciamo perché capace di fare di noi l’organo percettore di tale necessità, una necessità di conoscenza.
Perché rispecchiarci ci fornisce conoscenza?
Il meccanismo del rispecchiamento è – secondo recenti ricerche neuroscientifiche (quella dei neuroni specchio) e psicoanalitiche (soprattutto Lacan) – alla base della nostra capacità di conoscenza immediata, empatica del mondo. Attraverso il rispecchiamento siamo in grado di riconoscerci simulando l’altro da sé e percependone la sua differenza da noi.
I neuroni-specchio ci forniscono la percezione dell’altro attraverso un meccanismo di simulazione interna delle emozioni e delle forme che ci vengono proposte. Queste forme, percepite ‘per differenza’, generano empatia con l’altro da sé, conoscenza non mediata dal ragionamento.
Anche la psicoanalisi (prima ancora delle recenti scoperte neuroscientifiche) con Lacan, ha affrontato proprio il tema dello specchio come il primo passo della percezione di sé, che avviene nel bambino dai sei mesi di vita, attraverso il riconoscimento della propria immagine riflessa come essere autonomo e differente dalla madre.
Passi, che ci rispecchia, e con noi tutto l’ambiente, è un’esperienza di empatia che ci rende conoscitori partecipi.
Pirri lavora sugli elementi costitutivi del linguaggio artistico, luce, colore, spazio, forma: questi vivono ‘naturalmente’ nello spazio di Passi. Lo specchio fratturato è una superficie minimale che esalta e decostruisce i volumi architettonici che riflette, moltiplica i colori e le loro rifrazioni, scompone le forme, rende visibile ‘naturalmente’ i ragionamenti complessi sulla natura dell’opera d’arte contemporanea. L’artista si pone, come l’osservatore, in continuo movimento, dentro il lavoro. In Passi, inoltre, la dimensione architettonica espansa ci mette in una condizione favorevole perché non siamo costretti a concentrarci su un aspetto specifico ma siamo parte integrante dell’esperienza che allarga la dimensione estetica ad una dimensione civile.
Pirri ha detto più volte che il suo lavoro è performativo, e io credo che questa performatività sia una condizione temporale che include tutti gli elementi: la forma che si apre alla misura degli spazi come a quella dei nostri passi che la attraversano in più direzioni. La performatività è la vita che scorre sopra il pavimento specchiante che rende ancora più evidente l’elemento contingente, come ad esempio tutte le gradazioni di luce che lo spazio ci restituisce in ogni momento del giorno e della notte, il tempo presente che si mescola con quello passato rompendo gli equilibri dati per darne altri, gli strati della storia vissuta come processo tensivo più che risolutivo.
Passi è una misurazione, un’esperienza individuale di meraviglia che riusciamo a condividere con gli altri, un movimento che scardina e ricompone, un ‘fare e rifare’.
Daria Filardo