Florin Stefan (artista \ presidente Federatia Centrul de Interes)

Sei stato a Cluj-Napoca qualche anno fa per una presentazione del tuo lavoro. Quanto questo ha influito sulla decisone di esporre qui, al Centrul de Interes? Hai mai partecipato a un progetto con un’installazione del genere senza poter essere presente? E generalmente, come artista, come hai risentito questa situazione creata dalla pandemia?

AP – Sono stato a Cluj-Napoca per fare una conferenza all’Accademia di Belle Arti.

Dopo un po’ che si arriva in una città se ne comprende la predisposizione, ci sono città capitali politiche per vocazione (come Napoli o Torino in Italia), altre di cui apprezzi subito l’attivismo come New York, oppure quelle marchiate dal fuoco del sacro come Gerusalemme. A Cluj ti senti accerchiato dalla pittura, la sua tinta e addirittura il clima atmosferico corrispondono a quei colori indefinibili e impastati di cui sono fatti la maggior parte dei quadri degli artisti che ho visto e visitato. Nella grande maggioranza dei casi il colore non è mai puro ma il risultato di mescolanze meticce, tutto vira al grigio. Il giallo non abbaglia, il rosso non ferisce, il blu non è imprendibile. Quel grigio attira come una calamita, non è né luce né buio, è fatto di massa attrattiva, e sa di olio. Ho chiesto di visitare anche gli studi di artiste e artisti non più giovani, la generazione che ha realizzato le sculture pubbliche e lavorato negli anni cinquanta, anche li ci sono quei colori. Niente a che vedere con la ricerca cromatica e tonale dell’informale post surrealista europeo degli stessi anni, dove le sfumature differenti avevano un ruolo non strutturale ma decorativo, da voi, mi pare, il tendere al grigio sia questione più essenziale, fisica e non solo artistica. Non è un caso, forse, che ho fatto dipingere di grigio, di un grigio caldo e indefinibile, la parete vuota che spicca come un monolite al centro dell’installazione, invece di lasciarla bianca.

Quando ho visto il vostro posto ho compreso quanto questo modo di intendere il colore, come impasto, influenzi positivamente anche le vostre attività che, infatti, si mischiano fra loro con un atteggiamento politico e vicendevolmente solidale che vi ha portato a concepire tutto lo spazio come qualcosa da accudire collettivamente e dove far confluire persone e idee differenti, questo mi ha molto colpito. Mostrando da voi e a voi il mio lavoro ho la certezza di mostrarlo a persone sensibili, competenti e interessate a condividere un’esperienza.

Fino ad ora non avevo mai realizzato un lavoro totalmente a distanza, forse questo è possibile proprio grazie a questo senso collettivo e accudente che ho trovato da voi e di cui custodisco la memoria. Ecco il mio lavoro, da voi e in questo momento contraddistinto dal non poter viaggiare, è costruito proprio grazie e in base alla memoria e all’immaginazione. Non trovo del tutto negativo (a parte non condividere il piacere dello stare insieme) realizzare le mostre a distanza, in fondo una delle questioni importanti dell’arte e della cultura dei nostri tempi è proprio la possibilità di ampliare l’immaginario grazie e attraverso la distanza. Se immaginiamo mondi lontani perché non fantasticare anche su quelli vicini e difficilmente raggiungibili al momento? È anche una maniera forte perché viaggino di più le idee e meno i corpi. Ecco! Abbandonare le cose al proprio corso, è come abbandonare le persone continuando a sentirle vicine. Cresce con questo un atteggiamento maggiormente responsabile e svincolato dalla persona che, troppo spesso emerge al posto dell’opera. Per me, in questo momento e con voi, lavorare a distanza è come abitare quel grigio di cui parlavo, stare dentro un campo di potenzialità espressive senza confini, indefinibile, infinito.

Ovidiu Leuce (artista)

Nella presentazione di tre anni fa hai parlato principalmente del rapporto tra pittura e spazio nel tuo lavoro. Come vedi il rapporto con la pittura (se c’e) di un lavoro cosi connotato dall’architettura, come la serie Passi?

AP – La pittura è dappertutto e noi ne siamo i suoi interpreti. La pittura non è una tecnica, né una lingua. La sua grandezza e, forse, la sua inesauribilità, è dovuta al fatto che essa sia la matrice di ogni arte, comprese le arti spaziali-ambientali o acustico-coreutiche. Non solo non è una tecnica ma neppure una materia, è un modo differente di ragionare e comprendere ogni cosa. A volte prevale in essa l’aspetto spirituale altre quello materiale ma queste differenze non fanno parte di modi differenti di vedere ma solo di spostamenti percettivi conseguenti a quelli del corpo che li ha generati. Un poco più a destra o a sinistra, di qua o di là e tutto cambia. La ricchezza della pittura testimonia del nostro essere vivi e che ci muoviamo nello spazio e nel tempo cancellandone i confini. La pittura fa anche questo durante un tempo pandemico, è grazie ad essa non agli aerei che riusciamo a muoverci.

Nel 1923, il poeta Paul Valéry, sciveva: * … Stiamo, e ci muoviamo nella stessa vertigine del miscuglio… Pittura e scultura … sono due bambini abbandonati. Loro madre, l’Architettura, è morta. Finché lei era ancora in vita offriva loro il suo posto, il suo scopo, i suoi vincoli. Non avevano, la Pittura e la Scultura, libertà di errore. Avevano i loro spazi, la loro luce ben definita, i loro soggetti e le loro alleanze … fino a quando lei viveva, loro sapevano quello che volevano.

Credo sia abbastanza vero, com‘è vero che la sua epoca non si è conclusa, essa sparirà insieme all‘arte in generale, quindi non per sotituzione tecnica o addirittura tecnologica, come troppo spesso si pensa, ma per mutazione dei termini percettivi e della centralità del corpo umano nello spazio e nel tempo. Cosa per‘altro già in corso di realizzazione…

C‘entra la scomparsa dell‘arte con la tua domanda?  Si, sopratutto in relazione al lavoro Passi che realizzo da voi.

Questo lavoro (solo all’apparenza seriale…) è un lavoro “terminale”, primo perché combina discipline differenti al termine delle loro funzioni, nel momento in cui si mostrano esauste e stanche della loro attività secolare, secondo perché la morte, ovvero la scomparsa tanto costante quanto momentanea dell’immagine, è il suo vero campo d’interesse. Sotto i passi del visitatore l’immagine si scompone in continuazione creandone, però, altrettanto continuativamente, una nuova. È un’opera sulla morte intesa come trasformazione e tragitto verso un campo luminoso ed eterno, che si intravede solo da lontano come un deserto fatto di polvere luccicante.

In fondo, passi è una macchina che produce polvere di vetro luccicante che divora l’immagine generando luce e generando un pigmento destinato ad essere impastato con vernici e leganti che ancora non conosciamo ad uso dei pittori del futuro.

Alex Mirutziu (artista)

Il rispecchiamento di motivi, sculture ed elementi architettonici agisce anche come una manovra teatrale per manovrare lo spazio, o è solo un’estensione di esso che attiva quella sensazione di vertigini, lo sguardo nell’abisso, di cui parlava Kierkegaard?

AP – Camminare su passi è come stare nel vuoto, ovvero al centro di un parallelepipedo che raddoppia le forme e le dimensioni di quello che abbiamo intorno rompendolo in frammenti che contengono porzioni visive più grandi del frammento stesso. La “manovra teatrale” di cui parli opera direttamente al livello dei piedi, restituendoci la sensazione di camminare su un ghiacciaio tanto esile quanto pericoloso. Infatti, del ghiacciaio che si rompe sotto la pressione del nostro peso, l’opera ne riproduce il rumore che si diffonde nello spazio. Lo sguardo nell’abisso è però anche quello di chiunque si ponga momentaneamente di fronte ad un’opera d’arte, essa ti accompagna amichevolmente per mano verso il suo bordo lasciandoti poi lì a cavartela da solo, chiedendoti: e ora?

Passi offre una versione di questo percorso: da soli si cammina (senza parlare troppo), da soli ci si guarda sotto (coscienti che è un sopra, ma la coscienza non basta a smentire l’autorità dell’immagine), da soli ci si può osservare come fossimo una linea retta nello spazio (a nessuno, per questioni ottiche, è permessa la visione dell’altro in questo modo), da soli avvertiamo la pressione del corpo nell’ambiente (e siamo portati a valutarne l’azione), da soli generiamo un suono (che però diventa un’orchestra collettiva all’orecchio di tutti). Lo spazio si estende fino ai limiti di quello che percepiamo come tale, ma la nostra attenzione si rivolge anche a quello che non riusciamo a percepire o vedere, perché normalmente viviamo il nostro stare dentro lo spazio come un accumulo di preoccupazioni e azioni caratterizzate da impedimenti d’ogni tipo e dal “non” … non rompere, non guardare in basso, non stare storti o tenere le braccia larghe, non avere audacia etc…

Voicu Bozac (architetto)

Lo specchio, nella storia, è stato un simbolo di narcisismo, di egoismo. Ma i tuoi specchi, nel mio modo di vederli, creano uno spazio di comunità, di partecipazione attiva in cui persone ed eventi inaspettati possono convivere. Possiamo quindi guardare i tuoi specchi come antitesi di quello della matrigna in Biancaneve?

AP – Lo specchio è (troppo) spesso inteso come uno strumento che serve a confermare quanto esiste già … gli occhi specchio dell’anima, l’arte specchio della realtà etc. La matrigna della favola cercava conferma della sua bellezza e, infatti, ha continuato a riceverla fino alla comparsa di Biancaneve, quindi, fino a quel momento lo specchio ha assolto fedelmente al suo compito classico. L’insorgere di una bellezza scandalosa e più potente (lasciamo da parte la morale melensa della favola!) costringe lo specchio a confessare qualcosa che cambia tutto. Quindi se non ci fosse stato un trauma che rompe la visione a cui siamo abituati, difficilmente quello strumento avrebbe fornito immagini non conosciute già. La strega rappresenta, ai miei occhi, l’abitudine, quello che sappiamo già, per questo è cattiva. Diciamo che, normalmente lo specchio è un meccanismo che serve a rafforzare la realtà, soprattutto se posto orizzontalmente e di fronte a chi guarda. In tal caso riprende tutto quello che abbiamo alle spalle e, soprattutto, ci dà certezza della nostra posizione nello spazio, a partire dalla linea di orizzonte che ci comprende e bilancia facendoci sentire stabilmente nel mondo.

La storia dell’arte ci consegna molti tentativi di opporsi a questa impostazione (e tantissimi invece che la confermano fino ai nostri tempi) per i primi valgono come esempio gli ultimi autoritratti di Rembrandt realizzati guardandosi in uno specchio nero che restituisce un’immagine di tenebra piuttosto che di luce. A me interessa molto, anzi esclusivamente, quest’uso dello specchio: non quindi strumento di conferma ma di trasformazione.

In questo senso vale quanto dici a proposito del narcisismo e dell’egoismo, e, certamente Passi testimonia lo sforzo di disegnare uno spazio più largo di noi stessi che, appunto è una dimensione di convivenza dove, però, attenzione, si sta insieme ma separatamente! E ascoltando l’eco degli altri che, insieme noi si muovono sulla superficie e che riconosciamo come esseri umani proprio attraverso questo suono che coinvolge noi insieme allo spazio che abbiamo intorno. Insieme, si sta su una superficie, su un piano che diventa infinito perché tocca realmente i bordi dell’ambiente ed è tutt’altra cosa che stare affacciato alla finestra in modo individuale come davanti a uno specchio appeso al muro.

Ana Horhat (paesaggista)

Il paesaggio non è solo lontano, non finisce con lo sguardo ma implica anche il corpo, il camminare e la percezione, rendendolo quindi soggettivo. Può essere considerata la tua opera un paesaggio, i passi l’avvento del corpo nel paesaggio, le crepe le tracce di sentieri non pianificati e i riflessi delle esperienze emotive?

AP -. Quest’opera costituisce un’esperienza percettiva e sensitiva molteplice che si può vivere in vario modo. Puoi rimanerne ai bordi guardando verso il basso dall’alto come nel famoso quadro di Caspar David Friedrich “Il viandante sul mare di nebbia” oppure starci dentro, come si sta dentro “La zattera della Medusa” di Géricault. In entrambi i casi, i sensi sono sottoposti ad uno stimolo rinnovatore che potenzia sia il guardare sia il conoscere attraverso il corpo facendo l’esperienza di un modo differente di stare fra le cose. Diviene attiva, in particolar modo, una membrana sottilissima che divide i nostri piedi dal mondo sottostante su cui ci muoviamo e camminiamo. Quello strato finissimo diventa il centro dell’irraggiamento di tutti i nostri sensi e anche del pensare cognitivo, attraverso quel filtro conosciamo e ragioniamo in maniera nuova. Camminare diventa un’esperienza macroscopica, immersi come siamo dentro un ambiente dai contorni poco chiari ma anche microscopico prendendo consapevolezza che ogni piccolo movimento, ogni pressione del nostro corpo sulla superficie, determina dei cambiamenti del contesto generale. Normalmente si cammina sulla superficie di passi cercando la maniera di non danneggiarla ulteriormente, con cautela, lentezza, sospetto, ma anche gioia di essere finalmente liberi di fare qualcosa che abbiamo sempre sognato di fare: rompere “a mani nude” una superficie vetrosa e specchiante conoscendone il pericolo e, perché no, anche infrangendone il pregiudizio della sventura a cui si è condannati in conseguenza a un tale atto. Come si sa, rompere uno specchio, nella cultura popolare e ancestrale è un grave tabù, un atto destinato a produrre sfortuna. La cultura scientifica analizza la cosiddetta “fase dello specchio”, latente in ognuno di noi, come una fase della nostra vita iniziale che, se non superata, ci condanna a vivere ossessionati da una visione fanciullesca dell’io, una fase importante, costitutiva ma da superare, da rompere, se l’individuo vuole crescere come essere umano indipendente dall’immagine e dal culto ossessivo che si ha di sé e della propria immagine riflessa. Allo stesso modo si potrebbe dire dello stare nel paesaggio, l’attenzione micro assommata a quella macro costituiscono un nuovo modo di stare al mondo in cui, come si dice, mappa e territorio coincidono. Stare dentro passi è come camminare in un bosco, avvertendo e amplificando dentro di noi, il più minuscolo rumore dovuto alla rottura di un ramoscello, il crepitio di una foglia secca, il tono baso e molle di una zolla inzuppata d’acqua, la percezione cresce a mille e ogni cosa piccola diventa grande e viceversa. I segni della rottura sulla superficie specchiante (o sul terreno) diventano crepe, a volte crepacci, segni infinitesimali dove lo sguardo sprofonda riposando e dove si ri-annida quella realtà che manca ovunque, in quel momento.

Jozsef Iszlai (compositore)

Gli oggetti artistici una volta esposti finiscono inevitabilmente anche in un ambiente acustico. Hai avuto esperienze in cui l’opera che hai esposto ha perso della sua presenza e del suo “potere” (forza?)  a causa del contesto acustico (traffico che si sente, inquinamento acustico, rumori nella hall del museo, ecc.)?

AP – Sono un erede inconsapevole, per generazione più che per scelta culturale, dell’insegnamento di John Cage che, come sai bene meglio di me, non fa differenza fra suono e rumore. Lui registra il suo ciclo chiamato “Roaratorio” dedicato ai Finnegans Wake di James Joice, dentro una stanza d’albergo di Colonia con le finestre sempre aperte da cui entrano i rumori della strada che vengono registrati insieme alla sua voce diventando parte della composizione. Oppure, sempre ripensando a Cage, che, uscendo da una camera anecoica dice: “… il silenzio non esiste … ho ascoltato due frequenze, una bassa l’atra alta …” con gli scienziati che gli spiegano che il primo era quello del suo apparato cardiocircolatorio, e l’altro quello nervoso. Anche acusticamente bisogna affrontare e vivere la “fase dello specchio” per poi romperla. Ma nel corso di questa rigenerazione qualcosa di quella fase rimane intrappolata dentro il processo di frammentazione e ricomposizione della forma, qualcosa del reale, o di quello che noi pensavamo fosse il reale, qualcosa che lo specchio dell’anima ci offriva a consolazione. Questo qualcosa sono segnali luminosi e visivi, frequenze acustiche non più chiare ma pur sempre presenti, richiami del reale, elementi, insomma, che fanno di quell’esperienza un fatto più che una rappresentazione. Anche se l’aspetto teatrale (già prima richiamato) e rappresentativo non è eliminato del tutto dall’atto del rompere, anzi si determina una trama nervosa e sensibile che caratterizza la nostra esperienza in quel momento, determinandone una qualche forma narrativa, anche se astratta.

L’opera passi, è un generatore di suono e rumori sia individuali sia collettivi, è tutt’altro che muta! I suoi rumori possono essere evocativi di fatti naturali o terribilmente geometrici e immateriali, vanno da quelli acutissimi ad altri medio-bassi asseconda della frantumazione dello specchio e del suo progressivo ridursi a polvere minerale incapace di restituirci un’immagine, quando diventa (ma io non l’ho mai vista in questa fase…) polvere luminosa. Il suono, o il rumore, che produce si espande dappertutto raggiungendo con i suoi toni aspri ogni angolo dell’edificio che lo ospita, e la rottura fisica della sua superficie, attraverso il rumore, si appropria delle pareti e di ogni cosa dell’edificio dando l’impressione che sia quello stesso a cigolare e che stia per disfarsi sotto i nostri occhi. Questo accade soprattutto se non siamo distratti dalla vista di chi sta compiendo realmente l’azione del rompere, quindi, grazie soprattutto al suono autonomo e al suo dissociarsi dall’immagine.

In effetti questo lavoro è come uno strumento musicale che, anche se non si può accordare, mantiene delle caratteristiche costanti di creazione acustica e di relazione di essa con lo spazio circostante. Dentro questo spazio può quindi accadere dell’altro che a sua volta è influenzato dal suono prodotto dall’opera o anche semplicemente dalla forte evocazione acustica che l’immagine dell’opera, anche vuota di persone, propone.

*Paul Valery “Le problème des musées” 1923

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