Questo testo è l’intervento che Pietro Montani ha tenuto al convegno – Esposizione Internazionale Tempo e Forma nell’Arte Contemporanea, presso l’Università degli Studi di Cassino il 13-15 maggio 1996 e pubblicato poi in Segno nel gennaio 1997.
Che ne è della forma nel frattempo?
1. Le questioni che affronterò sono di carattere generale, ma l’occasione che le ha fatte sorgere, e che le mantiene aperte, è un dialogo con Alfredo Pirri, che dura da un po’ e che immagino sia ancora molto lontano dal potersi dire concluso. E’ infatti un dialogo che condivide nient’altro che un orizzonte di senso molto ampio – non, dunque, una poetica o un’estetica ad hoc -, nel quale tuttavia credo si sia fin qui articolato lo sforzo di pensare o di interrogare con mezzi diversi un’idea dell’arte figurativa che risulta abbastanza definita da costituirsi, appunto, come lo spazio di un’interlocuzione comune. Aggiungerò, ancora in via del tutto preliminare, che quest’idea ha da fare con il tempo e con la forma… Naturalmente tempo e forma restano vuote parole fino a quando non ci si impegni a ridefinirle. Comincerò dunque col dire in modo molto sintetico quali sono le riflessioni che mi è capitato fin qui di fare sul tempo, sulla forma e sul loro rapporto, sollecitato dal lavoro di Alfredo Pirri. E le raccoglierò sotto queste tre proposizioni, che riproporrò alla fine con alcune rettifiche e integrazioni:
a. per lasciar apparire le cose occorre molto lavoro e molta immaginazione;
b. tra la forma e le cose si instaura il circolo virtuoso della mimesi;
c. la forma è un’etica della composizione.
2. Con la prima proposizione intendo porre l’accento su una tensione – caratteristica di molta arte contemporanea – tra un’istanza di desoggettivazione (lasciar apparire le cose) e un bisogno di ripensarne in modo più originario l’investimento personale (molto lavoro) e il ruolo che vi assume la creatività (molta immaginazione).
Questa tensione si può risolvere in diversi modi: ma il più significativo mi sembra procedere nel senso di una certa erosione dell’atteggiamento espressivo a vantaggio di un atteggiamento che sollecita in modo più diretto l’attività immaginativa in quanto tale (ma che cosa sia propriamente da intendere con quest’ultima espressione si chiarirà via via in quel che segue). Il fenomeno di cui sto parlando si motiva su uno sfondo epocale. Non abbiamo mai avuto tante forme espressive come oggi; non abbiamo mai avuto tante vie d’accesso alle forme e così tanto facilitate e facilitanti come quelle che ci offre oggi la produzione e la riproduzione elettronica delle immagini e dei testi. Internet, per esempio, rischia di diventare nient’altro che un immane archivio di questo espressionismo inelaborato o, per essere più precisi, scomposto: chiunque, infatti, con piccola spesa, può aprirvi un sito e rendere pubblica qualunque cosa gli passi per la mente. Ebbene, a questa situazione l’arte sembra talvolta voler rispondere con un gesto complesso che consiste nel riabilitare la modestia delle cose, ma anche, e al tempo stesso, l’eccezionalità del loro apparire; e ciò si ottiene solo rivendicando l’ineludibile difficoltà dell’accesso alla forma (penso, nel caso di Alfredo Pirri, alla cura estrema dei materiali e delle tecniche di preparazione, alle fasi laboriose e ai tempi lunghi della composizione, alle diverse competenze artigianali che precipitano nel prodotto finito e così via). Quest’arte si mette al servizio delle cose, ma al tempo stesso esibisce la specifica creatività di questo sacrificio. Il semplice e il complesso si legano così in un rapporto di debito reciproco. Con la seconda proposizione – tra la forma e le cose si instaura il circolo virtuoso della mimesi – intendo porre l’accento sulla peculiare temporalità di questo servizio reso alle cose. Lasciar apparire le cose non significa imitare qualcosa di già dato: significa, come ho appena detto, comporre condizioni formali complesse per la comparsa della semplicità delle cose. Questo lavoro ha una primaria caratterizzazione spaziale: qui “formare” significa essenzialmente allestire degli spazi – che dunque non sono mai già dati – tali da permettere alle cose di emergere e di connettersi l’un l’altra. Ma ora accade che questi spazi, proprio per il loro essere spazi di manifestazione, non si esauriscano mai nell’opera singola, e fungano piuttosto da figure che accennano alla possibilità e al desiderio di un’espansione. Non sto dicendo che queste figure si comportano come “forme simboliche” dentro cui organizzare, costringere e dominare il visibile: sto dicendo il contrario. Si tratta di figure che rigenerano il senso del visibile e, proprio mentre gli danno una misura e una scansione, lo ricostituiscono alla sua essenziale inesauribilità. Le “Facce di gomma” di Alfredo Pirri, per esempio, sono entrate in diverse composizioni (di cui l’ultima, per il momento, ha occupato nel maggio 1996 la grande parete dell’atrio della Facoltà di Ingegneria di Cassino) nelle quali quello spazio – originariamente concepito come condizione per la comparsa di un volto solcato da lacrime di colore – si è riarticolato e ri-composto producendo nuove configurazioni. Ma questo spazio, che si è dimostrato essere uno spazio in espansione, uno spazio produttivo, non è affatto una forma simbolica. La sua produttività muove in tutt’altra direzione – come si è potuto vedere nelle grandi e assai diverse composizioni presentate rispettivamente alla Nuova Pesa nell’autunno 1994 e negli spazi di Tucci Russo a Torre Pellice due anni dopo – e precisamente in una direzione che diventa intelligibile solo in una particolare diacronia: che è quella di un spazio che si assume, per così dire, autonome responsabilità temporali. Le nuove composizioni occasionate dalle originarie facce di gomma, cioè, sono al tempo stesso figure che ricomprendono le precedenti e in parte le esplicitano, e figure che riattivano o provocano in modo autonomo e non calcolabile la relazione mimetica. Voglio dire che è sempre l’altro dalla forma (o “le cose”, come sono state anche chiamate) ciò che, in virtù della stessa energia fisiologica della forma, risulta imprevedibilmente e tuttavia ordinatamente rigenerato. E’ questo che intendo per circolo virtuoso della mimesi. Il debito è reciproco, come ho detto prima: la forma ritorna sul mondo delle cose e gli restituisce una capacità di sorprenderci. Ma questo ritorno – come dice, del resto, la parola stessa – ha un’intima natura temporale: è aperto all’accadere degli incontri imprevisti e, insieme, è un ordito per procurare degli incontri. L’ospite insomma è atteso, ma quando arriva ci riempie di sorpresa. La terza proposizione – la forma è un’etica della composizione – non fa che trarre le conseguenze delle prime due. Il lavoro che ho descritto è a tutti gli effetti un impegno dell’immaginazione produttiva, ma non ha niente di soggettivistico e non ha niente di arbitrario. Non mira all’espressione di moti interni, ma mira a far emergere quello che già c’è (l’ospite atteso) componendo e ricomponendo gli spazi per la sua manifestazione. Solo così, del resto, ciò che già c’è può apparirci non soltanto sorprendente e straordinario ma anche inesauribile e incalcolabile, sottratto a ogni anticipazione. Può apparirci, insomma, nella cifra paradossale di qualcosa che è al tempo stesso contingente nel senso di non-dovuto, libero, e contingente nel senso etimologico della parola: qualcosa che ci tocca, che ci riguarda, che ci investe – eticamente, appunto – facendoci sentire in debito di forma ma anche in credito di sorpresa e meraviglia.
3. Vorrei fare ora una breve pausa prima di passare ad esporre i nuovi problemi con cui oggi credo si debba ripensare quanto ho appena detto e che trova una formulazione nella domanda che intitola questo contributo. Si sarà forse notato che ho usato spesso la parola “composizione” a preferenza di altre e proprio in alcuni passaggi strategicamente cruciali. Questa scelta terminologica ha un senso teorico-filosofico che richiede un chiarimento. La parola composizione è qui usata nello stesso senso con cui la usa Pavel Florenskij nella sua mirabile riflessione sull’icona. Florenskij contrappone composizione a costruzione come attività a passività. Ma attenzione: dobbiamo estraniarci dalle nostre abitudini linguistiche per non fraintendere questa opposizione che sulle prime ci confonde. La passività del costruttivo, infatti, è in realtà un vuoto attivismo, un affaccendarsi che si vorrebbe concentrare tutto sugli oggetti prescindendo dall’orizzonte del loro darsi o considerandolo indifferente. Per Florenskij questo orizzonte penalizzato dall’atteggiamento costruttivo è lo spazio: ma si tratta di uno spazio concepito in modo non euclideo. E’ uno spazio non isotropo ma solcato da differenze e dislivelli di tensione, tant’è vero che dev’essere composto, che non è mai già dato come un’unità. La costruzione è passività perché subisce una spazialità di tipo tecnico (è uno spazio-funzione) di cui ignora la regola pur avendola di fatto onorata e rafforzata. Per questo l’esito-limite della costruzione è la macchina (la macchina intesa in senso non solo materiale: per Florenskij erano macchine anche certe opere dell’avanguardia – figurativa e non – a lui contemporanea, persino alcune opere di Kandinskij o il “linguaggio transmentale” dei futuristi). Insomma il costruttivo (che pure ha i suoi diritti) è sempre preso in una deriva tecnica, da cui rischia di essere travolto. Al contrario, dalla parte della composizione Florenskij colloca il rappresentare inteso come connessione di forze eterogenee, come autentica attività (e qui la presa di distanza è nei confronti dei “mistici” alla Malevic, che sono bensì “compositori”, ma non fino al punto di recuperare allo spazio l’audacia del rappresentare). Dobbiamo pensare questa attività autentica – in opposizione all’attivismo costruttivo – come il disporre l’orizzonte per la comparsa delle cose, come l’energeia che dà insieme (in un tutto) la cosa e il suo orizzonte, il visibile e l’invisibile (se è lecito qui un riferimento a Merleau-Ponty). Questa è l’autentica creazione: nel senso che questo spazio non è dato, richiede una grande perizia e una peculiare capacità immaginativa che non ha niente di soggettivistico o espressivo e consiste, piuttosto, nel cucire, connettere, unificare le forze che debbono essere composte e l’eterogeneità delle regioni spaziali in cui ciascuna di queste si esercita, fino a rendere di nuovo possibile un attivo rappresentare. Florenskij pensava all’icona (cioè a uno spazio reso idoneo a rappresentare l’irrappresentabile: la divinità) ma il dispositivo teorico che egli ci offre è straordinariamente utile anche per la comprensione della tradizione figurativa occidentale. E soprattutto, come vorrei mostrare, per la comprensione di una direttrice dell’arte contemporanea che è quella che mi interessa interrogare e che ritrovo esemplarmente nell’opera di Alfredo Pirri. Stando così le cose si capirà meglio perché in precedenza ho preso le distanze dal concetto di “forma simbolica” elaborato da Cassirer. Questo concetto appare estraneo all’idea di formatività pensata da Florenskij. In Cassirer l’energia delle forme si esercita su una materia non qualificata, “cartesiana”: qualcosa che l’uomo incontra solo con il plasmarla secondo modalità diverse. La posizione di Florenskij è assai più radicale: l’attività del comporre mostra il darsi insieme (alla lettera, il con-porsi) di materia e di forma, o di figura e sfondo, o anche, volendo radicalizzare ancora di più: di sensibile e intelligibile (e questo è il caso esemplare dell’icona). Che senso ha riprendere oggi questo concetto che risale agli anni Venti e che si riferisce primariamente a una tradizione molto lontana dalla nostra? Il senso è questo: non solo sono convinto che la concezione iconica di Florenskij si dimostri oggi uno strumento indispensabile per comprendere il carattere non-espressivo di molta arte contemporanea (e magari per individuare una “linea iconica” dell’arte in genere: anche Benjamin, per esempio, e più o meno negli stessi anni, aveva proposto una nozione che va nello stesso senso parlando di Ausdrucklose, cioè di un compito destrutturante della critica volto a riconoscere nell’unità dell’opera una paradossale eteronomia: un “privo-di-espressione”, appunto). C’è anche dell’altro: e precisamente la convinzione – che non posso argomentare in questa sede ma solo riproporre all’attenzione riprendendo un tema cui ho accennato all’inizio – che l’universo della produzione e riproduzione elettronica e digitale dell’immagine – che, ci piaccia o meno, si è già istituito come lo sfondo delle nostre riflessioni sull’arte figurativa – sia un universo in cui oggi si sta esercitando una formidabile attività costruttiva (cioè una spettrale passività che si presenta come un attivismo irrefrenabile) la quale accenna a voler diventare esclusiva, cioè a rendere estremamente problematica o addirittura vana ogni ricomprensione di carattere compositivo. Ciò non vuol dire, tuttavia, che questo universo sia in tutti i sensi un universo scomposto o inelaborato, una macchina mondiale tanto più insidiosa in quanto altamente immateriale: vuol dire che questo universo mira a ridurre o a eliminare gli spazi della composizione. E che continuerà probabilmente a farlo con crescente autorità fino a quando l’arte non saprà assumerlo nel circolo virtuoso della mimesi, vale a dire in un’etica della forma.
4. Ho detto “fino a quando” perché sono convinto che qualcosa del genere non solo non sia ancora accaduto ma si faccia sempre più problematico a misura che l’attività costruttiva dell’immaginario elettronico ci coinvolge sempre più intimamente (penso, per esempio, all’introduzione di tecnologie sempre più “amichevoli”). Nel frattempo ci troviamo in una situazione imbarazzante: è come se ci mancassero le forme per dare senso a un’esperienza che ci coinvolge, la quale tuttavia, per essere davvero un’esperienza, richiede le forme che, appunto, ci mancano. E dunque: che ne è della forma in questo frattempo? Ma questa domanda, se è un’autentica domanda, non dice solo un imbarazzo, contiene anche un suggerimento e anzi, a ben guardare, apre una prospettiva cui forse non avevamo prestato sufficiente attenzione. Non sarà che la forma ha a che fare – o può avere a che fare – proprio con questo modo d’essere del tempo? E non spetterà proprio all’arte il compito di fornircene degli esempi di composizione? Vorrei argomentare un po’ il senso di questa proposta, che può dar luogo a interpretazioni diverse (o anche a fraintendimenti, come quello per cui l’arte dovrebbe darci conforto nello stato di indigenza in cui ci troviamo). Possiamo infatti pensare la forma come una sanzione, cioè come una figura che ha l’effetto retrospettivo di portare ordine e intelligibilità là dove c’era disordine e confusione. Quando diciamo che una grande opera d’arte ci fa finalmente vedere come stavano davvero le cose pensiamo la forma in questo modo. E’ abbastanza evidente, peraltro, come la forma-sanzione sia il corrispettivo della forma-progetto: a partire da una forma-sanzione un passato si rende intelligibile e un futuro progettabile. Questa interpretazione è legittima, rilevante, e in qualche misura perfino inevitabile (e infatti poco fa l’ho fatta mia quando ho detto che ci mancano le forme): ma è anche un’interpretazione tranquillizzante, perché ci induce a definire il tempo a partire dalla forma: cioè a pensarlo, a posteriori, come il tempo di qualcosa che si preparava per una forma, un tempo teleologico. E ci induce a pensare la forma come qualcosa di dovuto a quel tempo, e cioè, appunto, come una sanzione in qualche misura necessaria e carica di conseguenze a venire. Ma togliere all’arte la sua contingenza significa privarla del tratto essenziale della sua libertà. Significa assimilarla in modo acritico alla razionalità scientifica (che è predittiva) o all’organicità dei processi naturali (che è conforme a regole). Faremo un passo avanti se restituiremo a questo rapporto tempo-forma la sua intrinseca paradossalità: un tempo si mostra a partire dall’evento del tutto contingente di una forma. Dunque, senza quella forma, che poteva benissimo non accadere, non avremmo avuto nemmeno quel tempo. Il passo avanti che avremo fatto a questo punto consiste nell’aver tolto al tempo il presupposto di una nascosta teleologia e alla forma il requisito della necessità. Questa interpretazione emendata dell’idea di forma come sanzione continua tuttavia ad occultare la tensione propria del frattempo: il suo difetto, infatti, è quello di legittimare il carattere arbitrario della forma artistica, cioè di cancellare quell’oscillazione – che la caratterizza e che ho già indicato – tra necessità e contingenza, tra libertà e debito. Cambiamo scenario. Proviamo a collocarci, per quanto è possibile, nel bel mezzo di un frattempo. Pensiamo a una partita a scacchi e alla ricerca della mossa eccellente. Mentre cerco la mossa debbo aver decostruito la situazione presente sulla scacchiera (altrimenti ne sarò condizionato e probabilmente perderò) senza tuttavia aver ancora composto la nuova configurazione (quella ci sarà, appunto, solo dopo la mossa che sto cercando); ma in questo necessario stato di incertezza e di vuoto debbo poter mantenere un certo controllo, una certa “immagine” (ma quale?) della situazione complessiva. Questo controllo è la cosa più misteriosa e problematica: è una capacità di riflettere – o anche: di “immaginare” – in assenza di regole, ma non arbitrariamente. E’ una capacità di tenere insieme il non-più strutturato e il non-ancora strutturato in una difficile unità che potrebbe scomporsi da un momento all’altro (e che anzi di fatto si scompone continuamente, ma non a tal punto da farci perdere del tutto la testa). Se l’esempio è stato chiaro, credo che sia proprio qui che dobbiamo riportarci e dobbiamo mantenerci per porre di nuovo la nostra domanda: immaginare questo “fra”, comporne e ricomporne una figura è forse un compito accreditabile all’arte figurativa in genere? E ha senso pensare che si diano circostanze nelle quali l’arte figurativa può essere chiamata con particolare urgenza a immaginare – nel senso attivo: a comporre in-immagine – questo frattempo? E’ tempo di provare a tirare le fila del discorso. Abbiamo parlato prima di un momento compositivo, contrapponendolo, con Florenskij, a quello costruttivo. Abbiamo parlato poco fa di una decostruzione su cui si innesta il progetto di una riorganizzazione della quale tuttavia non abbiamo ancora trovato la regola. Abbiamo parlato, inoltre, di un’attività immaginativa che occupa questa lacerazione: ne tiene insieme i lembi, impedisce che si allontanino fino a scompaginarsi. Abbiamo infine suggerito che la pittura ha avuto spesso a che fare con questa modalità del comporre e che forse oggi una tale direttrice ha assunto un’urgenza e un primato che si giustificano sullo sfondo della crescita smisurata di un immaginario scomposto, di una grande macchina immateriale che non smette di convincerci che saremmo esonerati da qualunque ricerca di spazi compositivi e tenuti a praticare gli accessi facili e le forme già pronte. Se queste conclusioni sono corrette dovremmo a questo punto poter riformulare in modo più disteso e insieme più preciso le tre proposizioni che sono state illustrate all’inizio. Mi limiterò ad alcuni cenni generali.
Per lasciar apparire le cose occorre molto lavoro e molta immaginazione: credo che ora si cominci a vedere meglio come questo lavoro debba essere in prima istanza un lavoro di decostruzione – un drenaggio e perfino un impoverimento – e insieme un ripristino delle strutture essenziali dell’immaginare attivo. Occorre uscire dal regime oppressivo dell’immagine – che è il regime costruttivo, la “macchinazione” nel senso di Florenskij – e restaurare l’essenza compositiva dell’immaginazione, la sua sostanziale inespressività, il suo lavoro di continua ritessitura di una lacerazione che può diventare un abisso e farci perdere la testa. Fra le cose e la forma si instaura il circolo virtuoso della mimesi. Credo che ora si cominci a vedere meglio come tutto il senso di questa proposizione vada a concentrarsi sulla particella che la introduce – “fra” – di cui si fa ora più marcata la caratterizzazione temporale. Anzi, la stessa proposizione andrebbe ora riformulata in modo un po’ diverso: il circolo virtuoso della mimesi si instaura se e solo se il “fra” delle cose e della forma viene colto come uno spazio-tempo componibile e mantenuto, a tutti i costi, in uno stato di componibilità. E’ qui che si fa avanti l’invenzione, la creatività nel senso non soggettivistico chiarito sopra.
Dunque la forma è più che mai un’etica della composizione: lo è a tal punto che ora si comincia a vedere meglio come il compito della forma possa essere addirittura quello di rendere semplicemente abitabile quel nulla di presente che è il frattempo – il tempo fra il non più e il non ancora -, e come questo compito non sia altro che immaginazione nel senso attivo della parola, immaginazione di uno spazio composto teso tra la sanzione e il progetto, uno spazio che, pur non potendo ancora essere né propriamente una sanzione né propriamente un progetto, sia nondimeno uno spazio che deve poter aspirare a disporre, nel frattempo, le condizioni per un’ospitalità (di un ospite atteso e non ancora presente). Ma infine può accadere – e spesso accade – che in questo spazio teso che occorre riguadagnare sempre di nuovo all’ospitalità con un gesto etico non garantito da nient’altro che dalla perseveranza dell’immaginazione possa, di colpo, imprevedibilmente, farsi presente una forma che ci sorprende non perché sia inaudita ma perché mostra una cosa. Se questo accade vuol dire che il circolo virtuoso della mimesi è stato riattivato. E che questo apparire si è di nuovo meritato il nome antichissimo di bellezza.
Pietro Montani