1. Anticipo subito la mia tesi di fondo: un’opera come quella di Alfredo Pirri obbliga la filosofia a ripensare l’arte al di fuori del quadro dell’estetica in senso moderno. Più precisamente: la pittura di Alfredo Pirri non si lascia pienamente comprendere nel quadro di una poetica, ma dev’essere compresa nel quadro di un’etica. Argomenterò questa tesi in tre passaggi, riprendendo e radicalizzando cose che ho già scritto e detto su Alfredo.  Il primo passaggio si riferisce al modo in cui Pirri concepisce l’immagine. Il secondo si riferisce al modo in cui l’immagine stessa fornisce autonomamente all’autore istruzioni sul suo futuro (e dunque anche sul suo passato), dimostrando una netta indipendenza da ciò che l’estetica concepisce come intenzionalità, o Kunstwollen, o espressività, o innovatività ecc. Nel terzo passaggio proverò a trarre alcune conclusioni sul senso che oggi dovremmo dare al rapporto tra pittura e filosofia, se questo rapporto deve continuare a sussitere al di là delle forme canoniche che ha assunto nella modernità e che oggi sono diventate impraticabili. Aggiungo infine che quello che dirò non andrà oltre il disegno di un quadro molto generale, al cui interno dev’essere condotto il lavoro analitico sui singoli testi, che qui non potrò neppure sfiorare, ma che ho tentato di delineare in varie altre occasioni.

2. Come concepisce l’immagine Alfredo Pirri? Il dato più evidente, quello che balza subito agli occhi di chiunque, è che si tratta di un’immagine che si legittima da sola, di un’immagine che non trae da altro il proprio fondamento. Si dirà che quello che ho appena definito è proprio uno dei tratti che l’estetica moderna ha attribuito all’immagine. Precisamente il suo carattere non mimetico o non riproduttivo o addirittura non rappresentativo. L’immagine, si sente dire, non riproduce il mondo visibile ma piuttosto produce la visibilità del mondo; l’immagine, si dice ancora, non rap-presenta nulla ma piuttosto presenta, mette in presenza.  Questo è uno dei modi canonici in cui la filosofia moderna ha ritenuto di dover entrare in contatto con la pittura. Ora, non c’è dubbio che questi due caratteri si possano ragionevolmente riferire alla pittura di Alfredo, ma mi pare altrettanto certo che non ci aiutano affatto a comprenderla nella sua particolarità. Infatti: è vero che l’immagine di Pirri introduce visibilità nel mondo; ma è anche vero che da quella visibilità si distanzia; addirittura se ne esclude, come una specie di monade, un evento del tutto autonomo e, come ho già detto, capace di legittimarsi da solo. In secondo luogo: è vero che questa autonomia o autolegittimazione coincidono con un atto di messa in presenza, con un incremento dell’ordine di ciò che si presenta, ma è anche vero che questa presentazione non si esaurisce affatto nella meraviglia del suo puro apparire, nel dono di se stessa, perché piuttosto si apre dovunque, rimanda, rinvia, sposta, prende tempo e si dà tempo.  Insomma: è insieme una monade chiusa in sé e una paradossale struttura di ospitalità, una enclave ma anche uno stato vero e proprio. Detto altrimenti: è un’immagine autonoma ma non autoreferenziale. Questo è senza dubbio il punto più difficile della pittura di Alfredo, ma anche, naturalmente, quello più qualificante. La sola idea di venirne a capo con un discorso teorico mi sembra tanto ingenua quanto presuntuosa. Proverò dunque a descrivere quello che mi pare l’effetto più singolare di questa duplicità dell’immagine, di questa sua chiusura che tuttavia proietta i suoi stessi confini fuori di sé.

3. Questo effetto – uno tra i molti, lo ripeto, ma tematico e fortemente ribadito nell’ultima mostra di Alfredo – consiste nella capacità dell’immagine di prolungarsi nel tempo, a monte e a valle di se stessa. Direi di più: non si tratta tanto di una capacità, quanto di un dovere, come se per essere quella che è questa immagine fosse tenuta a risolversi in una linea evolutiva, a perdere individualità per diventare una comunità di immagini. Ciò, spiega, naturalmente, il principio enunciato più volte dallo stesso autore, secondo cui produrre è sempre ri-produrre, ripetere, tornare sul già fatto ecc. Si tratta tuttavia di un principio che dev’essere ulteriormente radicalizzato. In questo senso preciso: che non è tanto l’artista a decidere dove e come ritornare sulle immagini pregresse e farle evolvere, trasformarle, ridefinirne i tratti pertinenti ecc., quanto l’immagine stessa. Ma non per una sua misteriosa virtù autopoietica, come se fosse davvero una sorta di organismo capace di evolvere e non quella cosa in tutto e per tutto artificiale che essa è, bensì – e su questo punto, in particolare, la distanza dalle concezioni estetiche moderne si fa incolmabile – perché la sua identità più autentica, ciò che essa ha di più proprio, non consiste nel produrre (o nel rendere possibile una produzione – di idee, di piacere, di stupore ecc. – in chi la riceve), ma nel dare testimonianza. Testimonianza di che cosa? La risposta è: nel testimoniare lo sconfinamento che essa ha introdotto nel mondo, nel testimoniare che quella immagine, del tutto autonoma e autosufficiente, dipende nondimeno da un passato (cioè da altre immagini che l’hanno preceduta) e prospetta un futuro (cioè altre immagini che andranno a ricategorizzare l’immagine presente e quelle passate da cui essa dipende). Anche in questo caso si potrebbe obiettare che quanto ho appena detto descrive la condizione autoreferenziale tipicamente attribuita all’immagine dall’estetica moderna. Ma in realtà è vero il contrario. E’ vero cioè che proprio questa infondabile e paradossale diacronia dell’immagine (infondabile perché un’immagine autosufficiente non dovrebbe avere un passato e non dovrebbe prospettare un futuro; paradossale perchè quella immagine che prende tempo e si dà tempo resta nondimeno chiusa in se stessa e come sigillata nell’istantaneità del suo apparire), proprio questa infondabile e paradossale diacronia dell’immagine va a costituire lo spazio aperto e testimoniale della pittura di Alfredo Pirri, lo spazio che la rende ospitale e permeabile, lo spazio che la rivolta verso l’esterno, per cui, come dice Alfredo, essa “sbatte” altrove, ed è questo “sbattere” che la fa apparire. Come tutti sanno la metafora della luce percorre l’intera riflessione occidentale sull’immagine, e non solo quella moderna, ma la percorre in modo tipicamente donativo: è la luce, cioè, che rende visibili le cose, restando essa stessa invisibile. Qui invece la metafora della luce allude alla possibilità di procedere in senso opposto: nel senso, cioè, che sono le cose a far essere la luce e non viceversa.

4. Come la luce, dunque, l’immagine autosufficiente, autofondata, che si legittima da sé non basta a se stessa almeno in questo: che essa richiede all’artista di farsi prolungare a monte e a valle per esercitare in questa paradossale e infondabile diacronia la sua capacità di riferirsi ad altro, la sua capacità di imbattersi nell’altro, di “sbattere” contro l’altro. Che cosa c’è, in questo, che eccede i limiti dell’estetica in senso moderno e costringe la filosofia a ripensare di nuovo l’enigma dell’immagine? In primo luogo, direi che qui l’immagine si sottrae alla dipendenza da una facoltà del soggetto – quella che l’estetica moderna ha chiamato “immaginazione” – che avrebbe il potere di porla in essere. Grazie alla sua paradossale e infondabile diacronia, infatti, qui l’immagine dice precisamente di dipendere da altre immagini che l’hanno preceduta e di prospettare, a sua volta, altre immagine che la seguiranno. Con il suo stesso apparire, cioè, essa determina insieme un debito e una promessa. Direi che, tra i grandi interpreti moderni dell’immagine, solo Aby Warburg ha pensato l’immagine in questo modo. Ma il suo limite, che non riuscirei a estendere alle immagini di Pirri, è che Warburg inclina a legare troppo strettamente l’immagine alla raffigurazione delle passioni, deprivandola così di buona parte del potere testimoniale che essa può esercitare. In altri termini, tutta l’attività dell’immagine, in Warburg, sembra concentrata nell’elaborazione del patire da cui essa dipende. In secondo luogo, e di conseguenza, direi che qui l’immagine, pur così intimamente vincolata a un debito, cioè a un patire altre immagini di cui essa stessa denuncia la precedenza, non rinuncia affatto a sprigiomare la sua autonoma attività in forme imprevedibili. Ma questo accade precisamente perché l’immagine non vuol essere produttiva (come l’ha pensata l’estetica moderna), ma, come ho già detto, testimoniale: non vuole cioè introdurre nel mondo qualcosa di nuovo e di mai visto prima affinché il mondo si arricchisca, ma vuole introdurre nel mondo qualcosa di nuovo e di mai visto prima affinché questo nuovo costrutto si metta in condizione di incontrare qualcosa d’altro che altrimenti non si sarebbe lasciato incontrare, di imbattersi in altro, di sbattere contro l’altro. In terzo luogo – e torno qui a quanto ho anticipato all’inizio – qui l’immagine dimostra di non volersi riferire a una poetica o a un’ontologia ma a un’etica della forma. Mostra cioè che tutto lo stupore a cui essa potrebbe legittimamente pretendere dev’essere spostato al di là dei confini in cui essa si tiene chiusa: cioè a monte e a valle di se stessa (al debito e alla promessa) e all’altro che essa in questo modo progetta di incontrare, senza peraltro poterne offrire alcuna garanzia, perché, appunto, ci deve “sbattere”. Ciò infine spiega, credo, il carattere sempre fortemente spatetizzato della pittura di Alfredo. Ma non perché in questa pittura non ci sarebbe pathos, bensì perché il suo particolare patetismo è sempre spostato, non si lascia consumare dall’immagine ma chiede – ecco l’istanza etica – di essere riconosciuto altrove. E solo successivamente, come azione di ritorno, rivendica orgogliosamente il fatto che senza la sua comparsa quell’altrove semplicemente non ci sarebbe mai stato. Se, come credo, e come ho detto molte altre volte in modo meno radicale, l’opera di Alfredo Pirri si legittima innanzitutto nel quadro un’etica della forma, allora è proprio e solo a questo titolo che essa può “sbattere” contro la filosofia e chiederle nuovi pensieri.

Pietro Montani