Testo di Achille Bonito Oliva per la mostra Passi, Villa Guastavillani, Bologna, 2005

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L’ALTARE DELL’ARTE

Il sogno dell’arte in Pirri sembra correre lungo altre altezze, secondo linee di volo che non conservano distanze dal suolo, anzi sembrano percorrere sentieri che si trovano all’altezza opaca dei piedi. Lo specchio, la sua composta consistenza, le tracce di alcune memorie di oggetti, i riflessi che accennano colloqui solitari con la parete. La superficie e’ uno specchio, un orizzonte che corre fermo e irremovibile a sbarrare lo sguardo. Qui il sogno dell’arte avviene mediante segni incisivi, che hanno la forza della craquelure, una rottura contenuta, come una memoria. Ora tutto diventa precario e nello stesso tempo definitivo, tracciato dentro la sostanza cementata di una superficie che accoglie e trattiene ogni segno in maniera duratura. Il sogno dell’arte ha lunga memoria e non si perde dietro le volubili sequenze di semplici associazioni libere. Le immagini restano impigliate dentro lo spessore di una materia speculare. Eppure corrono tutte a ripararsi sulla superficie del muro, da dove poi non è possibile fuggire lontano, dal muro al suolo. Il tempo e lo spazio trovano una sistemazione irreversibile, una collocazione incrociata e resa a futura memoria dalla capacità della superficie di saper far muro contro ogni instabilità. Lasciare una traccia significa incidere, entrare dentro la materia con polso fermo oppure cogliere velocemente e d’incontro la parete per segnare in corsa la cifra del proprio passaggio. Caso e decisione, geometria e forme aperte, si pongono in una posizione orizzontale, ferma e raggelata, immagini tutte di una presenza che non trova altre testimonianze al di fuori di queste memorie indirette. Dunque la parete, il muro del ninfeo di Villa Guastavillani in Bologna, è di tutti ma soltanto il gesto individuato e incisivo dell’artista riesce a intaccare la dura e opaca resistenza della sua superficie. Forse il muro è di tutti perché tutti lo possono guardare, patrimonio dell’occhio sociale. Ma il sogno dell’arte possiede la forza di farsi vedere, di apparire anche a coloro che artisti non sono, ma soltanto come rappresentazione. Pirri porta il suo sogno d’arte a contatto dei piedi e del corpo, abbassa il volo delle immagini a altezza dello sguardo collettivo, su un supporto che, per definizione, è leggibile da tutti: lo specchio. Qui avviene che tempo e spazio concretizzino i loro intrecci e fissino i loro incontri nelle forme convenienti e consone alla natura del supporto. I segni infatti sono quasi sempre graffiti, piccoli squarci e ferite che si rapprendono al suolo. Il libro collettivo che parla un linguaggio ancora oscuro e singolare. Esso è attraversato da una scrittura visiva duratura eppure precaria, fatta di segni muti, di calchi di oggetti e di passi perduti. Come se fossero caduti in una sostanza fresca che li abbia poi cementati dentro di sé, senza più farli fuggire. Il sogno basso di Pirri avviene interamente calato nel quotidiano e non cita immagini alate o eccentriche, si accontenta di citare la prosa innumerevole di piccoli oggetti, di piccoli incidenti di forme che incontrano lo specchio, di segni che si rapprendono nella materia destando una memoria duratura, altrimenti impossibile. La memoria lunga dello specchio non è una qualità insita della materia ma effetto trasfigurante del sogno dell’arte, che trova nella fantasia individuale dell’artista la forza di portare a lunga vita ciò che altrimenti deperirebbe. Pirri è il creatore di un lungo sogno. Lungo quanto i muri che circondano il ninfeo. La creazione avviene attraverso la sorpresa di accostamenti e aggregazioni di forme e oggetti che vivono normalmente molto distanti tra loro.
Il sogno dell’arte è quello di creare nuove famiglie di segni, nuovi nuclei di senso, attraverso cui è possibile sperare sempre altri incontri e una perenne conflittualità di ordini. Incessantemente il passo torna, per tracciare il superamento di vecchie disposizioni di segni. Ma questo è possibile perché la materia speculare possiede dentro di sé già la forza di reggere il mutamento, una continua manipolazione della sua superficie, superficie dura e nello stesso tempo dolce e arrendevole. Stampi, calchi, concavo e convesso, ritmano la superficie secondo accordi e dissonanze spaziali che non turbano la capacità di reggere nuovi interventi. L’opera risponde al proprio sogno, che cova dentro di sé le pulsioni di una fantasia libera da qualsiasi schiavitù di un alfabeto definitivo. Qui non esiste una scrittura che si ripete, né una scrittura che si arroga il diritto della ripetizione. L’onnipotenza del gesto irripetibile e individuale accompagna e sostiene l’energia del linguaggio. Perciò il passo non ha nausee, perché non esiste ripetizione, ciò che procura sempre la coscienza dell’impossibilità e dello scacco. Il sogno dell’arte è proprio di portare il quotidiano e la sua convenzione sul piano orizzontale e scivoloso del suolo, dove tutto si tramuta in occasione di segno. La trasfigurazione è il portato dell’intreccio tra passo e specchio della necessità del segno di assumere la carne della materia e di questa di uscire dall’inerzia costitutiva della propria essenza. Il sogno dell’arte di Pirri è quello di attraversare la condizione bassa del linguaggio quotidiano, nella consapevolezza che soltanto l’artista può arrivare a scavare dentro la sua sostanza opaca e portare sulla superficie una nuova energia, materiale e morale. Pirri tende a socializzare il sogno dell’arte, disponendolo metaforicamente e metonimicamente nella possibilità di un’apparizione sensibile a ogni sguardo, pronta a tramutarsi in comunicazione, seppure attraverso un alfabeto visivo e mentale che conosce molto bene i labirinti entro cui il linguaggio va a cacciarsi. Il sogno è quello di allargare il contagio di una sua attitudine, che consiste nel portare il quotidiano in una condizione di impossibilità, dove il linguaggio esce dagli argini del significato per slittare verso altre derive ed approdare ad una forma di arte santa, un altare da cui, invisibile, l’artista parla e magari collabora con questa opera al film di Roberto Benigni “La tigre e la neve”.
Tempo e spazio intrecciati per sempre.

Achille Bonito Oliva