Alfredo Pirri: nuovo dialogo entro solide mura

Mentre tentavo di immaginare sulla mappa di quegli ambienti che li avrebbero ospitati, gli ultimi lavori  di Alfredo Pirri che egli intanto mi mostrava, o issati sulle pareti dello studio o distesi sul tavolo di lavoro o – come i duecento acquerelli – sfogliandoli tra le mani come carte  da gioco, mi sovvenne quella sua affermazione di qualche tempo fa, che per un istante mi offrì una chiave di ingresso a quanto stavo osservando: «Mi pare che l’esigenza di oggi sia di sapere affermare una specificità, saperla affermare fortemente, non ricadendo nell’errore di scimmiottare la grande tradizione, ma di saperla proseguire. Ecco, di questo si tratta: di sentirsi parte attiva della tradizione. Sentirsi in questo modo significa sentirsi parte vivente di un qualche cosa che proviene da un passato remoto ed è destinato ad un futuro senza limiti».

Quelle parole (1), pronunciate in un dialogo con un amico autore di teatro entro la vasta argomentazione inerente i problemi ‘della luce’, dimostravano non solo la volontà di continuità ad operare rivendicando l’appartenenza ad un movimento mai estintosi della propria cultura, ma soprattutto l’individuazione  di una specificità di motivazioni che giustificasse il lavoro  stesso sin qui da lui intrapreso. Ora, gli attuali singoli lavori e il loro insieme, nella mostra romana di Pirri alla Nuova Pesa,  sottolineano per più ragioni e in più momenti, sia una singolare specificità di cui è opportuno individuare i termini per capire cosa reca,  sia un modo di sostenere tale orientamento che giustifica la sua invocazione di rapporto radicato.

Pirri non sente affatto il proprio lavoro galleggiare sulle sabbie mobili o senza riferimenti ad atti artistici precedenti i suoi, al contrario, proprio a partire da un sentimento filologico, considera che esso deve essere concepito e offerto entro una cornice di elaborazione estremamente accurata, non eludendo persino una fase di progettazione che lo determini, sia rispetto a se stesso e a quanto lo ha preceduto nel proprio sviluppo, sia in relazione a quel grande patrimonio del lavoro artistico con cui ritiene di volersi tenere in contatto e dialogare.

La felicità della formula “Amici e parenti” con cui tra l’altro contrassegna questo episodio espositivo è assai più eloquente di quei motti che sembrano fuoriusciti da una delle titolazioni filmiche della ‘commedia all’italiana’. Restringendo infatti all’ambito più intimo i termini della dialettica riflessiva e creativa, credo che Pirri suggerisca una necessità di concentrazione  ideativa e operativa certificabile da taluni ‘valori’, e ristretta   inizalmente solo ad essi come appunto quelli  della fedeltà proverbiale dell’amicizia e quelli del vincolo consanguineo. Perciò, dietro quella distintiva convocazione si allineano e comprendono meglio anche le precedenti iniziative che Pirri ha sviluppato nei dialoghi con artisti e pensatori, e dunque lo stesso desiderio di rendere attivo il rapporto con qualcosa di stabile e sicuro, in una parola con la tradizione.

Sembra dunque che in questi anni Pirri cerchi concentrazione e perciò prepari  su un terreno a lui più idoneo un fondamento teorico ed etico da cui muovere con gesti sempre più mirati all’approdo dei modi vivi della tradizione. In particolare, nel considerare l’importanza di quel legame, credo siano giustificate le cure da lui poste nella preparazione  dei lavori, la volontà di conoscenza dei singoli materiali, il disegno prima dell’esecuzione delle parti , il computo dei tempi, i passaggi tra una fase di elaborazione e l’altra, la considerazione dell’elementarità entro la complessità dell’insieme, insomma il tener conto di una varietà di aspetti che, prima ancora che tecnici, riflettono lo spessore delle proprie concezioni. I maestri di ogni epoca ci sorprendono perché quando si osservano i loro lavori essi ci rivelano sempre molti differenti livelli di concezione dello stesso elaborato, prova della grande quantità di regole che presiedono la creazione dell’opera. Pirri ha spesso dichiarato di voler «partecipare di un punto di arrivo cui altri sono già pervenuti» per ripartire da esso quasi mosso da una più ostinata disciplina ‘burocratica’, che nel lessico dell’artista sta per ‘normativa’. E mi appare come una validissima ragione, non solamente da opporre alla vacuitas di molti altri simulacri di questo tempo tuttavia sostenuti da massicce dosi di pubblicità, ma soprattutto per la considerazione oggettiva che nell’opera si rinviene quel che l’artista vi ha  depositato, cioè innanzitutto la ricchezza delle motivazioni, l’intensità del desiderio, la forza dell’ambizione, l’autenticità del sentimento, la quantità di abbandono e di rischio, la violenza poetica, la grazia delle intuizioni e delle risoluzioni. Se vi è specificità, del tipo evocato in relazione alla tradizione, ebbene, in questo recente lavoro, essa si deve cogliere a mio parere in una doppia istanza: in primo luogo nella costruzione dell’episodio circostanziale di una mostra quasi rispondendo  ad una committenza (auto o altrui poco importa) per un organico lavoro di decorazione – dunque considerando  le opere parti di un insieme ed infine come opera totale che investe tutti gli ambienti; ed inoltre nell’introdurre nella modalità decorativa più componenti problematiche, che oscillano dalle valenze percettive e ottico-cromatiche a quelle simboliche ed esoteriche, fino a soluzioni di spazio che non rinunziano a richiami significativi del passato ma anche dell’attualità.

L’opera metallica che si incontra ancor prima dell’ingresso agli ambienti della galleria riluce più volte:  per la calda verticalità  della sua struttura in rame, per quella tremula fiamma  della candela che, apoggiata si di lei, si consuma entro il suo annuncio vestibolare, per l’accoglienza congenita alle sue scaffalate cavità appena in penombra, come quella più vasta e ritualmente immaginabile del ‘Teatro’, a cui la micro-costruzione pur rinvia. Questo segno plastico posto innanzi a tutto dovrebbe metterci sull’avviso che ogni mostra è mise en scéne dell’immagine. E tutto ciò che si può percepire in questo primo ambiente, come peraltro in tutta la mostra, mi preme dirlo subito, è uno stato ambiguo della forma secondo cui l’equilibrio ideale che viene sollecitato, indotto, profuso da Pirri, è tra qualcosa che si sta formando e qualcosa che sta sparendo. Le opere al di là dal Teatro, la teoria dei duecento acquerelli sovrapposti a coppie sulla parete fino a comporre cento ‘formelle’, sono già esempi palesi di quella mobilità di stato immaginifico. Riferivo della cura impiegata in ogni opera, ma qui vi torno per acclarare la puntigliosità con cui sono state, ad esempio, eseguite queste carte lavorate da entrambe le facce. Inumidite prima con acqua, successivamente trattate con  colori fluorescenti solo sul retro, ed infine dopo essere state forate pirograficamente in due punti   in posizione aurea e acquerellate, con lo stesso colore fluorescente che è sul retro, a partire dai fori fino al bordo inferiore, ‘per scolatura’, come fossero volti dagli occhi lacrimanti, immerse in una vernice-mastice protettiva che le rende ‘invulnerabili’. Ogni piccola coppia di acquerelli, posti al muro con chiodi ideati dallo stesso Pirri, lascia avvertire un’intercapedine che l’occhio visita cercando lo spazio retrostante i fori ‘lacrimali’. Si accede così con lo sguardo in una profondità relativa dove oltre il riverbero del colore, se ci si muove, si nota un mutamento come quello della rifrangenza luminosa sull’iride. Infatti, queste carte che conservano un limbo di figuratività, per quel residuo fisionomico che le ‘scolature’ di colore e i fori ricordano delle lacrime e degli occhi, non sono dopotutto la metamorfosi spaziale della Faccia di gomma (1992)? Condividendo con quella precedente formulazione sia la ‘scolatura’ drammatica, lacrime o sangue, sia l’idea di ‘abbagliamento’-accecamento? Icaro o Edipo, ciò che viene in superficie dalla profondità della tradizione perfino mitica della luce è un fondamento archetipico che spinge Pirri alla riduzione del coefficiente di figuralità e verosimiglianza delle Facce, al fine del raggiungimento di una quota più rarefatta dell’essenza primordiale del nostro rapporto con la luce-visione. In un lampo che traversa il tempo, i poeti recano con sé, per sempre, le stimmate della caecitas, nella molteplice ambizione dell’aver voluto fissare la luce del sole e, al contempo, le tenebre dell’interiorità, intravedere e cantare il fato che sopravviene e tramandare al ricordo ciò che sarebbe destinato all’oblio.

Francesco Lo Savio era innamorato della luce; dalla prima alla sua ultima opera vi è un disperato inseguimento della sua impalpabile essenza. Così si spiegano sia i suoi interessi per il quadrato nero di Malevic che per l’alveolare unità abitativa di Le Corbusier. Ma anche egli, elaborando la luce in ogni sua opera e soprattutto nei Filtri (1959), aveva dovuto  ricorrere ad un grado di astrazione sempre maggiore e quelle sue ‘carte’ trasparenti o ‘oleate’, che sovrapposte, avevano il compito di rilevare una ‘variazione di intensità luminosa’,  sono anche esse piccole ‘trappole’ o microspazi dove imprigionare un’unità infinitesimale quanto ideale del principio dinamico della luce.. In queste tavolette cerate di Pirri permangono sia le allusioni al pianto sia un’idea spazio luminosa connessa all’ancestrale sfida della vista alla luce; oltretutto l’orlo dei fori-occhi pirografati conserva le tracce di una ‘bruciatura’: «Bisogna pensare che quello che noi vediamo, anzi il vedere stesso, è il dono di un bruciare» (2). Alla luce di questa tensione, tra l’ardimento di un avanzare nelle tenebre che l’arte esige e il raggiungere-abbandonare la forma ricercata, si attuano fenomenologicamente queste ‘tavolette’ dove lo spazio tra i due piccoli acquerelli ci induce anche a piccoli spostamenti fisici e ottici.

Adiacente a questo vestibolo s’apre a destra una grande stanza rettangolare, parzialmente investita dalla mole di un’alta parete eretta da Pirri e dipinta in rosso cadmio in guisa tale da dividere in diagonale tutto l’ambiente, lasciando tuttavia intravedere e praticare lo spazio al di là di essa. Appena varcata dunque questa soglia, ci si trova contesi dai richiami formulati, sul lato destro, da una losanga di piccoli quadri a base fluorescente posti su un muro dipinto di nero e, sul sinistro, dalla fuga prospettica della grande parete rossa al cui fondo si osservano sia una ‘squadra plastica’ umanizzata, sia  – illuminato da una lampada – un insieme evocativo di una figura monastica. E se i rossi cupi della ‘squadra’ s’ispessiscono matericamente nelle zone di scolatura sotto i ‘fori-occhi’, quasi per effetto di una lacrimazione generosa, qualcosa che sgorgando dalla materia pittorica contribuisce a darle forma, gli altri rossi, cioè quelli della figura monastica Occhi per piangere, e quelli del supporto ove è poggiata, e quindi della stessa parete di fondo, differiscno sensibilmente per dar corpo ad una tangibilità maggiore di quella un tempo proveniente dal riverbero delle stesse ‘squadre plastiche’. Con un efficace ripiegamento e sovrapposizione dei due angoli superiori del pannello di lattice, Pirri costruisce il nero cappuccio alla maschera chiusa in un silenzio cromatico che la grande parete dello stesso colore riassorbe.  In questa stanza, nello spazio restante alle spalle della rossa parete, si può osservare un altro lavoro: si tratta di un’opera  ricavata da un pannello d’alluminio traforato con un disegnoa rosone e trattato sul retro col blu riverberante e a vista col nero. Da questa stanza, tornando al vestibolo, si può accedere agli altri ambienti della galleria e alle ulteriori articolazioni di questo ‘percorso emblematico’. Uno degli altri spazi accoglie due grandi disegni con la colorazione a riverbero sul retro, posti tra vetri scostati dal muro; sulle ampie pagine si delineano intersecazioni di grandi cerchi e alcuni fori tondi ed ellittici da cui è stata asportata la materia cartacea, che tuttavia qua e là nelle medesime forme è ridistribuita ma arricchita di disegni dovuti alla mano di Enzo Cucchi. Anche questo episodio dialettico riformula un costume collaborativo assai diffuso in passato e ritentato ora da Pirri con evidente volontà di costruzione di un nuovo tessuto relazionale.

Prima di giungere al piccolo ma prezioso vano del ‘guardaroba’, mi preme dar conto della ‘stanza gialla’ cadmio ove, dirimpetto ad un’altra sagoma monastica (su pannello ocra scuro la maschera è gialla e il manto nero) si dispiega una ricca serie di disegni a china grassa allocati ad angolo. Questo nuovo ciclo di opere  è costituito in ogni singolo esempio da due carte su cui Pirri ha steso prima un grigio neutro acquerellato senza blu e poi da due punti aurei in ogni foglio, stavolta non perforato, ma coperto in quelle zone con due bollini di carta adesiva, dove l’artista ha lasciato ‘scolare’ della china grassa, cioè senza ammoniaca. Ogni singolo foglio, successivamente a questo trattamento, è stato accostato ad un altro ottenendo una duplicità di elementi che  nell’opera appare come uno scollamento tra due parti a riduzione planare. Ogni accostamento è casuale, con il risultato di contraddire l’effetto di specularità e simmetria pur apparente. Non avevo osservato un risultato di ambiguità tra figurazione e astrazione così latente come in questi disegni dal tempo in cui m’era capitato sotto gli occhi un magico paesaggio marino di Ciurljonis! La sgranatura, che ricorda i fondi del caffè, delle chine grasse sulle carte acquerellate in grigio evoca fortemente la dimensione liquida a cui la fattura di tutte quelle opere pur rinvia.Il lavoro con cui si conclude questa mostra di Pirri è nello stesso tempo sia un esempio di integrazione tra opera ed étant donné spaziale, sia spunto ad una riflessione di fondo sulla specificità di decorazione plastico-pittorica di un tale intervento in relazione alla tradizione di un habitat europeo, cioè quello dell’appartamento “rinascimentale italiano”, col quale sembra volersi coniugare l’intero episodio romano. La costruzione compiuta da Pirri di un piccolo setto eretto dinanzi alla soglia di quell’ambiente che sembra essere il ‘guardaroba’ dell’appartamento ne occlude in buona parte la vista sollecitando l’osservatore a superarlo. Lasciando intoccata la disposizione  dei tre armadi  con specchi settecenteschi che rinserrano in una vertiginosa gabbia di riflessi,  ogni presenza che vi capiti, Pirri ha lavorato avanti e dietro la nuova parete. Sulla faccia interna all’ambiente, quasi custode secolare, la terza silhouette monastica di questa mostra si erge muta e criptica. Dominano, sulle tre quote di elaborazione della figura i blu e l’indaco. Col nero invece è coperto uno dei tre rosoni con cui è dipinto e traforato il pannello di alluminio che copre buona parte dell’altro versante double-face. Un tale diaframma conferisce segretezza a quel piccolo scrigno di riflessione e la mente non fatica a rievocare gli spazi qualificati della antica casa veneziana o esempi di studioli rinascimentali italiani come quelli del Duca di Montefeltro al Palazzo Ducale di Urbino o di Francesco I a Firenze.

Ma più che aspirare ad eguagliare quelle gemme, il lavoro di Pirri, che appare tutt’altro che nostalgico, introduce un parallelismo tra la concezione dell’opera, di sua pertinenza, e la facoltà di sintonizzarsi sulle stesse frequenze di patrimonio visivo dell’osservatore chiamato, in tal modo continuamente ad un incontro su dati di comune appartenenza. E’ in questo infine che credo si commisuri quel sentimento espresso da Pirri allorché a proposito dell’opera «frutto alla stesso tempo di un sacrificio e di un rischio» affermava che essa, una volta orientata a ‘proseguire’ la declinazione della grande tradizione, poteva rivendicare «una possibilità di esistenza in questo mondo», aggiungo, ‘fondata’ e perfino iniziatica. Da questo pensiero di appartenenza scaturisce la qualità etica di questo ultimo episodio di lavoro di Pirri, vitale, come i piccoli disegni disseminati ovunque nella mostra, che restituiscono all’arte una necessità di incalzante freschezza.

Bruno Corà
Roma, 19 ottobre 1994

NOTE
(1) – Alfredo Pirri, “Dialogo per la luce” con Giorgio Corsetti, in A. Pirri, 4 Discorsi 5 Dialoghi, Hopefulmonster, Firenze, 1993, pag. 101
(2) – A. Pirri, op. cit., pag. 87.

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