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FARE E RIFARE

Galleria Oredaria
Roma, 2004.

LA MOSTRA

In questa mostra le opere dialogano fra loro in un continuo rimando sia formale che temporale: quelle nuove, guardano a quelle già realizzate come si osserva qualcosa da cui trarre ispirazione e attraverso cui riflettere sul proprio lavoro.

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L’ARTISTA

Fare una mostra nuova vuol dire rifare (ancora) un lavoro già fatto. Non una ripetizione, qualcosa di più, un lavoro da “copista” che prende a modello il già fatto per rinnovarne l’invenzione, portando lo sguardo e il corpo verso la scoperta di nuovi particolari invisibili e in vivibili prima. Un gesto solo in apparenza auto-referente, un gesto invece auto-accogliente, cioè ospitale nei confronti di quello che permane di sé, di quello che resiste della propria immaginazione, di quello che restaura l’immagine e con essa il mondo.
Guardare le cose fatte è come guardarsi in faccia per scoprirsi sconosciuto, estraneo a sé, a quello che si è in quel preciso momento. Diciamo pure che il riguardarsi è il tentativo di ricostruire una storia personale, di ridare “corpo” ad un “autore” altrimenti invisibile, una sorta di cura della memoria altrimenti inaffidabile. Forse, proprio per questo, la parola “riguardarsi” vuol dire anche proteggersi, prestare attenzione, tenersi lontani dai pericoli, salvarsi, insomma, dal perdersi. Eppure ogni volta che si riguarda un’opera già fatta è proprio la sensazione di perdersi che sopravanza sulle altre, anzi, il riguardarsi diventa lo stimolo al riperdersi, al rifacimento di un percorso dove l’unico orientamento è il desiderio di rifare un’immagine viva.
Ho in mente una mostra in cui le opere già fatte mutano pelle, come un serpente che butta la vecchia quando ha la nuova già addosso. Non c’è mai un istante in cui ne rimane privo, anzi ve n’è uno in cui entrambe ne coprono il corpo: è questo l’istante che mi piacerebbe fissare.

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