Testi di Jannis Kounellis, Federica Zanco e Vicenç Altaiò per il progetto Passi, Maxxi, 2009
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A me, i due livelli , uno sotto ed uno sopra , fanno venire in mente i quadri di El Greco
Sopra, gli angeli, esseri incarnati, senza gravità, rappresentati da soli o in gruppo da una parte o dall’altra della tela, mossi da una logica cabalistica, non parlano, nessuno li ha mai dipinti tristi ma non sono neanche allegri, non si innamorano e non muoiono mai, protetti dal loro creatore purché non mettano i piedi per terra.Sotto, i cerchi, piccoli e grandi, di vetro colorato, che riempiono quello che rimane del disegno architettonico del pavimento una volta tolte le scale e i servizi, e sopra di loro la gente, quelli della metropolitana, con cappotto e cappello, donne del quartiere con la borsa della spesa, i capelli biondi o neri al vento, la camicetta elegante, con delle scarpe rosse vermiglione, giallo solare, verde alberi tropicali, marrone terra di Siena, nere tinte di buio, qualche bambino, qualche marito.
Vanno e vengono salendo le scale per vedere i quadri discutendo, poi ridiscendono e attraversano il territorio dei cerchi, escono per strada lì dove erano le vecchie caserme e sempre discutendo si perdono nel paesaggio urbano di Roma. Ma nel museo, i cerchi di varie misure, con i colori pallidi delle riviste americane patinate degli anni ’50, anche dopo l’ora della chiusura rimangono nella loro allegra immobilità.
Jannis Kounellis, Artista
Melanges
Il lavoro che Alfredo Pirri propone per lo spazio dell’atrio del Museo di Arte Contemporanea di Roma realizzato da Zaha Hadid muove da precedenti esperienze affrontate dall’artista. Nell’intervenire con l’installazione di vaste superfici specchianti calpestabili all’interno d spazi storicamente ed artisticamente emblematici, Pirri esplora le potenzialità iconiche del ribaltamento e della costruzione dell’immagine a partire dalle risorse offerte dallo spazio costruito, provocando, allo stesso tempo, la distruzione progressiva della stessa immagine creata.
Opere metaforiche, capaci di stimolare una diversa percezione della tridimensionalità dell’esperienza sensoriale degli spazi architettonici, le sue installazioni giocano con estrema sottigliezza sul filo del rapporto tra arte e architettura, unità e frammentazione dell’immagine e dello spazio.
Questi presupposti risultano particolarmente significativi per instaurare un dialogo con l’approccio compositivo di Zaha Hadid, da sempre impegnata nel difficile compito di analisi, decostruzione e ricomposizione dei diversi elementi generatori dell’involucro architettonico.
La zona chiave del museo concepito da Hadid, vale a dire l’atrio d’accesso, è fortemente connotato dallo sviluppo verticale e dinamico del volume e dei corpi scala che lo attraversano, ponendo l’accento su meccanismi di compressione e dilatazione della percezione spaziale destinati ad accogliere e convogliare i flussi di visitatori dall’esterno verso l’interno e viceversa.
Invece di installare un’opera finita “d’autore”, connotata e riconoscibile all’interno dello spazio dato, Pirri propone un intervento che interagisce col pavimento dell’atrio medesimo e di conseguenza, con lo spazio costruito nella sua interezza.
Focalizzare l’attenzione sulla superficie orizzontale del piano di calpestio, significa confrontarsi con un elemento figurativo e spaziale di imponente presenza nella tradizione pittorica (ma anche urbana e architettonica) dell’arte italiana.
Nella proposta di Pirri questo viene ripreso e rinnovato, subendo una trasformazione in cui lo strumento della “decorazione” non si sovrappone allo spazio architettonico ma, interagendo con esso, consapevolmente ne influenza la percezione della transizione tra città e museo, tra il dominio del reale e quello dell’arte.
Tornano in mente splendide prospettive di “interni” – tanto domestici quanto urbani- intarsiati di marmi tirati a specchio, preziosi dispositivi di basamento e ancoraggio per le scene e i personaggi rappresentati, colmi di riferimenti simbolici e collocati nel contesto di elementi naturali o artefatti.
Il paziente lavoro di mediazione richiesto dalla volontà di trasformare una provocazione concettuale in un elemento d’uso corrente, quotidiano ed anzi destinato al grande pubblico, si identifica con l’evoluzione intercorsa tra la prima e la seconda fase della proposta di Pirri per la sua installazione. A ben vedere, il processo di adattamento dell’idea originale dell’opera alla sfida della funzione reale, entro i confini definiti dalla natura dello spazio architettonico di Hadid, risponde a una costante del lavoro artistico di Pirri, da sempre improntato a una ricerca di trasversalità disciplinare tra arte e architettura.
La semplice e uniforme superficie specchiante (fragile e sonora) evolve così in un elaborato “tappeto” composito. Tarsie di vetro resistente e trattato inglobano in una materia densa e leggermente lattiginosa i frammenti specchianti distribuiti entro perimetri tondeggianti di varia dimensione. Questi si alternano a zone interstiziali che danno vita ad una superficie cromatica variegata, allegra enormalmente fruibile, la cui presenza non necessariamente viene percepita come gesto artistico, semmai entra a far parte del contesto architettonico che la ospita.
Nello spazio sovrastante, alcuni “trapezi” colorati e sospesi a diversa altezza instaurano una sottile corrispondenza con le superfici circolari specchianti distribuite sul pavimento. L’allusione al mondo del circo, ed in particolare alla levità spettacolare delle sue performance aeree o d’equilibrio, non è nuova al contesto creativo. Basti ricordare l’ammirazione tributata da Charles e Ray Eames all’arte circense quale esempio di perfezione nei risultati ottenuta, sì, a prezzo di duro lavoro ma di fatto orgogliosamente esibita senza sforzo apparente. In fondo, un atteggiamento non molto distante da quello richiesto dal gesto artistico, di qualunque natura, e certamente condiviso da Pirri.
Viene poi lasciata all’intuizione del singolo la lettura, in positivo o in negativo, del senso dell’eventuale metafora racchiusa nell’allusione al circo sia esso dell’arte, della vita, dell’architettura o dell’istituzione-museo.
I due interventi artistici distinti e complementari proposti da Pirri tendono pertanto a travalicare i limiti della cornice dell’opera finita, per interagire con lo spazio architettonico a disposizione, offrendo al pubblico un ulteriore livello di lettura del percorso che si appresta a intraprendere.
Arch. Federica Zanco, direttrice della “Barragan Foundation” Basilea
Massime per un museo d’arte del XXI secolo
Appena si entra nell’atrio del MAXXI ci sentiamo sospesi, in assenza di gravità, sollevati dallo stesso suolo che calpestiamo. Percepiamo di trovarci in un luogo caldo, gremito di memoria inerte, e allo stesso tempo in un luogo gelido, che si presta all’analisi e alla novità. Mi riconosco grazie alla grandezza che acquista la mia coscienza (sono luce senz’ombra) e mi sento infinito nel mezzo di una grande complessità, giacché gli angoli architettonici dell’edificio mi collocano in una figura geometrica dalle molte facce. La terra che calpesto è apparentemente fragile, scivolosa, ma nonostante ciò, mi sento forte e radicato. Contemporaneamente capto un’energia che mi proietta in alto, verso l’universo astratto, attraverso i numeri della matematica, i nomi della poesia, le note della musica e i movimenti della danza, e, allo stesso tempo, toccando terra, mi radico nella memoria attraverso la storia, i miti, la scienza e la comunicazione. Forse una delle qualità dell’arte è la sua capacità di presentare la conoscenza e rappresentare la memoria, e questo atto riflesso (di invenzione e di relazione) è superiore grazie alla riflessione (la critica, la mutazione). La cultura, l’arte e la scienza, quando fanno delle proposte, corrono un rischio fragile ma allo stesso tempo consistente.
Questo spazio, così pieno di un’improvvisa immagine riflessa e riflettente, mi fa sentire all’interno di una superficie orizzontale condivisa, dove sono soggetto nella comunità. L’arte è un atto di cecità nella sua autoreferenzialità ed è ugualmente un atto di visibilità per il fatto che una collettività si trova insieme e singolarmente a ammirare un’opera unica Questo atrio del MAXXI mi suscita delle massime.
Dovremo inscrivere le sentenze in un luogo pubblico con la scrittura della luce, riflessioni volatili, la cui invisibilità tutti possono leggere in zone di connessioni interne. Questo luogo mi fa sentire partecipe di una somma di percezioni individuali che costruiscono una rete di intelligenza collettiva. Il luogo, come tale non-luogo, come luogo inedito, mi confonde e mi costringe a valicare la rigorosa frontiera tra il guardare, la costruzione dello sguardo e la scrittura dello sguardo. Come visitatore, mi sento onorato che questo museo del XXI secolo, appena entro, mi invita a essere soggetto ed opera.
Che differenza c’è tra l’alzare gli occhi verso il cielo o rivolgerli verso terra? Il nostro sguardo è composto dalla conoscenza di quelli che hanno guardato prima di noi. E malgrado ciò, in questo luogo di permutazioni, il nostro sguardo sarà inaugurale. Sappiamo che, nel Mediterraneo, i nostri classici videro nella terra lo specchio del cielo e tutto quello che succedeva là si proiettava come simulacri nell’aria. La cultura mediterranea creò una morale come forma di civilizzazione. In Oriente, mentre alcuni riproducevano fedelmente la matematica astronomica, altri pulivano il cielo fino a farlo diventare uno specchio. Astrazione mistica o iper-realtà. Più tardi, nel Rinascimento, lo specchio si fece curvo e iniziarono a scendere sulla terra gli dei e le anime per umanizzarsi. Fu la stampa che mise su uno stesso livello le immagini superiori e quelle ricettrici. Con l’Enciclopedia arrivò la diffusione di una conoscenza orizzontale, razionale, un ideale universale, rivoluzionario, somma di frammenti. E quando il filosofo-artista aggiunse alla certezza materialista l’incertezza, si trovò solo, isolato, come un personaggio del circo che attraversa la pubblica piazza sospeso su un filo.
Arrivato fin qui, oggi, con le nuove conoscenze interdisciplinari e trasversali tra le Arti, le Scienze e la Comunicazione mai più l’arte sarà solo lo specchio del mondo. Un ridimensionamento della conoscenza e un’irradiazione dell’invenzione, dell’etica della partecipazione e dell’estetica della libertà, ci compromettono in questo Luogo e Non- Luogo, Luogo del Piacere e del Sapere critico, Luogo del Soggetto e dell’Intelligenza collettiva.
Alfredo Pirri, conosce, come noi conosciamo, lo sforzo per il sapere e del vivere nell’enigma. L’angelo caduto e il filosofo chiacchierone sono precipitati e incastrati al suolo, e hanno rotto il grande specchio, momento nel quale tutte le immagini della storia della rappresentazione si sono sparse in piccoli frammenti fino a scomparire. L’arte nasce quando si cancella, in una tenace volontà di tornare a cominciare, di osare a tornare a parlare. Il Museo quindi rifonda la realtà.
Ed ecco qui la leggenda, dinamica e formale, di esperienza e rituale, attraverso la quale Alfredo Pirri ci invita ad entrare: ricostruire con le immagini cadute e invisibili, assorbite dallo specchio, uno spazio riflessivo e riflettente; uno spazio di rifiuto della memoria e di rifondazione della percezione; uno spazio di scoperta del corpo soggettivo in un’opera collettiva, rete sociale; in definitiva, un luogo dei luoghi e un’arte delle arti: un Museo d’arte del XXI secolo.
Vicenç Altaiò, scrittore, saggista e direttore d’Arts Santa Monica, Barcellona
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