La camera d’erba – Giardini interrotti
di Laura Cherubini
“Il giardino va inteso come una pittura”
W.J. Goethe
“…il prato ed i fiori di ogni sorta, come in una camera un tappeto artificialmente realizzato, debbono adornare il suolo con figure simmetriche e varietà di colori. I bacini pieni di acqua limpida e ferma sono gli specchi di questi giardini come saloni all’aria aperta…”
Augusto Guglielmo Schlegel
Dal Medioevo al Rinascimento fino quasi ai nostri tempi ha trovato permanenza un elemento particolare, quasi un giardino nel giardino, che si trova in molti luoghi, da Villa Lante a Bagnaia a Palazzo Farnese a Caprarola, il giardino segreto. Una “stanza verde” la chiama Gabrielle van Zuylen, ma in fondo ogni giardino lo è, in fondo ogni giardino ha la vocazione alla casa. Rosario Assunto, sulla scorta della distinzione operata da Schlegel tra giardino pittorico (all’inglese) e giardino architettonico (alla francese e all’italiana) scrive che quest’ultimo “va considerato come una totalità di corridoi e sale abitabili, che piace per i viali dritti e regolari, per le pareti di siepi potate a regola d’arte, per i piani terrazzati”. E in effetti in questo tipo di giardino si configurano vere e proprie camere verdi con le siepi come “muri viventi”, il prato come pavimento, le aiuole come tappeti, gli alberi come mobilio e come soffitto il cielo.
L’idea della casa, della stanza, e quella del giardino sono da sempre collegate e vivono in uno scambio continuo. Rainer Maria Rilke, solo e malato, inizia una corrispondenza con la giovane istitutrice ginevrina Antoinette de Bonstetten (la prima lettera è del 7 marzo 1924, l’ultima del 227 ottobre 1926). Antoinette gli parla dei corsi di orticoltura che ha seguito e Rilke le chiede di aiutarlo a sistemare il giardino di Muzot che diventa il protagonista della loro corrispondenza. Ma ci sono i lavori anche nella casa e c’è da scegliere la carta da parati per lo studio: “Avrei voluto poter invocare i suoi consigli, così importanti per la ‘camera d’erba’, anche per questa camera che è sempre stata verde” scrive il poeta. Rilke dunque definisce il giardino come camera d’erba. Il giardino possiede la segreta aspirazione alla dimora.
Da un certo punto di vista il lavoro di Alfredo Pirri per la mostra La ville/Le jardin/La mémoire appare vicino a questa tradizione del giardino architettonico, ma il giardino che ha progettato si sostituisce in qualche modo all’architettura. Pur essendo consapevole del dialogo intrapreso con l’architettura dalla sua generazione, Pirri ora dichiara di non credere più a questo confronto, poiché “l’architettura è sempre più spesso espressione privilegiata del potere”. Questo luogo dunque si oppone al carattere “monumentale” dell’architettura e anche se è una struttura autonoma, autoportante, possiede tuttavia una permeabilità, agli agenti atmosferici ad esempio, che ne permette la “sparizione” in una sorta di trasparenza. Secondo la definizione dello stesso artista si tratta di un racconto cromatico, “dove le persone possano incontrarsi pur rimanendo sole”.
Via d’ombra è, come ha detto Hans Ulrich Obrist mentre Pirri ci esponeva il progetto, “un falso hortus conclusus“. Già il luogo prescelto è sì una delle stanze di verzura in cui il giardino di Villa Medici è diviso in analogia alle camere di una casa, ma è un carré abitato da un boschetto, raro a Roma, di bambù. Il bambù è quasi una pianta musicale. Si dice infatti che i cinesi mettessero bambù davanti alle finestre poiché il vento, frusciando tra le piante, provocava una risonanza. Un boschetto di bambù è un unico organismo, per cui se una pianta si ammala, essa mette in pericolo l’intera comunità vegetale; al tempo stesso, il boschetto ha profondi argini, poiché la sua espansione può essere dilagante. Qui, nell’intrigo dei vegetali, che fa pensare agli esotici intrecci di Rousseau il Doganiere, alle quinte di verzura di Botticelli, al fitto viluppo di arabeschi, di ghirigori in cui l’occhio si perde, Pirri, a cui interessa l’aspetto percettivo-astratto del bambù, ha creato un percorso, una sorta di corridoio dalle linee spezzate pavimentate, come in un appartamento, da cemento colorato, una cesura tra interno ed esterno.
Non è la prima volta che Pirri ci guida attraverso un percorso. Nello spazio di Volume! in via San Francesco di Sales a Roma, dove gli interventi degli artisti si sono sommati e intrecciati ai lavori del cantiere e in successione con i lavori di Jannis Kounellis e Bernard Rüdiger, Pirri predispone un percorso iniziatico ampliando nell’ambiente l’esperienza delle “squadre plastiche”, strutture in cui il colore è dato per riflesso, realizzando una sorta di discesa agli inferi poi riscattata da squilli di tromba (in realtà vecchi megafoni adoperati prima per i discorsi in piazza Venezia di Mussolini e poi per le esibizioni canore del Trio Lescano) e infine incamminata verso il ritorno alla luce attraverso una passerella sospesa sulle fondamenta dell’edificio, lambite dalle acque sotterranee del fiume. “La presenza del fiume è stato un confine, però, nello stesso tempo è stato un regalo, ha dato al lavoro la sensazione di situarsi su un’isola, conferendogli un sentimento di solitudine e pure una sensazione di galleggiamento” scrive l’artista. L’ambiente è già concepito come un “paesaggio” e il camminamento per attraversarlo è “una fascia molto leggera, bianca, stretta circa settanta centimetri e lunga otto metri, sottile appena due centimetri, che non toccava da nessuna parte sui lati lunghi e sfiorava appena i bordi della stanza sui lati corti… Camminandoci sopra si aveva la sensazione di muoversi sfruttando un’energia cromatica basata sul colore”. Questa passerella appare come un’anticipazione vera e propria del corridoio sospeso attraverso il folto intreccio dei bambù. Come dicono i cinesi “Il giardino è casa”.
A confronto con la globalità dell’aura che spira in genere nel felice sito del giardino, qui si avverte il ritmo di un sospiro che si arresta. L’opera si pone come momento di risanamento all’interno del progetto di sistemazione e potatura di questo pezzetto di giardino. Il motivo floreale di fine Ottocento è il tema decorativo che fa da guida al percorso rosso che si snoda senza mai essere visibile per intero e per lo più nascosto dai bambù. In pochi punti, inaccessibili o visibili solo da lontano, alcune stazioni cromatiche costituite da elementi verticali in cristallo fuso su rame con una conformazione analoga ai bambù e una possibilità di sviluppo simile alla crescita naturale: un dono per gli occhi come l’apparizione di bacche in un bosco. Anche la luce avrebbe una disposizione naturale, come di un rampicante. Il destino di questo luogo è quello di un paradisiaco Eden dove le opere vengono scoperte come un frutto. A proposito del progetto per Volume! Pirri ha dichiarato di aver continuato a “trattare la materia e lo spazio come un’immagine pittorica…”, ma a pensarci bene è la stessa identica operazione che ha condotto qui a Villa Medici. Anche sulla flessibile e intricata materia verde del giardino dei bambù l’artista ha lavorato “come ad un quadro, con luci e ombre da distribuire e superfici da colmare col colore” (per continuare a usare le parole dedicate all’opera realizzata in via San Francesco di Sales). Anche lì, durante il cammino, si incontravano opere dai riverberi rossi. Lì, in un interno, i visitatori entravano uno alla volta per trovarsi in quella condizione solitaria e contemplativa atta a far crescere un “racconto interiore” che si modificava insieme al percorso. Qui, nell’esterno vissuto come interno, tutto cresce e si trasforma, dentro e fuori di noi, poiché siamo circondati da un organismo vivente quanto il nostro. La stanza infatti si trasforma in giardino in una sorta di metamorfosi del tipo di quella che Marcello Fagiolo (a proposito dei teatri di verzura) definisce suggestivamente sindrome di Dafne.
Il percorso dà corpo alle zone d’ombra entro le quali si aprono piazze e si collocano muretti come punti di interruzione. Le quattro piazze si allargano nelle zone più ombrose, mentre in corrispondenza “una porzione di pavimento in cemento colorato e decorato ci riporta ad una sensazione di domesticità”. E in effetti quel pavimento all’antica ha una inequivocabile connotazione domestica, essendo quello che le stesse maestranze montano, nello stesso momento, nella nuova casa di Alfredo Pirri, una vera e propria opera (un giorno forse dovrà essere scritta una storia delle case degli artisti, in particolare di quelle che si configurano come opere, da Meret Oppenheim a Vettor Pisani allo stesso Pirri, piacerebbe anzi a me scriverla), un villino dal nobile passato, salvato dall’artista dallo stato di abbandono, il cui giardino è una lingua di terra che si insinua tra la strada ferrata e l’acquedotto romano e quasi lambisce le arcate e i binari nella pasoliniana zona del Mandrione.
Il tema della piazza introduce a quello della città. Nel 1998 a Siena, alla mostra Atlantide, nel Palazzo delle Papesse, l’artista aveva realizzato un paesaggio urbano, fatto di libri, città e biblioteca al tempo stesso, che poteva essere osservato dall’alto, dal punto di vista di un balconcino, quasi un piccolo belvedere che affacciava su un interno. L’interno si configurava come una stanza/testa interamente dipinta di un tenue grigio, con allusione alla materia grigia del nostro cervello. La presenza della poetessa Mariangela Gualtieri connotava inoltre l’ambiente come spazio poetico e di linguaggio e anticipava il futuro progetto di realizzare in Siena una biblioteca dedicata alla poesia sui temi del paesaggio e del giardino. Dunque dietro all’analogia cameragiardino si cela quella più segreta con il capo e la mente, The garden in the brain scriveva Emily Dickinson.
L’opera di Pirri a Villa Medici è una vera e propria abitazione, ma sezionata con grazia geometrica, tagliata con un bisturi che divide la luce dall’ombra, unica area vivibile e praticabile di cui l’architettura diviene la solidificazione. Ponendo l’analogia giardino/casa, nel tentativo di ricreare un ambiente chiuso, Pirri indica non un rintanarsi, ma un gettar luce su cosa si intenda come stanza. E’ la stanza che va considerata come trasparente e non il giardino come chiuso. Molto netta è la percezione di stare e vivere in quello che in termini architettonici è un interno, e che qui invece è un bosco vivente. “Se abbatto i muri, mi troverò circondato dal giardino…” (Deng Ming-Dao). Qui le mura sono già cadute e dalle pareti vegetali filtra la luce. Una delle principali caratteristiche infatti è che si tratta di un ambiente permeato dall’aria e dalla luce ed è questo il presupposto percettivo per il quale lo spettatore si sente estraniato, ma ospitato. L’architettura interrompe il giardino e viceversa. Nel bosco in cui verticalità e orizzontalità interferiscono di continuo, i sentieri sono sempre interrotti. L’interruzione è un prodotto del tempo, è il tempo che si spazializza. Il giardino è fatto dalle persone, dai loro sguardi. Un paesaggio che si costruisce attraverso gli sguardi di coloro che lo percorrono. Una cristallizzata via d’ombra.