“There is another sky,
Ever serene and fair,
And there is another sunshine,
Though it be darkness there;
…
Here is a little forest,
Whose leaf is ever green;
Here is a brighter garden,
Where not a frost has been
…”
Emily Dickinson
Posta sulla via Francigena, a metà del suo cammino percorso dai pellegrini, la Cappella Gentilizia attende, vestita poveramente all’esterno. I primi documenti di questa antica via, fatta di molti sentieri interrotti, risalgono al IX secolo. La lunga strada parte da Canterbury e arriva a Santa Maria di Leuca. I pellegrini si fermavano a Roma oppure dalla Puglia si imbarcavano per la Terra Santa.
Ma in un certo senso anche all’interno della Cappella un percorso spirituale prosegue…
Nella testa
“…The Brain is wider
Than the Sky…”
Emily Dickinson
All’interno l’atmosfera è dominata dal colore grigio attraversato da un foro luminoso, un’altra apertura che dall’interno guarda verso l’esterno. Questa dominante cromatica grigia è un indizio del vero luogo dove ci troviamo in questo momento… Per individuare dunque la vera natura del luogo faremo riferimento a una precedente opera di Alfredo Pirri, che ha immaginato la Cappella attraverso una modalità di progettazione di un nuovo spazio architettonico da parte di un artista. Non sempre infatti i disegni costituiscono indicazioni progettuali, ma intuizioni d’atmosfera che hanno accompagnato il lavoro anche cromaticamente. Ogni immagine anche tridimensionale ha una matrice pittorica. Qui nella Cappella è un immaginario bidimensionale a trasferirsi nella terza dimensione.
Ma torniamo al colore grigio che informa di sé l’intero ambiente.
Nel 1998 al Palazzo delle Papesse di Siena (nell’ambito di una mostra curata da me, Atlantide), Pirri presentava il progetto di una biblioteca dedicata alla poesia italiana sul paesaggio. L’artista aveva realizzato una intensa installazione intitolata La stanza di Penna con doppio riferimento al poeta Sandro Penna e allo strumento di ogni scrittore. Aveva composto a terra un paesaggio, quasi urbano, di libriccini, che riflettono i colori l’uno con l’altro. Anche per la biblioteca era previsto questo tipo di disposizione, poiché anche la biblioteca è un tipo di paesaggio, quello di un orizzonte mentale. Infatti, non solo come punto di vista era previsto un balcone con funzione di belvedere, ma il colore di questa stanza che simultaneamente alludeva a un interno e a un esterno era un grigio tenue, che è quello della nostra materia cerebrale. Una cerebrale camera con vista. Ci trovavamo nella nostra mente ed è in questo interno che la poetessa Mariangela Gualtieri avrebbe declamato i suoi struggenti versi.
Il grigio è il colore dell’ombra e della penombra. Il colore della cenere. La Cenerentola dei Grimm viene spogliata delle sue belle vesti e le viene fatta indossare “una palandrana grigia”, senza tuttavia riuscire a spegnerne la bellezza.
Nell’opera di Siena il macrocosmo della città era riassunto nel microcosmo della mente umana attraverso il colore grigio della materia cerebrale. Dunque la vera natura del sito della Cappella è natura mentale e qui e ora, al suo interno, siamo dentro a una scatola cranica, dentro la nostra testa.
Materie
“…A bird is off all being
The likest to the Dawn
An Easy Breeze do put afloat
The General Heavens-upon-…”
Emily Dickinson
Nella Cappella si celebra l’incontro tra opposte materie: il cemento pesante, opaco e grezzo e il vetro fluido, leggero e trasparente e la sua variante riflettente, lo specchio. I materiali vengono rotti, subiscono la trasformazione e l’evoluzione del tempo. A terra il pavimento che il nostro passo frantuma è fatto di cinque strati: quattro di vetro (uno per ognuno) e uno di specchio. Nel cemento affiorano ferri che disegnano lo spazio recando con sé il riferimento alla Casa dello Studente di Urbino di Giancarlo De Carlo, l’architetto che ribalta in positivo l’errore tecnico. I ferri sono i nervi scoperti dell’architettura: la cappella non è un luogo di pace, ma di armonia nata dalla tensione. Sono le tensioni dei ferri a generare lo spazio. Per Pirri è quella l’idea di armonia a cui si dovrebbe tornare. Pensa infatti al Trattato di armonia di Arnold Schonberg, l’inventore della musica dodecafonica, considerato il musicista della dissonanza che invece è l’ultimo a dedicare un testo teorico al tema antico e universale dell’armonia, ma certo si tratta di una rinnovata e ritrovata armonia, declinata in chiave contemporanea.
Così il pavimento frantumato ricompone un’unita rinata dai frammenti che si creano attraverso un ritmo casuale.
Il pavimento rotto e specchiante, che si fa caleidoscopio e riflette frammentandola la figura umana, ma anche il paesaggio della Cappella, rimanda a un altro precedente nell’opera di Pirri. O meglio, si tratta di un ciclo di opere, sempre diverse, intitolate Passi, che hanno trovato realizzazione in differenti luoghi: il pavimento rovina sotto i piedi dei visitatori, con pericolo (contenuto, ma implicito) di ferirli, perché l’arte è anche ferita, alla Certosa di Padula, a Villa Guastavillani a Bologna, alla Pescheria di Pesaro, a Roma al Foro di Cesare, luogo fondativo della città… Ogni volta si spezza e si ricostruisce una nuova forma di armonia, o, in altri termini, un grado più elevato di essa. Nell’installazione del 2011 alla GNAM di Roma l’opera si colloca nella Sala delle Celebrazioni e ingloba al suo interno sculture storiche, a partire dal calco del volto del Canova, fornendo una sintetica rilettura critica, un compendio, della storia e delle ragioni del museo, che nasce intorno alla domanda se il Canova sia l’ultimo degli antichi o (come ritiene ad esempio Giulio Carlo Argan) il primo dei moderni.
Ma tra i materiali della Cappella c’è anche il cielo, vicino e lontano, che si affaccia impalpabile dall’alto. La finestra sul cielo è un’apertura che ci permette di leggere nel cosmo gli accadimenti della morte e della nascita. La porzione celeste è come un quadro nel quadro, un’opera nell’opera. L’altra diafana apertura è quella della porta, soglia, filtro e schermo. Tra i due cristalli sono inserite piume che però sembrano volare, restano sospese, volteggiano nella leggerezza.
L’offerta
“Nature –the Gentlest Mother is
…
When all the Children sleep-
…
With infinite Affection-
And infiniter Care-
Her Golden finger on Her lip-
Wills Silence –Everywhere-“
Emily Dickinson
Veder crescere la materia attorno a un’idea fino alla sua realizzazione nella forma è l’essenza del procedimento che porta alla configurazione finale della Cappella, configurazione che non esclude evoluzioni e interni accadimenti. Su una delle pareti si affacciano quattro mensole per le urne che come braccia si protendono e sembrano porgere, offrire qualcosa. Un’indagine sulle geometrie della luce (condotta dal committente stesso attraverso calcoli matematici, anziché desunta da applicazioni tecnologiche) ha identificato un unico giorno dell’anno in cui la luce toccherà, bagnerà, comprenderà tutte e quattro le urne.
La Cappella è un luogo dell’interiorità le cui radici si insinuano tra terra e cielo. Il fatto che l’urna sia dello stesso materiale del pavimento indica che quel che resta del corpo torna al pavimento del mondo, alla madre terra. Ma il fatto stupefacente è che qui, nella Cappella, è avvenuta un’inversione delle materie: il luminoso specchio sta in basso, mentre lo scabro e pesante cemento sta in alto. Questa metamorfosi del peso in leggerezza e viceversa fa sì che lo spazio subisca un rovesciamento, che il cielo si muti in terra e la terra in cielo.
“Il cielo dell’ampio lucernario, riflesso sul pavimento, sembra aprire una finestra sugli antipodi, come se fosse possibile attraversare con lo sguardo l’intero spessore della Terra e considerare simultaneamente entrambi i lati sconfinati dell’universo in cui stiamo sospesi come piume” (Stefano Velotti).
Sulla opposta parete di fronte sta un ulteriore elemento: una scatola che serve alla manutenzione della Cappella, punzoni per scrivere i nomi e altri strumenti… E’ una cassetta degli attrezzi, ma anche uno scrigno che cela e serba memorie di famiglia: è qui infatti che si conservano le foto degli avi. E’ a mio parere di estremo interesse che la memoria abbia sede lì dove riposano gli oggetti deputati alla manutenzione, gli strumenti tecnici destinati al lavoro. Viene alla mente il nesso profondo tra arte e tecnica evidenziato da Martin Heidegger ne L’origine dell’opera d’arte (saggio principale dei suoi Sentieri interrotti) attraverso l’analisi del termine greco téchne, che non indica soltanto la tecnica, ma anche l’arte, che risultano quindi, nell’antica e grande sapienza del linguaggio, indissolubilmente connesse. La téchne greca di cui Heidegger parla è una modalità del sapere in cui le azioni dell’ideare e del fare non sono mai disgiunte.
La camera verde
“… Of Chambers as the Cedars-
Impregnable of Eye-
And for an Everlasting Roof
The Gambrels of the Sky-…”
Emily Dickinson
Ma c’è un riferimento ulteriore che calza a pennello al lavoro di Pirri in generale, ma anche a questa Cappella in particolare (per la quale, ancora una volta, cercheremo di rintracciare analogie e differenze con fatti precedenti). Dal Medioevo al Rinascimento fino quasi ai nostri tempi ha trovato permanenza un elemento particolare, quasi un giardino nel giardino, che si trova in molti luoghi, da Villa Lante a Bagnaia a Palazzo Farnese a Caprarola, il giardino segreto. Una “stanza verde” la chiama Gabrielle van Zuylen, ma in fondo ogni giardino lo è, in fondo ogni giardino ha la vocazione alla casa. Rosario Assunto, sulla scorta della distinzione operata da Schlegel tra giardino pittorico (all’inglese) e giardino architettonico (alla francese e all’italiana) scrive che quest’ultimo “va considerato come una totalità di corridoi e sale abitabili, che piace per i viali dritti e regolari, per le pareti di siepi potate a regola d’arte, per i piani terrazzati”. E in effetti in questo tipo di giardino si configurano vere e proprie camere verdi con le siepi come “muri viventi”, il prato come pavimento, le aiuole come tappeti, gli alberi come mobilio e come soffitto il cielo.
L’idea della casa, della stanza, e quella del giardino sono da sempre collegate e vivono in uno scambio continuo. Rainer Maria Rilke, solo e malato, inizia una corrispondenza con la giovane istitutrice ginevrina Antoinette de Bonstetten (protagonista di queste lettere tra il 1924 e il 1926 è proprio un giardino) chiedendole consigli per il giardino, ma anche per i lavori nella casa: “Avrei voluto poter invocare i suoi consigli, così importanti per la ‘camera d’erba’, anche per questa camera che è sempre stata verde” scrive il poeta. Rilke dunque definisce il giardino come camera d’erba. Il giardino possiede la segreta aspirazione alla dimora.
Da un certo punto di vista il lavoro di Alfredo Pirri per la mostra La ville/Le jardin/La mémoire (Villa Medici, Roma 2000) era vicino a questa tradizione del giardino architettonico, ma il giardino da lui progettato si sostituiva in qualche modo all’architettura. Si opponeva al carattere “monumentale” dell’architettura e anche se si trattava di una struttura autonoma, autoportante, era tuttavia dotata di permeabilità, agli agenti atmosferici ad esempio, che ne permetteva la “sparizione” in una sorta di trasparenza. Secondo la definizione dello stesso artista si trattava di un racconto cromatico, “dove le persone possano incontrarsi pur rimanendo sole”. Via d’ombra (questo il titolo) è, come ha detto Hans Ulrich Obrist mentre Pirri esponeva il progetto al nostro team curatoriale, “un falso hortus conclusus “. Già il luogo prescelto era sì una delle stanze di verzura in cui il giardino di Villa Medici è diviso in analogia alle camere di una casa, ma è un carré abitato da un boschetto, raro a Roma, di bambù. Il bambù è quasi una pianta musicale. Si dice infatti che i cinesi mettessero bambù davanti alle finestre poiché il vento, frusciando tra le piante, provocava una risonanza. Un boschetto di bambù è un unico organismo, per cui se una pianta si ammala, essa mette in pericolo l’intera comunità vegetale; al tempo stesso, il boschetto ha profondi argini, poiché la sua espansione può essere dilagante. Qui, nell’intrigo dei vegetali, che fa pensare agli esotici intrecci di Rousseau il Doganiere o alle quinte di verzura di Botticelli, fitto viluppo di arabeschi e di ghirigori in cui l’occhio si perde, Pirri aveva scelto di inserirsi nel percorso di potatura delle piante ammalate (quelle che rimanevano in permanenza in ombra), necessario a salvare l’organismo unico dei bambù. L’artista, interessato all’aspetto percettivo-astratto del bambù, ha creato un cammino, una sorta di corridoio dalle linee spezzate pavimentate, come in un appartamento, da ceramiche rosse, una cesura tra interno ed esterno. Non è la prima volta che Pirri ci guida attraverso un percorso. Nello spazio di Volume! in via San Francesco di Sales a Roma, dove gli interventi degli artisti si erano sommati ai lavori del cantiere e in successione intrecciata Alfredo Pirri, Jannis Kounellis e Bernard Rudiger erano intervenuti nella carne viva dell’edificio. Pirri aveva predisposto un iniziatico camminamento ampliando nell’ambiente l’esperienza delle “squadre plastiche” (strutture in cui il colore è dato per riflesso), realizzando una sorta di discesa agli inferi poi riscattata da squilli di tromba. Per esperire il lavoro i visitatori percorrevano una passerella, anticipazione vera e propria del corridoio sospeso attraverso il folto intreccio dei bambù. Come dicono i cinesi “Il giardino è casa”.
In ambedue i casi Pirri ha dichiarato di aver trattato “la materia e lo spazio come un’immagine pittorica…” cosa che farà ancora, in altro modo, nella Cappella Gentilizia. Nel carré di bambù, nell’esterno vissuto come interno, tutto cresceva e si trasformava, dentro e fuori di noi, poiché eravamo circondati da un organismo vivente quanto il nostro. La stanza infatti si trasforma in giardino in una metamorfosi che Marcello Fagiolo (a proposito dei teatri di verzura) definisce suggestivamente sindrome di Dafne.
E in effetti quel pavimento all’antica aveva un’inequivocabile connotazione domestica, essendo quello che le medesime maestranze montavano, proprio allora, nella nuova casa di Alfredo Pirri, una vera e propria opera (nella linea delle case degli artisti, da Meret Oppenheim a Salvador Dalì a Vettor Pisani), un villino dal nobile passato, salvato dall’artista dallo stato di abbandono, il cui giardino è una lingua di terra che si insinua tra la strada ferrata e l’acquedotto romano e quasi lambisce le arcate e i binari nella pasoliniana zona del Mandrione. Ponendo a Villa Medici l’analogia giardino/casa, nel tentativo di voler apparentemente ricreare un ambiente “chiuso”, un interno, Pirri indicava non un rintanarsi, ma un gettar luce su cosa si intenda come stanza. E’ la stanza che va considerata come trasparente e non il giardino come chiuso. L’architettura interrompe il giardino e viceversa. Nel bosco in cui verticalità e orizzontalità interferiscono di continuo, i sentieri sono sempre interrotti.
Ma anche la Cappella Gentilizia si trasforma attraverso la sindrome di Dafne, la ninfa che si mutò a vista nella pianta di alloro. A ben vedere infatti l’interno della Cappella si rovescia in un esterno, si lascia permeare dalla luce e dall’etere, si dischiude al cielo, al cosmo, all’universo, ma anche alla collettività, allo spazio pubblico. Le nervature dei ferri sono rami arborei, la luce del cielo penetra nell’ambiente e va a riflettersi nello specchio d’acqua del pavimento, quasi un laghetto o uno stagno. Rispetto al boschetto di Villa Medici è uno spoglio giardino d’inverno, dedicato a una delle stagioni dell’uomo, è forse il “giardino remoto e freddo” di cui parla Pessoa, ma è pur sempre un giardino, nel suo cinereo abbagliante splendore, nella sua dialettica luce/ombra, nella sua continua reversibilità interno/esterno.
L’immagine corale
“… E quanta nostalgia avremo dell’umano
Come ora l’abbiamo dell’infinità…”
Mariangela Gualtieri
Alcuni anni fa (2014), invitato da me a tenere una lezione all’Accademia di Brera, Alfredo Pirri aveva definito il compito della critica nell’accompagnare lo spettatore sul ciglio del baratro dell’immagine e lasciarlo lì a guardare il tempo che scorre. L’immagine a quel punto, diceva Alfredo, non ha neanche più niente a che fare con l’artista, per questo può nascere il collezionismo. L’immagine, diceva ancora Alfredo, è l’unica cosa veramente collettiva.
Tutto nella Cappella Gentilizia progettata da Alfredo Pirri parla di coralità. Non è stato infatti concepito come un luogo commemorativo e privato, ma come dono, come un ultimo regalo alla comunità da parte dei committenti, un gesto pubblico, infine. Tutta la grande arte italiana è nata per committenza. La committenza, ripeteva Luciano Pistoi, è una modalità di partecipazione all’avventura creativa. Non è che un inizio ci suggerisce l’artista… Il destino finale dell’arte è comunque, sempre, pubblico.
Laura Cherubini