Caricamento...

SELINUNTE

Progetto di Alfredo Pirri in collaborazione con Andrea Stipa e Antonella Mari (architetti)
Acropoli di Selinunte
2009

IL PROGETTO

Lo scrittore giapponese Yukio Mishima, il mattino stesso del giorno in cui si suicidò insieme a sei  discepoli con i quali aveva appena sequestrato, in una caserma dell’aeronautica militare, un generale dell’esercito  e dopo avere provato a rivolgersi  ai soldati per condurli all’insurrezione, consegnò all’editore il suo ultimo libro dal titolo: Lo specchio degli inganni. Questo Romanzo è l’ultimo di una trilogia dal titolo “Il mare della fertilità”. Questa trilogia racconta la vita di tre personaggi due dei quali scompaiono dopo il primo volume, il primo, maschile, muore a quattordici anni per un suicidio rituale, il secondo (femminile) semplicemente non c’è più nei romanzi successivi, di lei si smette di parlare; il terzo (chiamato Honda) trascorre la vita alla ricerca di giovani ragazzi (o anche ragazze) che siano la reincarnazione del suo giovane amico scomparso tragicamente a 14 anni. (…)  Tutta la vita di Honda, trascorre nel tentativo di ricongiungersi al suo amante giovanile e forse rappresenta un desiderio permanente di  giovinezza piena che sigilla il tempo bloccandolo in un  atto plastico perfetto. Alla fine del terzo volume Honda ormai al termine della vita desidera fortissimamente rivedere la bambina apparsa all’inizio della trilogia che è nel frattempo divenuta la Madre Badessa di un famoso convento Buddista, così da poter ricordare insieme a lei, unica testimone del passato comune, l’amico scomparso e riportarlo definitivamente alla vita attraverso la memoria. Ma, dopo il lungo raccontare di Honda, la Madre Badessa rimane muta e dice di non ricordare nulla, né di lui né del suo amico scomparso e conclude il libro con le parole ” la memoria, è lo specchio degli inganni”.
Il romanzo probabilmente ruota intorno ad una domanda: come può la forma artistica (o vitale) affrontare quel sentimento di nostalgia che ci assale ogni volta che guardiamo al passato? E quindi, dobbiamo riferirci ad esso come fosse un’immagine perfetta ed immobile o invece dovremmo portarcelo dentro come un racconto continuamente rinnovabile?
L’idea che il passato sia posto sotto i nostri piedi,  con la forma di uno specchio messo li apposta per rimandarci l’immagine di quello che siamo stati (ponendo così le basi per quello che saremo) è un’idea infranta sia dalle ricerche più attuali dell’archeologia sia da quelle artistiche o architettoniche, come continuamente infranto è il desiderio di Honda di ricongiungersi al giovane corpo dell’amico. Questo, però, non deve impedirci di sentirlo come “Nostro” (come ha cercato di fare il post-modernismo) ma di negoziare con esso spazi ed atti immaginativi, cioè scambio di energie contro forme, racconti contro notizie. Fare negozio col passato vuol dire comprare e vendere in continuazione attimi del tempo presente  senza  ipotecare quello futuro, anzi lasciandolo libero da impegni gravosi che caratterizzerebbero pesantemente le scelte di quelli che verranno. Bisogna porre il tempo e lo spazio in attesa, valorizzando questa posizione, una sorta di accettazione non supina ma dinamica del tempo che scorre rompendosi sotto i nostri piedi.
Tutti i quadri di Lucio Fontana normalmente chiamati “Tagli” si intitolano invece “Attese”, attese di cosa?  Di un cambiamento futuro nella storia degli uomini? Di uno spazio differente?  Dell’arrivo di un messia? Credo semplicemente che il titolo di quei quadri solleciti una predisposizione, sia dell’animo che del corpo e anche, per noi, della percezione di ambedue in una nuova dimensione temporale: attendere vivendo e partecipando alla vita. La medesima strategia tecnica e metodologica (e anche dimensione mentale) costitutiva di un sito archeologico.
Ogni opera sia essa artistica o architettonica che si andrà ad installare qui a Selinunte non può che essere riconoscibile e reversibile ponendosi appunto in “attesa” ed allo stesso tempo permeare di se e del proprio senso la lunga linea, continua  ma frammentaria,  che attraversando Marinella sfinisce sul ciglio della collina su cui è posto il Baglio Florio più precisamente sulla piattaforma esterna di una grande cisterna sommersa di forma cubica  che molto fa pensare a quel “White cube” che sta all’origine di ogni teoria moderna sugli spazi espositivi.
Ma questa volta questo “cubo bianco” è sprofondato nel terreno, come quasi tutto quello che lo circonda anch’esso è una rovina dal quale proviene, un suono di eco quando si alza la botola che lo sigilla in alto (nel pavimento per noi che possiamo camminarci sopra). Questo suono dovremmo essere capaci di riportare dentro e fuori lo spazio archeologico diffondendolo e trasformandolo in forme armoniche che si posano nello spazio cittadino in modo leggero come fa l’insetto sul fiore, favorendo la simbiosi vitale con tutto il circostante. Di questo eco dovremmo farci portatori perché possa diventare  un ritmo, una cadenza una melodia ed in fondo una sinfonia seppur composta in maniera frammentaria ma non più dolorosa bensì festiva e bella da vedere e vivere. Una sinfonia capace di raccontare la memoria senza rimanere intrappolata in essa , una memoria che non sia più “Lo specchio degli inganni”.

FOTO E RENDER