Testo pubblicato in Parenti e Amici, quaderno n. 1 della rivista Centoerbe, La Nuova Pesa – Centoerbe, Roma, 1994, in occasione della mostra personale di Alfredo Pirri alla Galleria La Nuova Pesa.
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…sunt lacrimae rerum
1. Dialogo
Riprendo qui un dialogo con Alfredo Pirri che dura ormai a qualche anno e che ha già conosciuto un paio di occasioni pubbliche. Siccome, tuttavia, è la prima volta che mi capita di scriverne, non posso sottrarmi allo sforzo preliminare di chiarire, innanzitutto a me stesso, le modalità e il senso di questa esperienza. A cominciare, si capisce, dal fatto che si tratti proprio prevalentemente di un dialogo e non – come pure in parte è inevitabile che sia – di un esercizio ermeneutico e di una riflessione sull’arte occasionata dall’opera di un amico.
Credo che sia bene partire da una distinzione decisiva: le considerazioni che esporrò qui di seguito non riguardano tanto l’opera di Pirri, quanto, piuttosto, il lavoro di Pirri. La differenza è questa: che mentre l’opera di Pirri raggiunge di volta in volta dei risultati testuali compiuti, che richiedono di essere interpretati e discussi nella loro compiutezza di testi, il lavoro di Pirri, il suo modo di sentire e pensare l’esperienza dell’arte, di intenderne e interrogarne il senso, si fonda – così io credo – su una diversa unità, che non ha e non può avere statuto testuale perché è piuttosto un processo in atto, una tensione complessa e mobile, estetica e insieme etica. Questa unità sostiene e motiva i testi, le opere, ma non si esaurisce in essi, e nemmeno vi si riconosce pienamente. Anzi, si deve addirittura dire che i testi non possono che renderne una testimonianza lacunosa, sempre necessariamente provvisoria. Meglio: una testimonianza che istruisce e provoca l’incontro con altri testi; una testimonianza che non smette di farsi sollecitazione al dialogo con l’altro e con il diverso – e, per esempio, con il lavoro di chi si occupa di filosofia.
Voglio dire che nella compiutezza, nella chiusura talvolta eccezionale, delle opere di Alfredo Pirri c’è sempre – in forza dell’unità di senso che le sostiene e che non può mai farsi direttamente oggetto di rappresentazione – un’istanza di espropriazione che indica l’apertura di uno spazio dialogico: come a richiedere che di volta in volta un altro discorso (quello della filosofia, per esempio) faccia lo sforzo di parlare, nei modi che gli sono propri, della stessa cosa di cui parla l’opera.
In ogni autentico dialogo, del resto, ciò che conta in primo luogo non è il confronto dei punti di vista ma il desiderio di lasciar emergere il senso di ciò su cui si discorre. Questo significa che i dialoganti, lo sappiano o meno, si sono già messi al servizio di qualcosa che, a rigore, non può coincidere con le loro posizioni di partenza. Essi desiderano parlare della stessa cosa, ma non hanno il pieno dominio su questa “cosa”: anzi, almeno in parte, non la “conoscono” neppure, se è vero che questa “cosa” non preesiste al dialogo, quasi fosse un’idea senza tempo, ma si configura e si modifica nel corso del dialogo stesso, a misura che gli stessi dialoganti ne risultano modificati. Appare, così, il nesso decisivo che lega il dialogare al tempo: lo spazio di senso che prende forma nel corso del dialogo, infatti, è uno spazio produttivo o, meglio ancora, uno spazio sempre di nuovo bisognoso di elaborazione. Parallelamente, accade che i dialoganti non possano mai davvero trovarsi nella condizione di dover constatare di aver detto tutto.
2. Mimesi
Vorrei ora introdurre – e argomentare un po’ – l’ipotesi, solo apparentemente provocatoria, secondo cui la “cosa” intorno a cui si svolge il dialogo potrebbe forse definirsi come un ripensamento, reso urgente dai tempi che viviamo, della classica nozione di mimesi.
Per togliere radicalmente di mezzo ogni equivoco dev’essere subito chiaro il seguente punto: mimesi non significa che c’è una “realtà esterna”, un mondo di cose e di fatti, che la pittura rappresenterebbe; significa, al contrario, che le rappresentazioni della pittura (quelle autentiche) non hanno mai smesso di illuminare e riordinare la complessità del reale, la tramatura fitta e insieme differenziata del mondo e delle cose. Il movimento mimetico autentico non va dal reale alle forme ma, al contrario, dalle forme al reale. E tuttavia – ecco il punto per me assolutamente decisivo – questa azione formativa non spossessa il reale, non gli toglie autonomia appropriandoselo come forma e come senso ma lo restituisce sempre di nuovo alla sua inesauribile alterità, lo ricostituisce indefinitamente come un territorio per esplorazioni sempre nuove. Detto altrimenti, c’è una circolarità tra forme e mondo, ma questo circolo non mortifica il mondo, risucchiandolo tutto nelle forme, al contrario lo rigenera come mondo, come “altro” rispetto alle forme.
Farò un solo esempio di questo principio mimetico prima di dire due parole su quanto sia urgente per noi, oggi, custodirlo e ripensarlo. C’è un magnifico saggio di Gombrich dedicato alla Forma del movimento nell’acqua e nell’aria nei disegni idraulici di Leonardo in cui è messa in evidenza la stupefacente produttività del circolo forma-realtà di cui si è appena parlato: Leonardo realizza modelli grafici sempre più fini del moto vorticoso delle acque e li correla con un apparato di descrizioni verbali straordinariamente differenziato (in un manoscritto se ne contano un centinaio come: risaltazione, circolazione, rivoluzione, ravvoltamento, raggiramento, sommergimento, surgimento, declinazione, elevazione, cavamento, consumamento, percussione…). Il dialogo produttivo tra questi due elementi – quello grafico e quello verbale – è del tutto evidente e addirittura spettacolare, ma è altrettanto evidente e spettacolare il fatto che il senso di questo dialogo consiste in un processo di inesauribile rigenerazione della complessità del dato empirico. E’ il mondo che ne esce arricchito, non la capacità, da parte del linguaggio e dell’immagine, di dominarlo.
Per lasciar essere le cose (i vortici di Leonardo, ma qualunque altra cosa: farò tra poco qualche esempio che si riferisce all’opera di Alfredo Pirri) occorre dunque un grandissimo sforzo di elaborazione formale. Ma occorre anche un’etica della forma. Occorre cioè che la forma sappia rinunciare ad ogni (ingenua più che arrogante) tentazione di dominio. L’autentica mimesi non è altro che questo laborioso sacrificio. L’arte lo celebra da lunghissimo tempo. Ma perché oggi sarebbe urgente custodire questa modalità dell’esperienza e ripensarla? La risposta è negli occhi di chiunque. La dobbiamo custodire perché la stiamo perdendo: non elaboriamo più il mondo, la sua alterità, la sua contingenza, perché in modo sempre più pervasivo il mondo ci viene presentato come una forma già del tutto elaborata. Non occorre spendere parole per ricordare che le tecnologie dell’immagine e dell’informazione hanno già quasi del tutto compiuto questo evento osceno. Ne risulta una generale condizione regressiva – cioè anestetica e servile – dell’esperienza: in una parola, un mondo sfigurato abitato da un’umanità disperata e inconsapevole.
La dobbiamo ripensare perché l’essenza stessa della mimesi, così come l’ho presentata qui, consiste proprio in un ripensamento continuo, in una ri-elaborazione che non può e non deve finire, in un debito che non smette di dar luogo a forme sempre nuove di pagamento. Ma allora: se il mondo (la sua alterità, la sua contingenza) è in via di completa colonizzazione da parte delle tecnologie dell’immagine e dell’informazione, se sta per coincidere punto per punto, come la mappa dell’impero di Borges, con la propria simulazione, dove e come rintracciare lo spazio per questa restituzione di alterità? E può ancora, l’arte, assolvere a questa essenziale localizzazione? Può ancora ripresentarcene un’esperienza esemplare? La risposta spetta evidentemente agli artisti. Ma è necessario che siano artisti non allineati. E’ necessario, cioè, che invece di far proprio lo snobistico e omertoso diniego che caratterizza certa pessima filosofia postmoderna, costoro abbiano il coraggio di far sussistere la domanda, di continuare a sentirla, e a farcela sentire, come una domanda sensata.
3. Responsabilità della forma
Ho detto prima che per lasciar essere le cose occorre una grande sforzo di elaborazione formale. L’attività dell’artista deve attenersi a una dura “disciplina” (il termine è spesso richiamato nei lavori di Pirri), a un’infinita passione-pazienza: il suo compito è quello di mediare la percettibilità del mondo facendosi il più possibile da parte. Questa sottrazione di soggettività è, senza dubbio, un tratto “etico” largamente diffuso nella migliore arte contemporanea. E infatti lo si ritrova come una costante (non la sola, tuttavia, e non senza contrasti: ma di questo parlerò tra poco) in tutta l’ultima produzione di Alfredo Pirri: ho in mente la gran mole di lavoro sul colore, sul libero emergere del colore da un’attività costruttiva che – come per esempio nelle Squadre plastiche – sembra invece voler obbedire a tutt’altra logica progettuale. O anche, in modo davvero esemplare, un’opera come Gas, in cui si vede come la presenza dell’elemento che dà il titolo al “montaggio” sia ottenuta attraversando le più inedite mediazioni – ferro, legno, luce, tela inchiostro tipografico, parola… – e non consista in null’altro che in questo montaggio e in questo attraversamento. Qui la soggettività dell’artista scompare, non c’è dubbio: la sua complessa e paziente operosità non intende lasciare alcuna traccia che non sia il subordinarsi all’apparire, tanto più ricco, inatteso, rigenerante, di un’essenza nascosta delle cose. Irrompe in primo piano quell’elemento dell’opera che Heidegger definiva “terrestre”: ciò che non può mai essere saturato dalla forma, ma che solo la forma può lasciar apparire; non “materia formata”, dunque, ma “terra”, alterità radicale e irriducibile, eppure autenticamente presente, cioè presente nella sua integrità, nella sua intrattabilità, nel suo rifiuto a lasciarsi metabolizzare.
Ma nel lavoro di Pirri – e in modo del tutto peculiare a partire dalle Facce di gomma – si segnala, in maniera altrettanto evidente e tematica, l’urgenza di un’istanza a tutta prima perfettamente opposta a questa operosa passività dell’artefice: il quale segnala con forza di essere lì, rivendica energicamente la singolarità dell’esperienza che è stata messa in opera; in una parola, se ne dichiara responsabile, è pronto a risponderne.
Questa contraddizione richiede di essere meglio compresa. Si è detto prima che l’artista non intende lasciare alcuna traccia di sé nell’opera, la quale mirerebbe soltanto a rinnovare il sacrificio della mimesi: lasciar essere le cose, consentire la presenza della “terra”; ora si sta dicendo che l’artista intende coinvolgersi in questo sacrificio attestando, nell’opera, che il fatto di dichiararsene responsabile è un elemento dell’opera stessa, un suo tratto essenziale. E allora: come dobbiamo correlare l’istanza mimetica all’istanza della singolarità e della responsabilità del fare? Vedo qui profilarsi un processo che le Facce di gomma istruiscono e l’ultimo “montaggio” dispiega in modo assai più ampio. Nel descrivere i termini essenziali di questo processo – con cui concluderò – mi propongo di dar luogo al momento propriamente “dialogico” di questa nota. Non è dunque necessario che l’autore debba riconoscersene del tutto concorde né che l’interpretazione che verrà avanzata sia in tutti i sensi conforme all’opera: l’importante è che lo spazio del dialogo (quello su cui non si smette mai di elaborare proposte) ne risulti meglio illuminato proprio nel suo non poter coincidere con i discorsi che via via lo perlustrano, nel suo spostarsi sempre un po’ oltre questi discorsi.
4. Lacrime
Muoviamo dalle Facce di gomma. La tensione interna di quest’opera è affidata a un rapporto semplice e tuttavia non immediatamente esplicito tra la natura propria della maschera e il colore di cui questa si fa supporto o, meglio, luogo di apparizione. La maschera è attestazione di una presenza passata, monumento a futura memoria: il suo richiamo alla mortalità vuol essere evidente. Riformulando a suo modo un tema molto forte nella filosofia contemporanea, l’opera istituisce un nesso tra il senso (il volto dell’autore che funge da conio) e il suo deperimento: ciò che resta, ciò che si affida al tempo non è presenza piena ma residuo, traccia. La dissonanza tra l’individualità assoluta del volto (il conio è sempre lo stesso) e la serialità delle maschere (tutte leggermente diverse pur essendo, per altri versi, la stessa maschera, la stessa “persona”) rafforza e precisa il carattere residuale di questa traccia: l’attestare è qui al tempo stesso un cancellare (l’individualità, la presenza piena, la certezza del senso). E’ come se il volto, dicendosi presente al modo di un residuo mortale, si ritirasse trasformandosi in superficie per una diversa iscrizione: quella del colore. Ma questa trasformazione che è, certo, un’offerta, ma anche un’offerta sacrificale, lacerante, fa sì che il colore appaia in forma di lacrime; fa sì, in altri termini, che il colore possa apparire solo in quanto assume su di sé la forza di un senso – quella stessa forza di cui il ritrarsi del volto, la cancellazione denunciata dalla maschera, mostra il deperimento, il ritornare alla terra. C’è qui un rovesciamento significativo tra l’elemento “terrestre” dell’opera – che è assunto dal ritrarsi del volto, dal suo attestarsi come cancellazione – e l’elemento tematico esplicito – che è assunto dal colore. In tal modo, e con forte effetto straniante, il colore viene, per così dire, iniziato a un senso incongruente e inatteso – le lacrime, il pianto, la prestazione più “interna” dell’occhio – senza, per questo, dissipare quella festosità che gli è propria.
In questo rovesciamento si debbono cogliere due aspetti salienti: riflessivo l’uno, produttivo di esperienza (dunque “mimetico” nel senso sopra chiarito) l’altro. L’aspetto riflessivo consiste nel fatto che il gesto con cui l’artista si fa da parte per lasciar essere le cose (le lacrime di colore, l’occhio che rinuncia alla vista) viene messo in opera, si fa opera. Ma non come vuoto e compiaciuto rispecchiamento. Tutto al contrario: come decisione attiva, assunzione di responsabilità, coinvolgimento etico. L’opera non dice che si può ancora lasciar essere le cose, l’opera dice piuttosto che si deve. E aggiunge che questo debito può comportare una rinuncia alla funzione più prestigiosa dell’occhio.
L’aspetto produttivo di esperienza si collega strettamente con questo tratto etico, anzi in qualche modo ne è la sanzione e, al tempo stesso, il rischio. Infatti, in questo ritrarsi-attestarsi del volto – che è anche umiltà dell’occhio, torsione dello sguardo verso la terra – si è dischiuso uno spazio che deve poter essere ulteriormente elaborato: anche e soprattutto sul piano ottico, se è vero che lo sguardo ha saputo fare ammenda della sua volontà di dominio. E’ quel che accade, in effetti, nell’ultimo “montaggio”, che si presenta come un’espansione del nucleo tematico delle Facce di gomma, un’ampia orchestrazione di quella cellula melodica iniziale. Ne indicherò solo un tratto molto evidente: il ritirarsi del volto-maschera si è fatto, materialmente, ripiegamento, risucchio, incistamento in una guaina o custodia che lo mantiene in una condizione di semivisibilità (effetto, questo, rafforzato dalla collocazione dei tre volti nel dispositivo generale dell’impianto); parallelamente, lo spazio che si rende praticabile a partire da questo più marcato ritrarsi, come a di contrappeso o compensazione di un movimento verso il fondo che l’impianto ribadisce (e insieme dissimula) nella cripta che esso contiene, questo spazio si è enormemente dispiegato, si è staccato dal volto che ancora lo tratteneva nelle Facce di gomma, affiorando ora come ampia superficie autonoma, capace di accogliere l’iscrizione delle lacrime di colore secondo multiformi disposizioni seriali e configurazioni a matrice geometrica e di consentire, nel gioco di questa disarticolazione – resa possibile, tuttavia, solo dalla più energica e drammatica cancellazione del volto-traccia e dello sguardo-dominio – che lo stesso colore torni a irradiarsi in modo autonomo, terso e sereno.
Non ho descritto qui l’ultima opera di Alfredo Pirri: ho cercato di accennare al senso a cui il lavoro dell’artista si è attenuto (almeno in parte) nel far crescere le Facce di gomma in questo più complesso dispositivo. Se il discorso tiene, ciò di cui esso parla (che è lo stesso di cui dice, almeno in parte e nel modo che le è proprio, l’opera) è qualcosa come una rigenerazione, possibile e doverosa, dello sguardo rivolto alle cose (alla terrestrità o alterità del mondo), o forse piuttosto della tonalità di questo sguardo, del suo umore, vorrei dire. Questa rigenerazione ha convocato, in modo intimo e ineludibile, un sacrificio (dell’occhio padrone/servo del mondo visibile) e un richiamo profondo alla mortalità: uno squadernamento delle superfici visibili, una proliferazione ordinata e al tempo stesso leggera, festosa e al tempo stesso austera ne è la fragile (ma coesa, solidale) contropartita. Forse ancora (o necessariamente?) troppo squilibrato rispetto all’entità del sacrificio (la maschera invaginata, l’orbita svuotata, la cripta), questo affioramento di una superficie iscrivibile, di un visibile mite, composto, non minaccioso e non seduttivo, è un modo di rispondere, lasciandola sussistere, alla domanda sul reperimento di un luogo per ripensare la mimesi oggi.
Pietro Montani
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