Intervista per la rivista Exibart n 77, Febbraio 2012

La primavera dello scorso anno è nato un movimento spontaneo all’interno della comunità artistica romana denominato A.R.I.A. (Artisti Romani In Assemblea). Com’è nato e per quale motivo?

«A.R.I.A è sorta dallo stimolo dato alla cultura artistica cittadina dalla nascita della Consulta per l’arte Contemporanea di Roma. Non so se definirlo un “movimento”, non credo ne abbia la coesione d’intenti e di prospettive. Piuttosto è un’assemblea mobile che s’incontra quando lo crede opportuno. Le prime idee che abbiamo fissato sono il risultato di un congiungimento d’immaginari differenti che spaziano dal desiderio di rendere la vita quotidiana più vivace a riflessioni più profonde sul ruolo della formazione e dei luoghi espositivi. Insomma, si tratta di mettere a confronto questioni ampie con fatti piccoli. Ad esempio l’esigenza primaria di dare vita a un luogo che abbiamo chiamato Bar, termine che evoca i luoghi di un incontrarsi non sempre logico e sobrio e si fonde col fatto che questo luogo immaginario si è caratterizzato finora essenzialmente come tempo che abbiamo dedicato all’elaborazione di idee. Ecco che ognuno dei punti evidenziati in quel documento (Bar, Scuola, Giornale, Museo) sono iniziative concrete, ma soprattutto spazi immaginari. Almeno per me è così. D’altra parte, credo che quello che abbiamo già fatto sia soprattutto una palestra dove si riabilita il desiderio di conoscersi, guardarsi e spero che altri (soprattutto più giovani) abbiano voglia di spingersi oltre quello che è già stato fatto e detto».

Oggi molti artisti si pongono il problema di una ricollocazione al centro del dibattito culturale e della vita in senso più ampio, se ne parla anche nel vostro manifesto. Mi vengono in mente le idee di John Dewey sulla continuità tra esperienza comune ed estetica. In che direzione va A.R.I.A. rispetto a questo?

«[…] per Dewey è dai caratteri dell’esperienza che si va all’arte, cioè l’arte non è che la specificazione e l’intensificazione di caratteri che sono propri dell’espe-rienza, di qualsiasi esperienza, ragione per cui il campo dell’esperienza estetica è assai più ampio di quello che indichiamo tradizionalmente come arte […]i limiti di questo tipo di definizioni si sono fatti sempre più chiari (scarsa o nulla informa-tività, circolarità, difficoltà a dar conto degli stati iniziali dell’arte o dell’arte elaborata al di fuori dei circuiti deputati, illusione di poter trattare il concetto di arte come concetto puramente classificatorio e avalutativo, ecc.) […]”

Questa citazione del filosofo Paolo D’Angelo (La critica dell’esperienza estetica nella filosofia analitica angloamericana In Esperienza estetica a partire da John Dewey, Rivista del centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 2007), mi permette di chiarire meglio il motivo per cui la questione dell’esperienza e del sensibile debbano oggi conquistare una priorità assoluta nei nostri modi di percezione, comprensione e analisi dell’arte. Introdurre parametri di giudizio nei confronti dell’opera d’arte, non appartenenti esclusivamente alla sua origine concettuale e formale, ci porta a considerare l’arte come qualcosa di più ampio nell’esperienza umana e anche (seguendo il suggerimento di D’Angelo) a riconsiderarla come un veicolo di conoscenza e di avvicinamento alla natura (per esempio a fenomeni come l’alba, il tramonto ecc.). Oltre che scoprirne una materia intrinsecamente politica per il semplice fatto di verificarne la sua drammatica appartenenza collettiva. Dico “drammatica” perché questo appartenere, questa proprietà collettiva, è certificata da un soggetto; l’artista che ne garantisce l’autenticità verso la comunità che lo guarda. L’operare dell’artista assomiglia infatti molto a un recitare e l’opera alla scrittura drammatica. Al termine, la sua messa in scena si fonda sull’esperienza comune, dando vita alla collettività. In questo senso la giornata che abbiamo realizzato l’11 Dicembre scorso al Teatro Valle occupato, dedicata al tema del “Disorientamento”, è stata molto significativa: il succedersi di azioni e opere nell’arco di 12 ore consecutive hanno reso percepibile che l’esperienza artistica si fonda su un carattere “dal vivo” che è difficilmente cancellabile dalle pratiche o dalle parole sull’arte e sulla politica».

Spesso si fa riferimento alla necessità di rapporti nuovi, cosa intendete dire?

«I rapporti nuovi dovrebbero riguardare anzitutto gli artisti stessi. In uno dei primi incontri (forse il primo) qualcuno chiese: Chi è il nostro nemico? A me venne da rispondere noi stessi, il nostro primo nemico si maschera di finta soggettività – che ci impedisce di far affiorare il nostro aspetto realmente solitario – oppure di finzione politica, che ci taglia fuori da ogni dialogo, solo per dire gli estremi dentro cui collocare la maggioranza dei nostri vizi comportamentali e culturali. Naturalmente questi vizi sono lo stampo da cui deriva la maggior parte dei rapporti dentro il mondo dell’arte, sia istituzionale che spontanea. I nuovi rapporti dovrebbero essere fondati sul rischio dell’incontro innanzitutto fra soggetto e oggetto. Sia esso soggetto dell’arte (l’artista) e oggetto dell’arte (il mondo), sia fra artista e istituzione artistica (dove l’artista si fa istituzione grazie al linguaggio e l’istituzione arretra a soggetto vivente), sia fra artista e pubblico (quando l’artista si stacca da quello che fa, lasciando l’opera sguarnita di protezione e il pubblico cerca di conquistarla), oppure fra artista e gallerista (innescando uno scambio etico dal quale l’opera ne uscirebbe arricchita), ma principalmente dell’artista con se stesso. Sono solo miei punti di vista, che però mi piace condividere con gli altri».

Il riposizionamento dell’artista rispetto al contesto mi sembra fondamentale nella comprensione delle necessità che sono alla base di questa iniziativa. Che significa prendere le distanze dal “genericamente creativo”?

«Significa considerare la creatività qualcosa che ha a che vedere con tutto quello che vive. Quindi, l’atto creativo è il gesto che, più di altri, accomuna il fare artistico a ogni altro fare. Nonostante questo, però, il fare artistico non si esaurisce nella creatività. Destino della creatività è confermare, radicare e perpetrare delle regole, grazie alle quali si garantisce la sopravvivenza della specie in questione (compresa quella umana). Diversamente, l’arte si comporta sempre in maniera esemplare non nel senso morale del termine, ma perché tende a disgiungersi dal suo destino, specialmente quando questo assume una forma individuabile e stabile: si ritrae dal garantire supporto a qualsiasi tipo di sopravvivenza. Per questo motivo congiungere l’operare “creativo”, genericamente inteso, con quello dell’artista è errato, seppure il loro confine sia tanto flebile quanto in continua mutazione».

Un altro argomento cruciale nel vostro dibattito riguarda gli spazi espositivi. La riflessione coinvolge il concetto stesso di museo, che definite come luogo per la narrazione. Vuoi chiarire meglio questo aspetto?

«Il museo è un luogo della narrazione, non per la narrazione. Meglio ancora qualsiasi spazio, da quello pubblico al privato, dal più grande al più piccolo in cui l’arte si deposita, si trasforma al suo contatto in spazio narrativo. Esattamente il contrario del White Cube che si ritira in un limbo celeste in-toccato dall’esperienza e lontano da noi. Per spazio narrativo dovremmo intendere un ambiente determinato a raccontare qualcosa in cui il mio e il nostro si apparentano (al contrario di quanto ha cercato di fare il post-modernismo). Abbiamo bisogno di spazi che ci inducono a negoziare atti immaginativi, cioè scambiare energie contro forme, racconti contro notizie. Bisogna porre il tempo e lo spazio in attesa, predisponendoci a una nuova dimensione temporale: attendere vivendo e partecipando alla vita».