L.M. – L’artista accresce le sue potenzialità espressive anche dialettizzando con altre attività creative?
A.P. – La tua è una domanda apparentemente semplice alla quale non so rispondere in maniera diretta e chiara. Le due combinazioni: “potenzialità espressive” e “attività creative”, per me rappresentano un mistero e un problema. Senza volere sfuggire alla domanda, mi chiedo, ad esempio, se l’espressività sia la manifestazione di un atto, di un pensiero o comunque di uno stato interiore latente e solo in-potenza oppure si debba immaginarla come un esercizio soggettivo che si esprime liberamente attraverso una specie di auto-affermazione generata da una forza misteriosa (e addirittura violenta) di potenza individuale? E la creatività è mossa da attività o da passività? Io non ho risposte esaustive a queste domande. Per fortuna, tu stesso ne introduci una possibile quando chiami in causa la dialettica che usi come un ponte di congiunzione fra potenza espressiva e attività creativa. Allora approfitto del tuo suggerimento per dire che mi sento a mio agio dentro l’immagine di una dialettica che congiunge attivismo e apatia. So di essere sopra questo ponte traballante e incerto (ponte del diavolo) posto fra due scogli, e mi piace percorrerlo, facendo avanti e dietro con movimento circolare come un disco che ruota all’infinito in funzione repeat sul piatto di un giradischi. Questo girare a vuoto, ripetitivo, agisce da forza sia attrattiva sia espansiva, come fa un gorgo o un buco nero che crea un grande campo magnetico intorno a sé. Quest’energia, cattura di continuo pezzi provenienti da altri campi, detriti volanti che si staccano dal corpo magnetico per via della forza centripeta vagando momentaneamente nel niente. L’opera d’arte, corpo magnetico per eccellenza, cattura questi pezzi staccati intrappolandoli, modificandoli e riconvertendoli così a nuova vita e a nuovo significato.
Nel tuo caso, le profonde conoscenze delle tecnologie e le qualità intrinseche dei materiali favoriscono il sorgere di nuove ideazioni?
Tutte le conoscenze utili, comprese quelle tecniche, sono frutto d’errori ripetuti che chiedono di essere risolti. Le pratiche artistiche che scompaiono mutano in forme nuove e inedite, sono come morti che reclamano di continuare a vivere. Io non so nulla di tecniche (semplici o complesse), quello che mi succede, però, è immaginare i comportamenti dei materiali e le similitudini di questi con fatti e manifestazioni naturali. Per esempio, penso alla somiglianza acustica fra il rumore dei vetri che si rompono sotto i piedi e quello dei ghiacciai che si sciolgono, due materie distanti ma affini, oppure alle sensazioni prodotte dalla rifrazione del colore e della luce dentro lo spazio ridotto della pittura e alla similitudine con quanto accade alla terra dentro lo spazio infinito rispetto ai fenomeni luminosi che chiamiamo alba e tramonto. Le tecniche sono il modo in cui le cose prendono forma, è naturale quindi conoscerle vivendone permanentemente la trasformazione, ed è altrettanto naturale che la loro trasformazione sia fonte di forme nuove, perché tecniche e forme sono una sola cosa. Se si dividono nasce un problema, ed è quello che stiamo vivendo oggi quando sia le tecniche sia le forme pretendono una loro autonomia esclusiva.
L’attenta partecipazione alla realtà in divenire ti offre motivi per inventare progressivamente?
Ti ringrazio per immaginarmi partecipe di una realtà in divenire e inventiva. Della realtà non si può certo fare a meno, ci assale prendendoci ai piedi e alla testa e inchiodandoci anche emotivamente oltre che fattivamente in tutto quello che accade. Però, mi pare, viviamo un tempo in cui la realtà viene celebrata fino a santificarla innalzandola a totem facendone origine e fine di ogni rappresentazione. Forse più che un tempo dedito alla realtà siamo vittime di un realismo indifferente che azzera ogni funzione critica. Una forma particolare di realismo che acconsente a tutto quello che esiste limitandosi ad osservarlo e riproporlo incorporato dentro le forme artistiche. Potremmo chiamarlo realismo del performativo, che consiste nell’idea che compiere un’azione vera e propria con modalità reali e persone concrete sia una risposta alla giusta crisi di quell’idea di autenticità (metafisica) che aveva caratterizzato l’arte del secolo scorso. Trovo giusto abbandonare la pratica di un idealismo che si definiva autentico (sia spiritualmente sia antropologicamente), trovo però sbagliato rifondare un nuovo culto, altrettanto metafisico, che mette al suo centro, come un altare, la rappresentazione della realtà, del vivere quotidiano, del minuto per minuto, ritenendola la sola pratica artistica legittimata a dialogare con la realtà. Trovo che ci sia in quest’atteggiamento qualcosa di terroristico. Tornando alla domanda, per me partecipare non alla ma della realtà è tanto inevitabile quanto respingente, quello che mi preme è fare un lavoro antirappresentativo e in costante movimento, un lavoro che non si fondi sull’accoglienza fiduciosa del pubblico ma che ci ponga entrambi (autore e spettatore) dentro una condizione di incertezza nei confronti dell’opera d’arte che, al contrario di quanto troppo spesso si dice, non è specchio del mondo, semmai fedele riproduttrice (acustica, visiva e comportamentale) del suo dissolversi costante.
Gli allestimenti delle mostre e le istallazioni site-specific in ambienti architettonici o naturali stimolano ulteriormente l’invenzione?
Confesso di avere una certa difficoltà nei confronti degli ambienti naturali, ogni volta che mi pongo davanti o dentro essi mi pare di stare dentro luoghi già pensati e costruiti da qualcuno. Insomma ho l’impressione di trovarmi in casa d’altri come un ospite sgradito. Uguale per quelle volte che mi trovo a lavorare in spazi chiusi dove l’opera trova una tale aderenza con lo spazio da farcela chiamare specifica… La questione vera è che ovunque mi trovi a fare qualcosa lo faccio da ospite momentaneo, ogni opera è tale, anche se in dialettica con l’ambiente cercandovi riparo o rifugio. L’opera è sempre sgradita perchè estranea, non abita nessun luogo, non fonda nessuna appartenenza. Magari potessimo sperare nella coincidenza fra opera e spazio che la circonda fino a scomparire l’una nelle braccia dell’altro! Questo amore è finito, ma l’attrazione rimane forte! Le opere ci aiutano a comprendere meglio gli spazi e il mondo, anche se, quando ci portano più vicini ad essi, tanto da illuderci di possederli, ci lasciano da soli in loro prossimità, senza strumenti di comprensione e partecipazione veri.
La multimedialità aiuta l’invenzione artistica? E le tecnologie digitali possono aprire vie operative più sperimentali?
I termini mutano e insieme cambia anche il loro senso reale. Il concetto di multimedialità che anni fa pareva fosse il solo che qualificasse ogni modalità che ricorreva a un utilizzo simultaneo di differenti media oggi non è più utilizzabile. Infatti, per parlare dell’opportunità, o addirittura dell’obbligo di operare in maniera ampia e connessa con tutte le discipline, ora si usa il termine intermediale che lascia emergere maggiormente i legami intrinsechi alle discipline piuttosto che collegarle semplicemente fra loro assommandole l’una all’altra. La mia idea è che, pur comprendendo e apprezzando i dettagli teorici e pratici di questi sforzi, le ricerche che si caratterizzano attraverso queste pratiche ignorano il fatto che l’invenzione artistica si fonda su quei meravigliosi laboratori, in perenne aggiornamento, che sono il corpo e la mente dell’artista e di conseguenza dell’arte stessa. Corpo e mente sono laboratorio di ricerca e sintesi di esperienze multiple che fanno precipitare misteriosamente in una forma tutto ciò che toccano e immaginano dando vita ad un’opera viva concepita e realizzata in piena libertà. Le tecnologie, come dicevo prima, affrontano i mutamenti fornendo risposte e in tal senso possono rispondere a questioni inedite o classiche purchè vive.
La committenza e le tematiche sono vincolanti o consentono di rappresentare visioni altre?
Io non mi preoccupo dei vincoli, la vita stessa consiste in un confronto costante con vincoli e regole, e io cerco di darmene alcune mentre lavoro. I vincoli sono verifiche importanti per uno spirito libero, mettono alla prova la capacità di aggirarne i confini con mosse che determinano nelle opere quel clima di apparente rispetto delle regole che costituisce la base per ogni ribellione.
Come valuti le mostre che mettono a confronto anche le opere di epoche diverse?
Positivamente. La sola cosa che mi spiace è che quando si parla di epoche diverse si pensi solo al passato mentre mi piacerebbe partecipare anche a mostre con opere provenienti dal futuro… ma siccome saremmo espressione del tempo presente, all’apparenza non è possibile. Però, qualche volta, con delle opere che hanno il potere di invocare il futuro succede di avere la sensazione che ti portino in un tempo infinito, non atemporale, ma immortale, cioè per sempre.
In sintesi, da quale esigenza è sorta la realizzazione dell’edizione Passi 13’36’’ e l’evento della sua presentazione insieme con Polisonum e il coinvolgimento di specialisti di altre discipline?
Dall’idea, o meglio dalla sensazione che ogni opera provenga da un eco, da un riverbero, da una distorsione …, abbia cioè un’origine acustica, ne sia un frammento visivo, la nota singola di un suono che si espande all’infinito. In questo caso abbiamo concepito insieme al collettivo Polisonum e alla libreria Marini (che l’ha prodotto) una scatola che contiene un mio acquerello originale, un disco 33 giri e un testo di Francesca Ceccherini. Col supporto di R.A.M. avremmo dovuto presentarla al pubblico il 6 marzo, proprio durante i giorni di maggiore allarme in Italia per la diffusione del corona virus. Abbiamo deciso di spostare la mostra-presentazione ma anche di interrogarci su come utilizzare gli strumenti della rete per continuare a presentare e discutere dei temi inerenti l’edizione. Per questo abbiamo continuato a lavorare alla pubblicazione di quegli interventi che avrebbero caratterizzato la presentazione stessa come quello del prof. Marco Masoero del Politecnico di Torino col quale stiamo sviluppando una ricerca di acustica tridimensionale sempre in riferimento all’opera Passi, stavolta nell’edizione realizzata presso la galleria Tucci Russo in occasione di una mia mostra personale. A cosa porterà questa ricerca? Non lo sappiamo ancora.
In generale, le influenze derivanti dalle esperienze esterne per la formazione delle opere o dell’identità degli autori devono rimanere segrete?
Non è che debbano rimanere nascoste per volontà di sottrarle alla vista, è che talvolta sono talmente tante le cose che si vedono, le esperienze che si fanno, le sensazioni che si accumulano etc. che la loro influenza è residuale, si attacca a quello che fai come una scoria, una spoglia, una spora che ti cresce dentro trasformandosi in fungo. A volte questo fungo è digeribile altre volte è velenoso e corrode l’opera da dentro.
L’emergenza coronavirus, che sta mettendo in quarantena prolungata pure le attività culturali, potrà rappresentare anche un’opportunità per promuovere comportamenti umani più responsabili in senso sociale e ambientale, nuova ricerca scientifica e artistica?
Lo è già, ognuno di noi è costretto a rimanere più solo e a contatto veritiero con sé stesso. La socialità futura non potrà fare a meno di questa solitudine riscoperta.