LA LUCE E’ IL MOTORE DI OGNI FORMA

“La luce è il motore di ogni forma”. Con queste parole Alfredo Pirri enuncia e circoscrive la natura fondante della sua ricerca, che scaturisce dalla relazione tra la luce e lo spazio, che genera la forma. Ma all’interno del ciclo Passi, che racchiude una serie di installazioni site-specific realizzate da Pirri a partire dal 2003, con un intervento alla Certosa di Padula (Salerno) , in realtà è lo spazio stesso a trasformarsi in opera. Attraverso il gioco di riflessione provocato dalla superficie di specchi spezzati ogni luogo che ha ospitato o ospita l’opera non si limita ad accoglierla ma si trasforma nell’opera stessa, attraverso un gioco di rifrazione che sembra frammentarne le coordinate spaziali, ma in realtà ne esalta invece l’identità . Siano essi edifici sacri, come la certosa di Padula, l’Abbazia di Novalesa, spazi espositivi come la Pescheria, musei come la Fondazione Marino Marini o la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, siti archeologici come il Foro di Cesare o edifici comuni in rovina come la casa contadina nel cuore della tenuta dello Scompiglio: ognuno ha ritrovato grazie al lavoro di Pirri la propria essenza, indissolubilmente legata ad una funzione collettiva, per riportarlo a quella che l’artista definisce “un’unità vivente”. Certose e abbazie suggeriscono nuovamente, ma in maniera laica e non dogmatica, il simbolico connubio tra luce , sacro e verità (non è un caso che Rumi definisca la verità come “uno specchio caduto dalle mani di Dio e andato in frantumi”), e anche l’ex chiesa del Suffragio, che oggi è parte del Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro, recupera la sua antica funzione religiosa. Il ninfeo della villa Guastavillani di Bologna evoca la sua festosa natura di luogo di ozio e delizia, mentre il foro di Cesare torna ad essere un’ agorà en plein air, tra echi di assemblee pubbliche e commerci privati, mentre l’installazione alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna ci porta a riflettere sull’evoluzione del concetto di museo e di allestimento delle opere all’interno dello stesso: manufatti da conservare o piuttosto da attivare attraverso la rilettura decisa da un artista contemporaneo? Per concludere queste brevi note, vorrei sottolineare che Passi ribadisce il carattere etico e morale dell’intera ricerca di Alfredo Pirri, uno dei pochi artisti civili che ancora operano in Italia. Fino a quando?

Ludovico Pratesi

Intervista a cura di Ludovico Pratesi a Alfredo Pirri in occasione della mostra Come in terra cosi in cielo, Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro, 2007

Come hai immaginato l’intervento negli spazi del Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro?

Nel suo complesso lo spazio della Pescheria si compone di due ambienti, il primo con caratteri sacri, ascensionali, il secondo con caratteristiche civili, simile ad una strada più che ad una piazza. Infatti il primo era una Chiesa, il secondo un loggiato divenuto poi mercato. E, mi pare di aver capito, che anche quando il tutto unitariamente è diventato il mercato del pesce, il primo spazio è rimasto quello più segreto, quello della borsa del pesce, il secondo quello pubblico del mercato al dettaglio. Dico questo perchè ho voluto mantenere questa differenza. Il primo per me è lo spazio dell’opera verticale, atemporale, coinvolgente, muta. Il secondo è quello del percorso orizzontale, cronologico, progettuale e discorsivo. Nel primo è collocata l’opera centrale intitolata Passi , contornata dagli acquerelli chiamati Acque, nel secondo è riassunto un cammino che inizia con l’installazione intitolata La stanza di Penna per concludersi con le opere-progetti realizzati per questa mostra e con le testimonianze – foto, disegni, etc  – di altre due installazioni di grandi dimensioni. Le due “sedi” sono assolutamente paritarie e interagiscono fra loro. Già nel titolo della mostra, In cielo come in terra, si allude ad una doppiezza, l’alto che convive col basso, di conseguenza il verticale con l’orizzontale. Il primo è lo spazio della poesia il secondo quello del racconto. Mi piace che questi due ambienti siano collegati da una porticina, priva di retorica. Non un portone d’ingresso che darebbe priorità simbolica all’uno o all’altro degli ambienti a seconda della direzione d’accesso, ma, poco più che un varco, una membrana delicata che ci dice quanto, in fondo, le cose siano fra loro unite. La mia presenza alla Pescheria vuole essere sia inedita che storica, senza avere le caratteristiche né di una mostra “Site specific”, né di una “Retrospettiva”. Anche gli estremi temporali del prima e del dopo vanno a coincidere, dando vita ad flusso in cui tutto è contemporaneo, vivente, attuale.

All’interno della tua ricerca, come si colloca l’installazione nell’ex chiesa del Suffragio?

L’installazione dentro l’ex chiesa è parte di un percorso che sto portando avanti da qualche anno in luoghi sacri o comunque attinenti al sacro.  La prima tappa di questo percorso è stata nel 2003 alla Certosa di Padula, vicino Salerno, poi lo stesso anno all’Abbazia della Novalesa, sulle Alpi, al confine fra Italia e Francia e nel 2006 al ninfeo di villa Guastavillani a Bologna che è un luogo legato al sacro (come tutti i ninfei), pur non essendo stato un luogo di culto e alla Fondazione Marino Marini di Firenze, anch’essa collocata in un vecchio edificio religioso. L’idea è quella di interagire con lo spazio architettonico sacro in modo che mostra e spazio siano un’unità vivente. Lo specchio su cui il pubblico cammina, contribuendo alla sua demolizione, restituisce un immagine deformata, spezzettata, dell’ambiente impedendone una visione unitaria, composta. Ogni persona che entra dentro quest’ambiente, attraverso il semplice gesto del camminare, è portatrice di un atto soggettivo, che rovina sempre di più  la visione unitaria di sé e dell’ambiente in generale. Ogni spettatore opera come un “guastatore inconsapevole” di quel meccanismo di visione consolante che è un luogo sacro. Allo stesso tempo, però, questo meccanismo viene amplificato fino al parossismo, fino a diventare avvolgente, ecco allora che i particolari architettonici, i decori etc. si riflettono nei particolari dello specchio infranto, dando vita a un racconto sfaccettato, caleidoscopico in cui tutti i valori simbolici vengono amplificati e scomposti allo stesso tempo. In tutte le tappe di questo percorso di opere ho aggiunto un punto focale, qualcosa che rimanga fisso e stabile alla percezione. A Padula era un piano rialzato, nella cella del monaco, in fondo ad un corridoio. Il piano era dipinto di rosso e il colore si riverberava all’interno della cella tingendola tutta.  Alla Novalesa era la faccia di pietra di un piccolo altare ad essere colorata con pigmento in polvere e a riflettersi nell’ambiente bizantino, al ninfeo era l’altare che avevo realizzato per le scene del film La tigre e la neve di Roberto Benigni. Qui sono degli acquerelli che ricordano la forma di grandi finestre attraverso le quali (a livello immaginario) è possibile scorgere il fluire della pioggia. Questi punti fermi diventano la punta di un compasso intorno alla quale tutto gira vorticosamente fino a sparire alla vista. Lo spazio, allora, diventa come una nebbia in cui perdersi dalla quale si staglia qualcosa che riconosciamo, con dei bordi netti, percepibili, qualcosa verso cui siamo portati ad andare.. In questo caso, gli acquerelli creano una sorta di motivo musicale che si lega all’altro, concreto, del rumore continuo di vetro rotto dai passi degli spettatori; gli acquerelli sono ascensionali, come lo è il suono dell’organo in una chiesa, lo specchio invece è orizzontale come il brusio della gente prima della funzione o come la preghiera collettiva.

Secondo quali criteri hai selezionato le opere che costituiscono le diverse sezioni delle “Stanze della Memoria”?

La sezione ambientata nel colonnato (una volta esterno) intitolata Stanze della memoria, è formata da quattro stanze poste lungo un percorso rettilineo. In ognuna di queste sono mostrati lavori precedenti che ho scelto perché significativi del mio cammino. La prima stanza ospita un’opera del 1999 intitolata La stanza di Penna, questa è la sola stanza dove viene mostrata un’ opera nella sua integrità. Nelle altre, invece, sono in mostra immagini fotografiche e progetti che danno un’ idea delle installazioni originali: è come stare fra le pagine di un libro enorme. “. La prima  realizzazione de La stanza di Penna, era per la mostra inaugurale del Centro d’arte “Palazzo delle Papesse” a Siena.  La seconda stanza è occupata da grandi fotografie e da piccoli lavori programmatici in riferimento ad un grande lavoro permanente che ho realizzato nel 2005 per la sala di rianimazione dell’ospedale S. Spirito a Roma. Questo lavoro titolato Dove, Come, Quando, Perché è dedicato alle persone in stato di coma che lì vengono seguite e curate, si trova in una sala dell’ospedale interdetta al pubblico, quindi la sua visione è possibile esclusivamente attraverso i documenti. La terza stanza è impegnata con una sorta di racconto fotografico che rende visibili i mutamenti luminosi all’interno di un’opera che ho fatto nel 2006 dal titolo Parole alla Maison Europeenne de la Photographie di Parigi. In quest’opera ho realizzato con il contributo di due centri studi (quello della Guzzini e dell’agenzia di stampa ADN Kronos) un particolare tipo di luce che mutava in funzione dell’arrivo in tempo reale di una serie di notizie da tutto il mondo. L’ultima stanza ospita una serie di acquerelli riferiti allo spazio stesso della Pescheria e al senso della mostra, insieme agli acquerelli ho realizzato un modello a metà strada fra l’architettura e la scultura, fra il reale e l’immaginario dello spazio e della mostra. Il criterio è stato di mostrare lavori difficilmente presentabili fuori dal loro contesto originale, sia per motivi organizzativi che poetici, ad esclusione de La Stanza di Penna, un’opera cui tengo molto perché racchiude lo spirito del mio lavoro. Quindi una sorta di percorso all’interno della memoria personale con la speranza che possa rappresentare qualcosa anche per  i visitatori.

Qual è il valore della luce all’interno del tuo lavoro?

La luce è ovunque, è come l’aria, il suono. Però, la luce che m’interessa di più è quella di ponente, la luce occidentale. Non quella che si alza in oriente riempiendo di sé il paesaggio, entrando violentemente nelle case della gente…Mi interessa la luce che volge al tramonto, la sua azione sulle cose, le ombre che crea. Sono maggiormente appassionato all’ombra creata dalla luce piuttosto che alla sua azione diretta. L’ombra è conseguenza della luce, è  la forma che assume per l’interposizione momentanea di un corpo opaco. Infatti, come dicevo prima, la luce è ovunque, quindi l’ombra ne è  uno dei suoi aspetti percepibili, quello che rende evidenti le cose che altrimenti ci apparirebbero fantasmi senza corpo. Queste considerazioni hanno a che vedere col mio lavoro, perchè esso si fonda su un dialogo fra qualcosa che circola dappertutto, qualcosa di atmosferico, di aereo e qualcosa di fisso, che ricorda un corpo. Questo dialogo si esprime attraverso la forma, senza la quale l’aereo si disperderebbe nell’ambiente diventando impalpabile e il corporale sarebbe una presenza massiccia e greve. La forma, per me, è usa sorta di catalizzatrice dell’energia luminosa, qualcosa che ne consente la sua condensazione cristallina. La luce è il motore di ogni forma, spesso è all’origine di grandi narrazioni. I profeti hanno un ‘illuminazione  cui fa seguito una riflessione, se le parole dicono qualche verità, non è un caso che essi “riflettano” qualcosa (non su qualcosa), siano, cioè,  una specie di specchio divino. Però la loro azione è importante perché danno una forma a questa riflessione, non perché si perdono nella luce. La stessa cosa fa la poesia e, credo, in definitiva l’arte tutta. Essa riflette e irradia un’energia che sta dappertutto, nelle cose, nelle azioni, nel sociale etc facendone un racconto. Solo che lo specchio che l’arte usa per riflettere la sua immagine del mondo è da sempre infranto, anzi l’arte nasce per rompere quella superficie piana, accondiscendente, gratificante in cui tutti si possono riconoscere, avviandosi così verso una condizione di solitudine.

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