Intervista a cura di Claudia Colasanti per la rivista Flash Art, aprile, 2004

Ho letto che il “punto di partenza creativo” possiede per te un valore fondamentale. Tu da cosa sei partito?

Il mio lavoro nasce in ambito spaziale. Ho iniziato con il teatro, durante la prima metà degli anni Ottanta, collaborando con il gruppo fiorentino Krypton. Si trattava di “scenografie” realizzate con immagini proiettate e luce, in cui gli elementi fisici della scenografia tradizionale erano ridotti al minimo. Spettacoli del 1983-84 come “Eneide” o “Angeli di luce” ispirato all’apocalisse di Giovanni, che potevano già essere considerati “virtuali” per quanto riguardava l’uso dello spazio scenico.

Cosa hanno significato per te gli anni Ottanta?

La speranza che la letteratura, il teatro, l’architettura, la filosofia, la musica, tutto quello che interessava e caratterizzava la mia generazione in quel periodo, perdesse i propri limiti disciplinari fino a generare una cultura nuova, più unitaria che potesse abolire i confini fra arte e politica, generando un’estetica diffusa. Una società estetica, per riprendere il titolo di un libro allora per me importante del critico Filiberto Menna, in cui si parlava dell’arte come “Profezia di una società estetica”. Ma questa dimensione utopica ha negli anni successivi perso di vista il suo obiettivo e l’arte ha perso la sua centralità, cosa che ha provocato un impoverimento dell’estetico portando l’arte a divenire sempre più superficie decorativa, vuoto artifizio.

Come si è giunti ad una specificità delle discipline?

Si è trattato di un percorso morale, complesso ma obbligato. Da un universo culturalmente espanso, era necessario passare alla conquista di una specificità possibile laddove si erano perse le tracce di qualsiasi competenza disciplinare. Naturalmente parliamo di una dimensione nuova della disciplina, dove, per esempio, gli aspetti narrativi del lavoro non si rinchiudono in se stessi come qualcosa di autosufficiente, bensì continuano un dialogo vivo col resto della cultura. La ridefinizione di un territorio artistico, che avesse la capacità di mostrarsi ampio, negli interessi e nelle suggestioni, ma riconoscibile nei suoi caratteri, mi ha portato ad un confronto più serrato con la tradizione specifica dell’arte.

Siamo arrivati al termine degli anni Ottanta…

In questo passaggio l’interesse per lo spazio è rimasto predominante fino a sfiorare l’architettura, tema che tuttora continua ad interessarmi moltissimo. Si è trattato nuovamente di un passaggio “politico”. Cioè, penso che quel carattere che abbiamo chiamato morale, sia di fatto il tentativo di mostrare una sorta di stato di necessità del fare artistico, qualcosa di necessario alla sopravvivenza stessa, una specie di battaglia a favore dell’esistenza.

E hai cominciato da subito a riflettere sul ruolo sociale dell’arte e sulla sua specificità…

Non penso che l’arte debba (e neanche possa) desiderare di rinchiudersi in se stessa, anzi continua ad essere il punto di fuga di più discipline, però la cosa che mi interessa di più è che ne venga riconosciuto un valore specifico senza il quale l’inerzia dell’espressivo sopravanza sull’atto creativo vestendone i panni . L’arte certamente dialoga e intrattiene questioni  con il mondo e con la società, però da un luogo talmente remoto da risultare invisibile, anzi in tal modo, l’arte non solo dialoga ma “fonda” il mondo dandogli realtà, senza questo atto donativo il mondo apparirebbe irreale

Come si connotavano le tue prime mostre personali?

Quello che caratterizzava già allora il mio lavoro era il progressivo avvicinamento a uno spirito specifico dell’arte in una dimensione “pittorica” in un senso ampio, in cui la pittura non era più solo un fatto di superficie, ma qualcosa in grado di intrattenere con l’ambiente un rapporto quasi performativo. Pur generandosi su una superficie la pittura si espandeva nello spazio fino a coinvolgere l’ambiente con qualcosa che lo animava intimamente.

Se dovessi definire il tuo rapporto con la pittura e quello con la scultura…

La mia produzione può essere sia bidimensionale che tridimensionale, ma l’attenzione prioritaria riguarda la pittura.  Quando si tratta di opere spaziali mi interessa soprattutto valorizzare l’aspetto performativo della pittura, la sua capacità di espandersi nell’ambiente conferendogli una sembianza luminosa. Della scultura mi interessa il suo lato dinamico, il proporsi come qualcosa di percepibile in maniera sempre differente. Il suo essere un “oggetto” fra gli altri, ma con un carattere incomprensibile, a differenza della pittura che si mostra immediatamente come spazio della differenza.

Che ricordo hai degli anni Novanta e cosa pensi dell’arte che hanno generato?

Si tratta di un periodo di mezzo per molti di noi, in cui non era ancora chiaro in che direzione si stesse andando. La gran parte degli artisti che hanno esordito in quegli anni hanno manifestato una mancanza culturale rispetto al passato. Non hanno avvertito la necessità di continuare un dialogo aperto con l’arte e gli artisti dell’immediato passato, cosa che invece per noi era nei fatti. Questo dialogo rimasto aperto, mai chiuso, è stato, per la mia generazione, un errore perché si è privato il lavoro di quell’immediatezza che è caratteristica di ogni gesto artistico autentico. Allo stesso momento, però, una generazione che non conosce cosa è successo poco prima, manifesta un’incapacità critica che si traduce in solitudine culturale e sociale, proprio l’opposto di quello che si voleva raggiungere.

Che cosa è cambiato in questi due decenni nell’arte e in che direzione ti sei mosso attraversandoli?

Il mio, è un cammino disegnato a zig-zag. Significa, che ho fatto dei movimenti improvvisi che, quando sembravano andare in maniera rettilinea verso un obiettivo chiaro, lo perdevano poi di vista per costringersi ad una deviazione, a un mutamento immediato. Per poi, magari, proporsi, successivamente. Nel mio lavoro esiste tuttora una progressiva perdita d’obiettivo e il tentativo di raggiungerlo ugualmente dopo averlo perso di vista, ma mutato di forma, mutato dall’esperienza del cammino fatto.
Sempre attribuendo una forte moralità’ alle opere..
Un amico filosofo, Pietro Montani, ha scritto di recente che il motivo centrale del mio lavoro non sarebbe tanto di natura estetica quanto morale. L’elemento morale consisterebbe non tanto nell’essere pittore, che è un valore estetico, ma nel voler essere pittore, che è un valore morale

A proposito di questo “zigzag”, cosa hai scoperto e cosa hai abbandonato?

Sono partito da un lavoro, (Squadre plastiche, N.d.R.) verso la fine degli anni Ottanta, in cui non vi era traccia d’immagine ma una forte connessione con l’architettura e con lo spazio. Dopo ho fatto dei lavori (Facce di gomma,N.d.R.) in cui molti calchi del mio viso realizzati in latice di gomma venivano usati come coppe in cui versare del colore che fuoriusciva da tutte le aperture del viso. Un passaggio all’apparenza contraddittorio, perché da un lavoro cosiddetto “astratto” si passava ad uno “figurativo”. In realtà non ritenevo il primo un lavoro astratto e il secondo figurativo, anzi ho imparato a non distinguere fra questi aspetti, a farli coesistere in una dimensione unica.

Una volontaria perdita di senso nel discrimine fra figurazione e astrazione…

Le “Squadre plastiche” non erano un lavoro astratto ma concreto, perché non dialogavano con la tradizione dell’arte astratta ma con l’architettura. Le “Facce di gomma” erano degli oggetti pittorici più che delle opere figurative: coppe “rotte” in cui continuare a versare inutilmente del colore. Nel primo caso la dispersione era virtuale e nel secondo si trattava di qualcosa di più fisico, qualcosa anche di inutile come il continuare a versare liquidi colorati in una coppa rotta, senza arrivare a colmarla mai. In ambedue i casi si trattava di facciate, architettoniche le prime, umane le seconde.

Due modalità espressive che hai abbandonato?

Attualmente sto facendo un lavoro di sintesi che produce qualcosa di differente, non penso tanto a “mescolare” le cose quanto a un confronto fra due spiriti  per ritrovarne un altro. Per questo nei miei lavori più recenti appaiono degli elementi astratti che assumono una dimensione quasi narrativa. L’elemento astratto e l’elemento figurativo hanno trovato un equilibrio grazie al tentativo di fare delle opere che posseggano allo stesso tempo una grande intimità e una grande narrazione.

Cosa pensi dell’attuale immersione nell’estetica del quotidiano?

Alcuni pensano che l’interiorità sia una fonte espressiva da porre al servizio di qualcosa di più generale, che ha a che vedere con l’evoluzione della specie umana. Il rischio è di proporre  un’arte che punta fortemente sul soggetto in un epoca in cui esso è stato demolito. In sintesi, un’arte soggettiva in mancanza di soggetto, un’arte “stilisticamente” soggettiva, ma incapace di dirci un solo dramma realmente soggettivo o addirittura solitario.

Avviene anche in un ambito più generale, al cinema, in televisione…

Infatti il rischio è di replicare modelli fin troppo sperimentati nella cultura popolare: cercare di esprimere “soggettività” in assenza di soggetto. Si è fin troppo criticata, addirittura demolita l’identità  soggettiva, e ora si pretende che questo soggetto così indebolito da apparirci inesistente, oppure tanto esistente da apparirci diffuso ci dica qualcosa. Io credo in un’arte creativa e non copiativa, diluita nelle cose, che sia caratterizzata da un  soggetto poetico ed etico allo stesso tempo, anzi che sappia fare della poetica l’unica etica praticabile ed evidente per tutti noi.

Quindi l’opera che valore deve assumere?

M’interessa un’opera che riesca a toccare molti. Che pur muovendosi all’interno di una ricerca artistica, specifica e quindi, a volte, difficile, sappia cogliere qualcosa che appartiene ad una comunità dandole un senso d’appartenenza e allo stesso tempo di solitudine, ma non una solitudine depressiva bensì avventurosa. Poi è importantissimo l’atto compositivo e creativo. Partire da zero, da un foglio bianco, da una superficie neutra, alla quale dare forma grazie a successive modifiche e a fatti compositivi. L’atto creativo è un atto libertario, quindi moralmente e politicamente necessario.