Testo in risposta all’inchiesta pubblicata per conto della scuola di specializzazione in storia dell’arte moderna e contemporanea, Università di Siena, 2006
1) Etica – Estetica
Inizierei col dire che, quella dell’arte, non è una pratica morale e neppure filosofica, tantomeno politica. Anche l’arte, come altre “discipline” (in pratica, oggi, tutte), si qualificano per via di quel avverbio “non” che serve per tenerle al riparo da definizioni insufficienti a rappresentarle; a mostrarcele in una posizione di fuga permanente e altrettanto progressiva solitudine. Questo, sembrerebbe essere il destino di tutti i comportamenti umani fin da quando, in un’antichità ormai immemore, le cose erano governate da un’armonia generale che ci portava a pensare un’identità totale fra “bello e giusto”, “individuale e collettivo”, “sogno e realtà”. In verità, più si amplia la distanza di ciò che si vuole tenere insieme, tantopiù bisogna riandare con l’immaginazione ad un tempo remoto in cui tutto sarebbe stato unito, fino ad arrivare al racconto biblico che vede unito il lupo con l’agnello. Questo, per dire che il rapporto fra arte ed etica è certo esistente; ma appartiene all’universo della nostalgia, di un sentimento spesso struggente che si manifesta come desiderio. Ancora una volta, non un desiderio come atto di volontà ma di necessità, quasi erotica, desiderio di uscire da quella solitudine tanto potente che ha generato forme rivoluzionarie e modi nuovi di vedere e vivere l’arte, ma che allo stesso tempo la condanna al “guinzaglio” dell’estetica. Quindi, l’arte, si configura come un atto in fuga permanente da sé, una fuga disorientata perché confonde il dietro col davanti, il passato col futuro. Essa sa solo che dopo la fuga, dovrà tornare in quel luogo di solitudine che la qualifica e le dà dignità d’esistenza.
2) Maestri e compagni di strada
Se, l’arte si definisce innanzitutto come il luogo di solitudine di cui dicevo prima, allora non si può pensare ad essa come spazio di scambio, piazza in cui discorrere all’infinito di ciò che si sta facendo o si vuol fare nel futuro. Se l’arte vive da sola, vuol dire che si fonda su un’esperienza non trasmettibile ad altri. Forse, l’arte, non può “insegnarsi” ma solo imporsi; per primo all’artista che la fa e poi agli altri. Essa, non nasce da un baratto: il Maestro che dà verso l’allievo che riceve offrendo in cambio tutto se stesso. In arte, Maestri e allievi si equivalgono, sono due poteri che si scontrano provocando nell’uno e nell’altro vittorie e sconfitte, al massimo si salutano con un cenno del capo in incontri saltuari lungo i bivi dell’esistenza. Stessa cosa per i “compagni di strada”. Ad essi io guardo con interesse, con essi sono maggiori i silenzi e gli sguardi reciproci. Si tratta di quegli artisti animati dallo stesso desiderio, di cui dicevo, di fuga permanente, anche se, mi piacciono di più quelli che hanno al contempo chiaro il bisogno del ritorno. Non amo “il non ritorno”, ma neppure quei cosiddetti movimenti fondati su slogan passatisti come: Il ritorno alla pittura, il ritorno allo specifico….gli artisti che praticano queste strade ritornano immutati dall’esperienza della fuga, tornano per rivestire i panni caldi che qualcuno gli ha tenuto in serbo. Per me il ritorno è un percorso narrativo, si torna in un luogo freddo e buio che non ha nulla da spartire con quello che già conoscevi, un luogo da riempire di racconti e forme nuove. Per questo ho amato (e amo) tutti quegli artisti che (in tutte le epoche) hanno spostato lo sguardo dalla parete della pittura per rivolgerlo allo spazio aperto, all’architettura per esempio, intesa come spazio per gli uomini, spazio dove gli uomini esercitano il loro vivere quotidiano oppure celebrano il loro essere civile. Ho invidiato (e invidio) quegli artisti che (in tutte le epoche) hanno saputo smaterializzare il corpo opaco della scultura per valorizzarne la vivacità luminosa portandola ad essere quasi un paesaggio infinito. Insisto sulla questione delle epoche, perché è chiaro che non esiste differenza fra arte antica e d’oggi, perché l’arte (come hanno già detto altri prima di me) è tutta contemporanea, essa si mostra a noi come un essere vivo, problematico, presente. Infatti le opere che non hanno questo potere d’essere vitale scompaiono alla nostra vista, non ci interessano più.
3) Committenza: “La grande occasione?”
Tornando, ancora, alla solitudine come sfondo sul quale collocare l’opera d’arte e l’operare dell’artista è conseguente pensare che l’auto-committenza sia di gran lunga l’unica committenza possibile. Sono io a pormi fuori di me, a farmi cosa pubblica e commissionarmi l’opera che, quando completata, sarà di patrimonio pubblico non più “privato”. Questo accade anche nei casi in cui la richiesta è realmente “pubblica”. Ho appena terminato un grande lavoro su richiesta di alcuni enti: l’Ospedale S. Spirito in Sassia a Roma e la Fondazione Adriano Olivetti, l’opera è nata per essere installata nella sala di rianimazione dove sono ricoverati normalmente degenti in stato di coma, essa sarà visibile (oltre che al personale medico e paramedico del reparto) solo da quelli che “tornano” alla vita, considerando che, oltretutto, in questa area è interdetto l’ingresso al pubblico. In questo caso la questione principale per me era: cosa vedono quelli che tornano alla vita da un viaggio ai confini della morte? Cosa (in cambio) offrire loro, alla loro vista, sulla soglia di questo ritorno? Ne nasce un grande interrogativo sul potere della rappresentazione. Potere, in questo caso, di offrire un appiglio al quale ancorarsi come uno scoglio durante la mareggiata, uno scoglio ancora fluttuante che non dia l’idea (figurativa) di un approdo definitivo bensì di un transito prima della riva, ancora instabile, incerto. Quello affrontato in questo caso è un tema limite, che però trattiene in sé tutte le questioni inerenti la committenza: E’ essa una occasione grande per uscire da quella visione privata entro la quale si forma l’immagine artistica, o meglio per farne emergere in maniera esemplare i suoi tratti collettivi? Oppure ci ritroviamo a dover riaffrontare in modo intuitivo, solitario, addirittura emozionale questioni tanto grandi? Ha il lavorare in faccia al pubblico il potere di fondare un significato differente? Addirittura celebrativo? Oppure l’ultima ostia, come l’ultima immagine, che abbiamo tentato d’ingoiare ci è rimasta in gola rifiutandosi di sciogliersi, impedendoci di sentirci ancora in comunione?
4) Dimensione del tempo: durata e memoria
L’ho accennato prima, l’opera d’arte è come l’ostia consacrata. Non si deve masticare con violenza, bisognerebbe darle il tempo di sciogliersi a contatto della lingua, più precisamente sotto la lingua in quel tratto segreto tanto poco usato, più sensibile al contatto sottile. Quel contatto ci rimane in mente, ci forma la memoria dando a quel gesto il senso d’un mistero che si compie in noi. Finalmente qualcosa che ci appartiene nel modo più intimo e che però aspira a metterci in contatto. Il tempo, brevissimo, che impiega la sottile ostia per sciogliersi ci appare infinito, anzi, ci apre all’infinito. Ci offre la percezione “corporea”, il sentimento “effettivo” della durata e della permanenza in noi di qualcosa che accade fuori di noi. La sua “assunzione” ci apre ad una differente visione del tempo, forse più vicino a quello intuito dai grandi scienziati-filosofi, al fatto cioè che il tempo è una funzione dello spazio e non viceversa. Quindi spazi differenti nell’opera non possono che dar vita a tempi altrettanto diversi. Non esiste “La Memoria” ma “Le Memorie”, esse tendono a sovrapporsi fino al punto di accumularsi e mischiarsi fra loro. Forse ha ragione lo scrittore Yukio Mischima quando al termine della sua (monumentale) trilogia fa dire ad un suo personaggio: “…la memoria è lo specchio degli inganni…” essa si trasmette a noi con la stessa in-fedeltà di un cumulo di specchi rotti, ognuno di questi è stato, in passato, veritiero, ci ha mostrato un pezzo di mondo per intero e, forse, un pezzo di verità; ma una volta messo da parte e rotto e accumulato in quel vano che chiamiamo memoria si va a formare il cumulo di frammenti che brilla orientandosi alla luce in maniera scomposta, ingannevole. Allora la “durata” non è da cercare nella memoria, se non in frammenti, ciò che dura è la percezione di un attimo d’infinito che ci regala la visione di un opera d’arte.
Alfredo Pirri
Roma, Febbraio 2006