Testo per Ettore Spalletti pubblicato dalla rivista “Flash Art”, 2005

Mentre guardo le fotografie….

Mentre guardo le fotografie, che documentano le mostre simultanee d’Ettore Spalletti presso l’Accademia di Francia (Villa Medici) e presso la galleria Oredaria, entrambe a Roma, mi chiedo quali di queste opere siano le più recenti e quali quelle precedenti. Rispondere a questa domanda è come seguire una strada, un succedersi di passi, che potrebbero portarmi più agevolmente alle parole da dedicare al suo lavoro.
Nello stesso momento, però, in cui mi pongo la domanda, mi rendo conto di quanto essa sia inessenziale. La cronologia e, forse, lo stesso svolgimento temporale, nel lavoro d’Ettore Spalletti non pare svolgere funzione alcuna. L’ambiente che si crea nelle due mostre, risulta disegnato da singole opere che si rapportano fra loro non per un accumulo fondato sulla successiva realizzazione di un’opera dopo l’altra, bensì su una sorta di compresenza di spazi schiacciati e visioni prospettiche, dove i primi fanno da sfondo, le seconde da figura. Sfondo e figura, sono gli elementi necessari perché si possa parlare d’immagine, sopratutto di quell’immagine (come tutte le immagini) destinata a raccontarci qualcosa.
Ettore Spalletti, con queste due mostre, ci rinnova il racconto di un universo in equilibrio perfetto, una sorta di conferma di quanto già conosciamo e amiamo di più: Il colore del cielo terso, primaverile, prima che arrivi la calura estiva a sporcarlo col vapore che sale dalla terra. La freschezza della fonte, che dissetandoci viene celebrata fino a diventare piazza. Un velo di trucco che si stende leggero sulle guance giovanili delle adolescenti facendole sembrare già donne. La colonna che si erge dalla pianta di una casa, come fosse un raggio di ombra nera che si proietta dalla terra verso il cielo, per andare a ricordare (a chi già sa tutto) la forma dentro la quale gli uomini vivono, amano, soffrono. Una stanza piccola e piena della luce del mezzogiorno circondata da finestre regolari attraverso cui guardare fuori per vedere il mare che si muove, facendo muovere pure in noi la certezza dello stare in piedi e verticali….
Questi e altri ancora i “capitoli” di quello che le mostre romane raccontano, ognuno si innesta con l’altro come fa la gemma nuova sul tronco vecchio. So della critica che si può muovere a queste parole: Quelle di Spalletti sono opere “astratte” e, quindi, anti-narrative. Ed è questa, la tesi (anche aldilà dell’opera in questione) che non condivido perché, al contrario, penso che le “forme” astratte siano al fondamento di ogni vero narrare. Esse si mostrano a noi con contorni netti ma al loro interno vibrano d’emozione, sono simultaneamente e contraddittoriamente solide ed evanescenti, in definitiva negano sempre quello che hanno appena detto. Questa negazione è la loro natura, il loro equilibrio che dicevo perfetto.
Allora è in questa perfezione che risiede la bellezza di quanto vediamo nelle due mostre? Nella sua geometrica disposizione? No! Perfezione, equilibrio, geometria e disposizione spaziale sono solo elementi compresenti, nessuno dei quali può e deve sopravanzare l’altro. Ognuno dice qualcosa di una recita più grande e, se ci fermassimo ad apprezzarne individualmente la parte, perderemmo la storia che, al termine, è quanto di più ci interessa.

Alfredo Pirri