Fili

Fumo di Fumi
dice Qohélet
Fumo di fumi
Tutto non è che fumo

La cenere, col suo grigiore volatile. La calce col suo biancore desertico e abbagliante sono i materiali, fragili e forti allo stesso tempo, con i quali è edificato (da sempre) il paesaggio mentale e fisico che accoglie e avvolge tanto il popolo israeliano quanto il viaggiatore che attraversa la Palestina. La pietra con cui sono costruite le città è la stessa su cui esse poggiano, viene in mente quanto diceva Heidegger del tempio greco “… Eretto sulla roccia, il tempio apre un mondo e lo riconduce, nello stesso tempo, alla Terra, che solo allora si rivela come suolo natale …”. A differenza della perentorietà metafisica del tempio greco, le città Israeliane, seppure solidamente costruite, non sembrano fatte per sfidare il tempo, al contrario per subirlo o, almeno, piegarsi al suo passaggio. La pietra bianca, calcarea, con cui tutto è costruito, genera polvere che si raccoglie nella lingua fornendo materiale all’architettura delle parole. Il vento la trasporta insieme al canto addensandosi in forme tanto semplici quanto ramificate in cristalli di sabbia.

Fuga di morte

Nero latte dell’alba lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
lo scrive ed esce dinanzi a casa e brillano le stelle e fischia ai suoi mastini

Nell’introduzione alla sua traduzione di Qohelét del 1988, Guido Ceronetti dice che il personaggio narrante “Qohelét” tradotto con il termine “Raccoglitore” (nella Bibbia Cristiana diventa l’Ecclesiaste) è, in effetti, un Disperditore, “… uno che come tesori di sapienza nient’altro ha da offrire che pentole e sveglie rotte di assurdo, figure di sconnessione, figure del titanico, indecente Assurdo che è la vita? …. Una scrittura …. Che sia all’altezza della mole di rifiuti di una metropoli di oggi, con le sue infinite mosche di morte, questo è necessario, questo è bisogno pubblico, mercanzia sociale, offerta ….” . Raccogliere e disperdere nello stesso istante è operazione complessa. A me pare che questa complessità sia il principale carattere degli artisti incontrati in Israele, in particolar modo di Etti Abergel. Troppo spesso la letteratura critica ha posto l’accento sul ruolo che avrebbero la memoria storica o personale nelle loro opere e anche l’arte contemporanea o moderna è usata come magazzino da cui attingere forme e contenuti per fornire legittimità storica laddove parrebbe non essercene a sufficienza e in mancanza di un’identità storico-artistica che ne certifichi l’originalità non periferica. Artisti, come Etti Abergel, esercitano una continua pratica di raccogliere e disperdere che non trova né origine, né completezza di visione solo nello scavo dentro la memoria collettiva, dentro quel tempo rappresentato dalla Shoah – assunta (giustamente e drammaticamente) a paradigma della memoria generale – né dentro la storia personale di una famiglia emigrata (come nel caso di Etti) dal Marocco verso la terra promessa.
Neanche le pratiche artistiche occidentali, sia delle avanguardie storiche che più recenti, bastano a inquadrare il suo lavoro. Semmai, se di memoria si vuole parlare, bisogna risalire alla dualità di cui accennavo, “Raccogliere -Disperdere” che è precedente a tutto quanto conosciamo e che genera altre dualità presenti nel suo lavoro: “Proteggere – Smembrare”, “Legare – Sciogliere”, “Amare – Tradire” etc… dualità che sono al fondamento sia della sua arte sia del popolo cui appartiene. Dualità che difficilmente generano un’identità formale o artistica (almeno come noi l’abbiamo intesa) perché tendono a creare domande letterarie più che immagini sintetiche. Per questo motivo chi, come Etti, riesce a farne una forma, raggiunge un risultato altissimo.

fischia ai suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda ora suonate alla danza.

Le sue opere, a mio parere, sono quindi slegate sia da una pratica mnemonica sia storico – artistica e, soprattutto, non cercano né nell’una né nell’altra una giustificazione alla propria esistenza. Esse sono organismi in bilico fra vita e morte, fra qualcosa che sta per sparire e un’altra che sta per scoprirsi. Sono sistemi di circolazione interrotta o inceppata dove la linfa vitale si sforza di scorrere fluida trovando continuamente nodi, intoppi, deviazioni e tutto quanto serve a rappresentare e far percepire il tema della gravità di un corpo che desidera elevarsi, quasi evaporare per farsi linguaggio puro, luce bianca, grigio indistinto. Le sue opere sono figurali perché reali, cioè mettono in primo piano la verità della materia e dei procedimenti realizzativi, eppure la nostra percezione di esse non è portata a terminarsi dentro l’opera, nelle sue pieghe e ombre, in definitiva nella sua forma e immagine. Invece quella materia così evidente e gravida di peso ci spinge a cercare la sua origine, la sua fonte d’ispirazione, altrove. Dove? Non nella mistica e neanche nell’estetica o nell’etica (o nel connubio così attuale di entrambe), io, credo, ci porti verso quella vita “indecente e assurda” di cui parlava Ceronetti. Fatta di stridore vetrato che ferisce solo ad avvicinarsi.

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
I tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti
Lui grida vangate più a fondo il terreno voi e voi cantate e suonate
impugna il ferro alla cintura e lo brandisce i suoi occhi sono azzurri

spingete più a fondo le vanghe voi e voi continuate a suonare alla danza

Gravida. Ecco una parola che ha senso per parlare di Etti Abergel. Le sue opere sono gravide e generano per partenogenesi, non sono, cioè, “fecondate” dal reale ma si riproducono spontaneamente in una specie di continuo temporale senza interruzione. Assomigliano a un bozzolo contornato di seta protettiva, tanto resistente quanto filiforme, questo materiale “protegge” l’opera facendone intimamente parte. Da cosa la protegge? Forse dal tempo, che entra nelle cose come il vento corrosivo che viene dal deserto, ricco di silicio come una carta abrasiva, dal troppo caldo e dal tanto freddo. La protegge anche dallo sguardo dello spettatore, anch’esso corrosivo e spesso indecente, come sa esserlo quello del militare, del politico di professione, del capo del Kibbutz, del proiettile che sibila, del critico sapiente …. Anni fa, le sue opere, si generavano dentro un bunker sotterraneo di cemento momentaneamente in disuso, dentro Gerusalemme. Uscendone e chiudendosi alle spalle il portellone di ferro, le opere rimanevano come separate dal mondo in attesa di circolare all’aperto come fantasmi riconciliati con la luce del sole.

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith lui gioca con i serpenti

Lui grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco

I filamenti di cui spesso si compongono le sue opere trattengono cose, oggetti, umori, aria, giudizi, colore, desideri, dentro forme compatte. Questi fili assomigliano a catene di amminoacidi che lei secerne a proteggerne il potenziale racconto. Sono fili esili ma robusti, che attingono forza nell’intrecciarsi e addensarsi in alcuni punti chiave dell’opera, proprio laddove trattengono bozzoli di racconto. Gli scienziati analizzano questo modo di produrre qualcosa di resistente da qualcosa che è per sua natura fragile con l’obiettivo di creare materiali per impiego militare etc. Non sarebbe tempo che anche i critici, gli scrittori d’arte, applichino lo stesso criterio conoscitivo, indagando il ruolo che hanno i materiali dentro lo sviluppo di una forma, affidandosi ai sentimenti che essi generano e alla loro capacità di raccontare storie?

lui grida suonate più cupo i violini e salirete come fumo nell’aria
e avrete una tomba nelle nubi là non si giace stretti

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e la mattina beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro

Le storie, come fili, ci trattengono e al contempo spingono, stringono, disgregano. La casa, gli ambienti in genere ne sono la cornice naturale, in particolar modo gli spigoli. Gli oggetti che la caratterizzano: il letto dove si nasce, si ama, si muore, il tavolo dove si condivide la sera, il piatto che misura il potere, la lampada che allevia la vista.

ti colpisce con palla di piombo ti colpisce preciso

Gli ambienti in cui si vive sono le fondamenta narrative di ogni arte, finanche di quella “astratta”; ragnatela all’apparenza informe fondata su una precisa geometria, invisibile e necessaria a se stessa e alla sua sopravvivenza. Questa geometria dell’anima fonda ogni ambiente. Come nelle Cellules di Absalon. Confrontare Etti con Absalon è all’apparenza impossibile. Ed è vero, sarebbe come pretendere di unificare femminile e maschile proponendo la scomparsa dei sessi come soluzione al loro conflitto. Quello che, invece, li rende parenti è la condivisione di un respiro affannoso e claustrofobico. L’aria solidificata nelle forme moderne di Absalon è la stessa che respira Etti, solo che lei ne ha forato le superfici candide sperando esplodessero come una palla gonfia d’aria che crea un vento rigenerante (e che invece ne ha generato uno corrosivo). Ambedue hanno cercato un riparo dove stare, far abitare e muovere la propria misura, quella di Absalon agile, quella di Etti incerta.

nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
aizza i suoi mastini contro di noi ci regala una tomba nell’aria
gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco

Il loro movimento non è mai lineare, non va dritto con cadenza militare, non riunisce punti fra loro lontani (anzi li abbandona alla loro solitudine). Si muovomono come il bambino del titolo del romanzo di David Grossman: a zig zag. Come il movimento del loro popolo …. Forse questo sarebbe il titolo di un romanzo da scrivere: “Ci sono popoli a zig zag”.

i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith.

Paul Celan

Mi viene di terminare dicendo che tutto torna: Etti, Absalon, Qohelét, Zig Zag, Gerusalemme, Capelli, Bunker, Periferia, Gilad, Larry, Rothem … tornano per riprendersi il posto che hanno in me da quando li ho visti e vissuti la prima volta. Tornano per dire che tutto prende corpo dentro l’aria che respiriamo e con la quale edifichiamo la nostra casa.

E l’uomo se ne va
Alla sua casa indefinita
Tra i piagnistei rituali
delle donne del suk

Alfredo Pirri