Scritto in occasione del convegno “Continental Breakfest The Expanded Map” Venice Forum, Biennale di Venezia 7-8 giugno 2005
Tracce d’identità fuori dal “cubo bianco”
(spazi per l’arte)
Molti animali usano “tracciare” parti di territorio attraverso urina, secrezioni corporali, e altre tecniche finalizzate a segnalare ad altri simili la propria presenza in quel determinato luogo. Portando a spasso il proprio cane in un parco frequentato da altri cani si può facilmente osservare come l’animale sia interessato (a volte febbrilmente) a rintracciare queste tracce, come si muova e si orienti fra esse manifestando interesse maggiore verso alcune e tralasciandone altre. Mi sono sempre chiesto cosa esse lascino immaginare, se attraverso un odore particolare il cane riesca a ricostruire un’identità che egli ritiene “appetibile” da qualsiasi punto di vista, sessuale, relazionale etc. Allo stesso modo, si può notare come l’animale perda d’interesse verso gli altri se il “luogo” di confronto è una stanza, pur frequentata da altri animali, ma regolarmente sottoposta a lavaggi ed uso di disinfettanti che n’eliminano gli odori oppure che ad essi si sovrappongano.
Queste stanze sono ovunque in Europa come in America o Asia. Esse sono prive di decorazioni, di quei racconti per immagini che ci hanno accompagnati lungo tutto il tempo passato e che ci hanno orientato in quella foresta di sensi, significati e simboli che è la nostra storia, la storia Europea. Questi spazi non ospitano più “Opere” nell’estensione più ampia e aperta del termine, che spazia dal suo significato oggettuale a quello spaziale, ma “Lavori d’arte” significando il risultato di un’attività, di un processo che vede nell’esaltazione del termine “Lavoro” il tentativo di omogeneizzare tutte le attività umane evidenziandone le caratteristiche produttive e creatrici di “Valore”, …”Il lavoro che crea valore di scambio è quindi lavoro astrattamente generale” secondo le parole di Karl Marx del 1859. Il passaggio successivo dal termine plurale “Lavori”, che ancora alludeva ad esiti oggettuali con implicazioni manuali ed artigianali, a quello singolare “Lavoro d’arte” compie quel processo simbolico che ci porta ad estendere, (con un atteggiamento mistico e mitologico) la “prassi” lavorativa a qualsiasi attività umana immaginabile, facendo di questa il motore creatore di quel valore che sta alla base di ogni scambio economico. E’ così che il lavoro diviene “concettuale”, attraverso l’accentuazione di una delle sue variabili possibili, quella “speculativa”. Con questo termine si debbono intendere almeno due cose: prima di tutto lo studiare, in altre parole indagare attraverso l’intelletto tutto quanto ci sta di fronte o intorno per appropriarsene come fosse proprio. Secondariamente (e forse ormai in maniera prioritaria) l’uso delle conoscenze acquisite (di qualsiasi conoscenza sia essa spirituale o economica) come “tesoro” da investire al fine di un guadagno immediato a discapito del lavoro altrui, anzi inglobandolo dentro una propria sfera d’interessi e possibilità, pagandolo sottocosto (di nuovo sia spiritualmente che economicamente) e traendone il massimo profitto da una successiva vendita ad un pubblico spesso ignaro di partecipare ad un gioco d’alta finanza culturale, ma ancor più spesso plaudente di un sentimento cinico che lo fa apparire vincitore al tavolo dove si giocano le risorse umane e la sopravvivenza stessa della specie.
Questo gioco crudele, raffinato, infine concettuale; fondato sul presupposto che si possa attingere ad un tesoro di conoscenze congelato in forme e pensieri per fare dell’arte una sorta di “investimento” finalizzato ad amministrare e accrescere una rendita parassitaria si esercita indistintamente sia in luoghi “astratti” ovvero privi di caratteri storici e ambientali, sia “contestuali” ovvero carichi di fattori relazionali e per così dire memorabili.
In ambedue i casi, l’arte speculativa mostra incapacità di proporsi come forza trasformatrice, continua ad usare un certo vocabolario ormai acquisito come un libro di formule da applicare. Un insieme di formule depositate, una volta per sempre, in quel “luogo” mentale prima che fisico già chiamato molti anni fa “White cube”. Esso, ormai, non è più un’esperienza solo spaziale, bensì profondamente connaturata nella pratica umana e artistica. Il “cubo bianco” siamo noi stessi, la nostra testa, la nostra casa, infine il tesoro che pensiamo di poter reinvestire traendone guadagno.
In esso ogni corpo tende a sparire e col corpo ogni traccia del suo operare. Fuori è lordo del sangue di quei “lavoratori” che hanno contribuito a realizzarlo, vittime dell’Italia centrale, meridionale e settentrionale, donne Bosniache, Ebrei erranti, abitanti dei confini, Ottomani mistici, minoranze mai sedate, Polacchi seri, Jugoslavi impoveriti……..etc. Dentro è diafano, infinito, è come la casa che tutti vorremmo abitare (o che tutti abitiamo). La casa è spesso chiamata “specchio dell’anima”. Sono certo che con questa definizione non si voglia (solo) dire che essa ci rappresenta come individui che in essa si rispecchiano e riconoscono, cioè s’identificano, ma che invece sia il luogo stesso dell’anima. “Alma mater” è essa stessa a rispecchiarsi nella casa attraversando i corpi e mostrandosi all’esterno nel suo tipico colore, quel bianco accecante in cui si perde l’orientamento, che sa di lisoformio appena distribuito, saggiamente, finanche negli angoli più remoti.
Mostrare l’arte dovrebbe poter significare narrare qualcosa, far parte di una storia e poterla raccontare, svolgere allo stesso tempo un atto solitario e comune. Solitario, perché tale è il rischio dell’immagine, comune perché questo rischio si tramanda con il linguaggio. I luoghi dell’arte sono quelli che tutelano il rischio dell’immagine favorendone l’identità singolare. Sono luoghi-simbolo, ma anche luoghi-passaggio. Luoghi dove si possa essere liberi d’esercitare un’interpretazione multipla senza per questo cadere nel vago dell’informe. Luoghi chiusi o aperti che favoriscono lo scambio di identità differenti, dove però la parola “scambio” non deve essere intesa come “merce di…” , scambio economico dove tutto ha un prezzo, dove per esempio alcune tradizioni valgono meno di altre e per questo più facilmente accaparrabili e utilizzabili. La parola scambio dovrebbe mantenere qualcosa dell’antico baratto con, in più, l’amore; scambio di carezze con il fine di dare e prendere piacere, scambio di doni, che possa essere reciproco. Aldilà d’ogni rappresentazione, è luogo dell’arte qualsiasi luogo che sappia mantenere amorevolmente l’immagine facendone pietra di paragone e misura di riferimento per il corpo, sia inteso come corpo singolare sia come corpo sociale.
Abbiamo questi luoghi in Europa? Luoghi capaci di narrare, che si esprimono con immagini e storie non tratte dal vocabolario “white cube”? Luoghi non “classici o anti-classici” ma luoghi per l’essere dell’arte capaci di mostrarci limiti e gioie dell’essere umano?
Questi luoghi esistono, a volte sono i luoghi stessi dell’arte che tutti frequentiamo, altre volte sono porticati ombrosi dove le voci dei passanti rimbombano sotto volte dipinte, piazze chiuse come chiostri medievali, cortili grigi di periferia, stanze di fronte al mare, biblioteche dove nessuno mette piede…..questi luoghi esistono dentro di noi, siamo noi stessi, la nostra testa la nostra casa, il nostro tesoro…..
Alfredo Pirri