Una scelta di testi a cura di Alfredo Pirri editi in occasione della mostra personale presso la galleria “La nuova pesa”, Roma, Ottobre, 1994
PER ALCUNI GIORNI DI SEGUITO
Per alcuni giorni di seguito, mi sono alzato al mattino molto presto per andare in galleria(in via del Corso, molto vicino a piazza del Popolo) ad allestire la mostra. Alle cinque e mezzo la piazza era praticamente vuota, i bar famosi che vi si affacciano chiusi. Le uniche presenze gli spazzini ed il parroco delle “chiese gemelle” ambi intenti nel loro lavoro; gli uni a pulire strade e piazza, l’altro a spazzare il portico di una delle due chiese.
Le uniche persone che transitavano erano dirette in chiesa. Il secondo giorno ci sono entrato anch’io, e poi i giorni successivi. Quelle persone entravano, si sedevano, alcuni si inginocchiavano, altri rimanevano fermi all’ingresso. Erano di età differenti, quasi tutti erano pronti ad affrontare un giorno di impegni. Nessuno parlava, nella chiesa il silenzio era maggiore che altrove o meglio era un corpo che entrava insieme ad ogni corpo di persona.
Una cosa accomunava tutti: la direzione dello sguardo, gli occhi di tutti erano puntati verso l’altare centrale dove non veniva recitata ancora una messa, dove non succedeva assolutamente nulla. Ho trovato quasi inspiegabile perché non ci si voltasse a guardare le tante opere che decorano la chiesa.
Queste scivolavano via dallo sguardo come se non ci fossero, eppure erano presenti con una sovrabbondanza addirittura fisica: quale momento migliore per goderne la bellezza! Ci si trovava in una situazione in cui è impossibile guardare le opere per il motivo molto semplice che si era guardate da esse, si era come controllati da mille occhi e mille gesti, immobili eppure attivi. Le opere e le decorazioni stavano li non per essere ammirate ma per controllare che gli sguardi delle persone fossero indirizzati verso il niente, per aiutare questi sguardi a trovare in fondo a ciò una presenza che faccia da eco ai propri pensieri.
In fondo è questo che ci piacerebbe fare, delle immagini da guardare con la schiena e da cui essere protetti come fa l’angelo con i bambini.
Immagini da consumare insieme a parenti e amici.
Alfredo Pirri
Testo Il profilo dell’artista di Giacinto di Pietrantonio
I ritratti dell’artista sono stati realizzati in creta bianca da Chiara Pirri a 5 anni e mezzo
DOVE PORTARE LE COSE CHE CI APPARTENGONO
Conversazione di Alfredo Pirri con Tucci Russo
Alfredo Pirri – Stamattina, appena mi sono svegliato, in treno, ho guardato il paesaggio fuori dal finestrino. Ho visto le cose muoversi mentre io stavo fermo. Ho pensato ai paesaggi che ho visto dalle finestre delle tue gallerie, quelle precedenti e quella attuale, ho avuto l’idea che qualcosa di simile li colleghi. Ora si vedono le montagne, in quella di via Gattinara non era il paesaggio, ma la percezione di un fiume che scorre e, ancora prima, dei vecchi edifici, mi pare di ricordare ….
Tucci Russo.- …Una ciminiera.
A.P. – Una ciminiera infatti, quello che non ho mai visto insomma è il centro di una città, una strada grande, illuminata con gente che passeggi, oppure una piazza con bar e tutto il resto che fa del centro di una città un luogo dinamico, l’immagine urbana.
T.R. – L’immagine urbana tipica non c’è mai stato è vero. La nostra galleria ora è a Torre Pellice, ma negli anni precedenti è stata prima in corso Tassoni, poi in via Gattinara, dentro la città; vi erano fuori delle cose che riguardavano la città, ma nello stesso tempo non la riguardavano perché corso Tassoni aveva un ‘immagine che all’esterno ricordava i vecchi quartieri di periferia, con un senso romantico; via Gattinara aveva un senso più industriale, ed allo stesso tempio più europeo. Quello che è venuto a mancare rispetto a quel paesaggio esterno che ci ha sempre a animati e in qualche modo spinti a fare, è quell’energia del luogo che poco per volta si è affievolita e che in qualche modo ha fatto si che volendo conservare quel tipo di energia, abbiamo pensato che fosse necessario portarsela dietro dietro insieme a quel pò di arte che siamo riusciti a capire, quel pò di pensiero che siamo riusciti a costruire in questi anni e cercare di farlo crescere con un atteggiamento più naturale, in una realtà meno impacciata dai movimenti e dalle crisi della città, cercare di lavorare con un sentimento di libertà maggiore.
Diventa difficile per me pensare un paesaggio esterno e pensare all’arte allo stesso tempo perché io vorrei vedere l’arte oggi dentro il paesaggio. Finora la galleria ha un po compensato questa cosa perché è chiaro che gli artisti possono andare verso il paesaggio e fare delle cose come se fossero sempre state li, come se fossero il frutto degli alberi. Operazioni del genere diventano difficili perché quello che ci sta attorno, il sociale, impedisce a volte, di fare delle operazioni pi libere che possano vivere in maniera del tutto autonoma. La galleria, che è un termine del quale non mai saputo bene il significato, è il luogo nel quale sono avvenute per anni delle cose secondo dei codici, mentre io vorrei avvenissero senza codici. Penso che l’arte possa essere fatta ovunque senza necessità di dire che è stata fatta dell’arte.
A.P. – La cosa che mi ha colpito oggi visitando la nuova galleria, è il rapporto fra la natura esterna, un paesaggio cosi forte, e la “natura” interna, le opere sparse nello spazio. Vi è fra questi due paesaggi un vincolo di profonda solidarietà, non dovuto al fatto che le opere appaiono come il frutto di un albero, al contrario il loro essere manufatti dell’uomo ne viene esaltato a tale punto che la galleria sembra presentarsi come qualcosa che, accrescendo l’idea stessa di natura, ne renda pi sensibile la percezione. Quello che percepisci è la dinamica e la tensione di una crescita.
T.R.- C’è osmosi e nello stesso tempo una dialettica che avviene in maniera naturale, perché io credo che in fondo le cose che gli artisti han fatto, cosi amo definirle, hanno trovato una casa, un luogo reale in cui il paesaggio esterno e quello interno costruito dall’uomo convivono bene, anzi producono una forma di contatto diverso.
A.P.-… Come se avessero trovato casa. Credo che oggi tutti siamo alla ricerca di una casa per le opere che produciamo, non inteso in termini commerciali, ma come ospitalità. Le case italiane mi pare siano molto disponibili a questa accoglienza, con le loro stanze una dopo l’altra, ognuna con re e un’intimità differente. Mi piace come l’arte assecondi questi bisogni per poi tradirli rimanendo per sempre straniera pur non assumendo il ruolo di invasore.
T.R. – Quello che dici è molto bello, anche perché chiunque può ospitare nella sua casa opere con la stessa grandezza con cui il mecenate invita gli artisti a fare delle cose nel suo palazzo. Questo è un principio straordinario che porta l’arte fuori dallo schema del mito per farla vivere con naturalezza, dentro i gesti che le persone fanno. Si pensa sempre all’artista come uno che fa delle cose trasgressive che penetrano nella sfera emotiva. Personalmente ho pensato sempre all’arte come un fatto di naturalezza e di logica conseguenza della vita. Se partiamo da questi presupposti ci rendiamo conto che in fondo l’arte può vivere ovunque ma forse, oggi sopratutto deve stare nei luoghi che la possano ospitare con questo tipo di coscienza e di naturalezza.
A.P.- Anche io penso che l’arte sia un’occasione eccezionale per ridisegnare l’idea di natura, ma in toni antinaturalistici. Giorni fa ne parlavo con un’amica, lei sosteneva la tesi che l’arte dovesse essere la sintesi ed il laboratorio creativo di sollecitazioni ed informazioni che3 provengono da più parti (o da tutte le parti). L’osservazione che mi è venuto subito da fare è che un tempo questo si sarebbe chiamato naturalismo, se con questo termine si è voluto dire da una parte l’elaborazione delle forme naturali e di tutto quello che ci circonda e dall’altra la resistenza al panico che questo comporta.
T.R. – Allora parlando proprio di questo, viene fuori un altro tipo di problema: la città, la polis così com’è organizzata è fatta in modo che tutto esista e crei un servizio in funzione degli uomini. Allora perché non estendere questa polis fuori dalla polis. A me piacerebbe trovare dentro e fuori casa, cioè nella “natura dell’uomo” e nella “natura della natura”, tutte le cose di cui abbiamo parlato fin’ora. In questo senso “decentrarmi” mi ha interessato perché possiamo li far vivere il pensiero in una forma più libera, più autonoma al pari delle forme che ci stano attorno, in maniera del tutto naturale.
A.P.- L’arte scompare se si fa laboratorio di elaborazione. Tutto è laboratorio, noi con il nostro corpo, le case che abitiamo, un albero. Tutto, tranne l’arte, perché l’arte trova dentro di sé i motivi della crescita, elabora solo i propri motivi. nessuno può piantare un quadro e nessuno può abbattere una scultura. E’ bello pensare come dal contrasto di queste forze “naturali” scaturisca l’idea dell’abitare.
T.R.- Stamattina quando mi parlavi della mostra di Roma ho avuto la sensazione come se la mostra fosse un corpo che abita una casa. Un corpo sano, unico, per cui non potresti staccarne un elemento e portarlo fuori. Questo può avvenire anche in un secondo momento , ma quella parte di corpo viene staccata, in fondo, continuerà a convivere con le altre anche a distanze separate. Questo mi ha fatto molto piacere. Tu hai pensato la mostra come un corpo unico e non come un corpo mercantile! E’ un po come quello che dicevamo prima, del bisogno cioè di una continuazione fra interno ed esterno, di una fluidità di fatti culturali…
A.P.-… in questo senso ognuno è qualcosa, una continuità, infatti quello che è dentro una casa te lo porti appresso quando esci. Ci siamo costruiti con grande responsabilità e con fare quasi militare, di difesa, uno spazio in cui poter rappresentare questo sentimento di forte contrasto con la natura per arrivare ad un confronto tranquillo in cui c’è fluidità senza liquidazione, senza rinuncia di valore rappresentativo, perché la natura stessa è diventata più complicata (oppure noi ce stiamo accorgendo). Allora noi dobbiamo creare un’arte ancora più complicata che sia allo stesso tempo una frattura e un invito, pero l’elemento dell’inviti deve essere più forte, deve vedersi…
T.R.- … credo che se arriviamo e concepire un’idea di questo tipo, riusciremo a concepire non soltanto una forma nuova di cultura, ma anche di politica… .
A.P.- So che è così, anche se a me pare sempre più difficoltoso, perché ogni volta che si parla di un’idea politica è necessario erigere più che demolire. Bisognerebbe costruire più muri di quanti sia necessario distruggerne… .
T.R. -… Certamente. Comunque costruire un’idea politica che faccia parte di quello che stiamo facendo e vivendo, significa portare le energie migliori della cultura dentro l’altro aspetto, per far si che la politica sia un’altra cosa.
A.P.- Io penso che la politica sia infarcita di naturalismo ancora più dell’arte. Vive di un’idea del suo fare come pura riproduzione, diciamo con termini più artistici che la politica sta ad un livello precedente all’impressionismo. Nessuna delle rotture successive a quest’epoca si è consolidata stabilmente nelle abitudini della gente, tutti continuano a essere e a fare come se les Demoiselles d’Avignon non siano mai state dipinte! la politica si è negata alla crescita. E’ rimasta legata a una cultura che non ha conosciuto il trauma dell’astrazione e in questo modo si nega la possibilità di rappresentare e “figurare” in maniera vivente.
T.R. Benissimo! Questo è il punto, noi possiamo partire da formule che ci permettono di usare la figurazione in un ambito che non è assolutamente figurativo! Al contrario, la rappresentazione (e la rappresentanza) in politica suona come una cosa morta. Prendi per esempio Thomas Shutte, è uno che ha affrontato il lavoro sia su un piano geometrico che figurativo mescolati insieme. Ma io ho vissuto il lavoro suo e vivo il lavoro tuo mai pensando alla figurazione, ma a un problema misto di concetto e verità.
A.P.- Quello che bisogna fare, in fondo, è vivere nella tradizione. Non per rintanarsi in essa, semmai uscendo dai suoi canoni formali per ritrovarne l’essenza comunicativa che renda possibile avere un rapporto con gli altri.
T.R.- Quest’idea di tradizione e figurazione stanno strettamente in rapporto con lo spazio e con il lavoro fatto su questo problema. Tocca vari punti, per esempio le percezioni intime messe in relazione con la tradizione concettuale. Quando dalla concettualità si approda alla figurazione, si arriva a risultati completamente diversi da quelli per cui la figurazione è pretestuale. Prendi il lavoro di Harald Klingheoller: in lui vi è l’idea di riportare il materiale e scultura, ecco quindi che una parola che, nel caso dei concettuali doveva essere visualizzata, in lui ritorna a comporsi in materiale. Ritorna cioè a farsi figura attraverso l’acciaio, la carta, la pietra assemblati in un certo modo che mi ricordano la tradizione della scultura.
A.P. – Non la tradizione ma il suo meccanismo, è importante il motore.
T.R. – Alcuni artisti hanno attraversato una parte della cultura che cercava di impostare una possibilità nuova per la tradizione, tradendola per tornare alla tradizione tout-court, perchè non c’era un atteggiamento di ricerca, ma mercantile; altri attraverso la radicalità di scelte culturali sono arrivati a tradirla nel modo giusto. Questo percorso descrive esattamente il meccanismo della tradizione.
A.P. – In questo senso si dà all’arte un ruolo comunitario che non è una resa alla realtà ma il consolidarsi di un valore simbolico di cui la comunità ha impellente bisogno.
T.C. – E’ vero, perchè si vive una situazione che è assolutamente formale. Sovente gli artisti parlano dell’esterno senza sapere cosè l’interno. Mi dispiace dire questo, e non voglio generalizare, pero vediamo spesso operazioni di questo genere e non solo nell’arte.
A.P. – bisogna accordare all’arte un fondamento di realtà, una realta che non sia realismo così come la crescita naturale non è naturalismo. Abbiamo bisogno di una realtà organica che dia all’arte ed al artista stesso una posibilita di sopravivenza. Accetando la realtà di ogni essere organico che è drammatica perché è allo stesso tempo presente ed estranea, in crescita continua, senza ne testa ne coda come certi invertebrati. Bisogna insomma smentire il presente che è inorganico quando è senza tensione. Pensare di poter afferrare la realtà quotidiana è assolutamente irreale, perché dalla vita si può essere solo presi, cosi come è irreale (oppure tristemente reale) l’illusione di poterne utilizzare gli aspetti mediali e comunicativi a fini “artistici”, bisogna dire le cose come stanno da questo scontro non si esce più “creativi”, ma o vittoriosi o sconfitti oppure socialisti o barbari.
T.R. Medialismo è un’altra parola che mi fa paura. Perché può essere veramente fraintesa… . No che non ne condivida il concetto, perché nell’arte esiste da sempre, non è un concetto nuovo, solo che è diventato formale, riguarda i mass-media più che l’arte e la cultura. Questa è sempre multi-mediale, secondo me, quando è forte; è sempre comprensiva dell’onniscenza, di ciò che l’uomo sa.
A.P. – Pero con un fare sintetico tutt’altro che espansivo.
T.R. – Il problema è che bisogna rendersi conto, ad un certo punto, delle cose che tutti noi facciamo, senza fare di questi pensieri che continuano ad uscire dei piccoli corollari accademici. Bisognerebbe che le cose che escono fuori, che si mettono in relazione si arricchiscano di nuove energie senza indebolire quelle primarie.
Torre Pellice, Settembre 1994
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