“A volte viene da chiedermi che cosa sono davvero, un conservatore, o cos’altro? Sono un ribelle, uno che distrugge e che non guarda in faccia nessuno? Proprio non lo so. In me avvengono cambiamenti repentini, che non c’entrano l’uno con l’altro, e pertanto non si ricongiungono. Non riesco a decidermi di essere un conservatore, perché neanche allora mi troverei nella società che desidero. Non riesco neanche a decidermi di essere un vero socialdemocratico, per quanto l’idea socialista sia l’unica idea sociale che io abbia sperimentato e che secondo me rimarrà viva per sempre. Però esserlo mi andrebbe terribilmente stretto, e poi non ci sarebbe neanche un liguaggio che potrei capire, nulla di artistico, nel senso aulico del termine, e neppure amore per l’arte – sembra strano, eppure… Nè del resto riesco a vedermi come “alternativo”, perché in quel campo manca del tutto la tradizione e, col passare degli anni, per me la cosa più importante è diventata proprio la tradizione – sicuramente anche grazie alle esperienze fatte da scolaro con le lingue antiche e l’enorme dedizione, sì quasi un sentimento filiale, provata per tutti quei vecchi poemi epici (respiro profondo). Ebbene l’unica cosa che so di certo, è che vorrei studiare la tradizione, leggendo, ovviamente da appassionato, e portarla avanti o almeno sostenerla. In tal senso sono probabilmente….conservatore o cosa?…non saprei ancora dirlo.”

                                                                                     Peter Handke, da “Intervista sulla scrittura”

Lucilla Meloni: Questo tuo lavoro recente, “Ratto d’Europa”, esposto per la prima volta a Torino presso la galleria Tucci Russo e poi a Venezia nella mostra Minimalia curata da Achille Bonito Oliva, segna un’ulteriore uscita dalla memoria degli “spigoli”, dalle forme “aspre e scontrose” che caratterizzavano molte tue opere precedenti. Per la prima volta c’è una forma curvilinea, annodata, che sembra crescere su se stessa quasi in maniera componibile. Pone il problema della scultura come forma che occupa prepotentemente lo spazio, forma chiusa e aperta al contempo.

Alfredo Pirri: Quest’opera è composta di curve fra loro diverse. Mutano sia i raggi che la lunghezza delle porzioni di cerchio, sono diversi pure gli spessori di ogni singolo componente, in modo tale da apparire come una forma che cresce dal basso verso l’alto secondo una vita interna che la anima. Questo per dire che non è il fattore “componibile” che mi ha interessato, ma invece quello “compositivo”. Normalmente per componibile si intende una forma originata dalla somma di unità fra loro identiche che si presta ad ulteriori ed infinite manipolazioni. Nel mio caso, invece, pur non negando questa possibilità concreta, il senso (se così possiamo chiamarlo), non sta tanto in questa prospettiva modulare, ma nella forma in sé, nella forma ottenuta. Che fa di quest’opera una scultura nel senso classico del termine, cioè una forma plastica che si orienta nello spazio, e orientandosi offre fughe diverse e punti di vista sempre diversi. E’ la prima volta che realizzo un’opera realmente scultorea, intendendo per scultura qualcosa che è assolutamente autonoma dalla parete, non riconoscendone più la dipendenza. Infatti, la scultura, nell’arte del nostro tempo è realizzata spesso come propaggine della parete. Come una penisola che si prolunga dal continente-madre. E non mi riferisco a terminologie banali, solo tecniche come quella di “pittura-scultura” con cui si definisce qualcosa di aggittante dal muro, bensì a fatti più profondi, anche fisicamente e prospetticamente. Riscontro infatti una certa predisposizione a considerare la parete come uno sfondo, un fondale teatrale carico di allusioni narrative, fosse pure la narrazione di un vuoto, una mancanza di provenienza, su cui stagliare dei personaggi in maniera più o meno decisa. Questo fa dipendere l’elemento tridimensionale da quello bidimensionale, affidando al primo il ruolo di attore principale e restituendo al secondo quel compito ottocentesco di finestra sul mondo, luogo generativo della tridimensione che gli sta di fronte.

L.M. In effetti a partire dagli anni Ottanta, gran parte della scultura è caratterizzata dall’oggettualità, dal prevalere di un principio di allestimento più che di installazione.

A.P. Il modello della scultura maggiormente diffuso è la vetrina. Un modello antimonumentale, finalizzato a conservare ed esporre resti, tracce di realtà raccolti e mostrati come spezzoni di un’esperienza più grande e consumata altrove. In questo momento, mi viene in mente il Beuys d “Palazzo Regale” (Capodimonte 1985) come punto culminante di questa esperienza. In questo lavoro lui instaura un dialogo fra tridimensione e bidimensione in cui i “quadri” appesi alle pareti rappresentano specchi disattivati, incapaci di riprodurre immagini, ammutoliti. Ed al centro della grande sala la bacheca troneggiante che contiene i simboli della vita di un artista-re che si autodepone consegnandosi al popolo. Da questo, ancora tragico, monumento-antimonumentale si arriva alle vetrine postmoderne, oggetti bidimensionali ma moltiplicati per quattro (o per cinque a seconda della presenza o meno del coperchio, a volte solo per tre, in assenza di un lato, se questo è poggiato su una parete). Oggetti contenitori la cui forma non permette di avere uno sguardo realmente sferico, vivace, ma uno sguardo che scivola lungo i piani reali o immaginari che compongono le pareti (scivolose) di questa struttura, uno sguardo che si interrompe negli spigoli, dove si formano dei punti morti, per ricominciare a scivolare fino a quando la mancanza di presa non crea noia e delusione. Noia e delusione che caratterizzano la maggioranza delle nostre esperienze visive e quindi umane. A volte si ha una sensazione simile pure in presenza di forme figurative, è come se tornassimo ad una figurazione “Egiziana”, solo simbolica, piatta, dove le forme sono importanti in quanto scrittura. Il modo che ho descritto mi pare più vicino alla scrittura che non all’arte visiva. Con quest’opera ho voluto offrire tanti punti di vista quanti sono i possibili spostamenti di un corpo nello spazio, senza gerarchie fra essi, destinati a suscitare reazioni differenti e stati d’animo differenti. Questa scultura rappresenta la convivenza di questi stati d’animo. Mentre la realizzavo ho pensato spesso al Rodin di “Gli ostaggi di Calais” con quell’inseguirsi continuo di linee, ognuna rappresentante un sentimento, un ritmo, una frase.

L.M. Quindi quest’opera nasce anche dall’esigenza di ridefinire i confini della scultura. Inoltre la linea curva rimanda alla natura, ma anche al barocco, nell’abbandonare un principio di razionalizzazione dello spazio scandito dalle orizzontali e dalle verticali. I “nodi” poi si caricano di significati simbolici, e potrei dire che questa scultura può essere l’immagine di questa fine secolo, in cui, in fondo, tutto appare ancora annodato.

A.P. Nel libro “La piega” Deleuze parla del Barocco come una funzione attiva che si distingue dall’uso della piega fatto in epoche passate (quella Gotica per esempio) perché col Barocco la piegatura è infinita e costituisce due piani, uno basso che è quello della materia, e l’altro alto che è quello dell’anima. Io ho chiamato quest’opera “Ratto d’Europa”, pensando ad una doppia dinamica: una che sprofonda e una che emerge, in cui ciò che emerge è manifestazione visibile di quello che sprofonda. Nel mito del rapimento d’Europa vi è una potenza animale (Zeus trasformato in toro) che trascina con forza una fanciulla (Europa) di cui si è innamorato. Nell’opera vi è un’allusione a questa potenza che precipita, è come se si cogliesse il movimento dello sprofondare in un momento di stasi in cui la forza sottostante, interrata, si manifesta all’esterno come dinamica fatta di grazia plastica che in un certo senso occulta, nasconde la brutalità del rapimento. Il piano d’appoggio della scultura, il pavimento, è come un punto di difficoltà dove si registra il massimo di tensione fra l’alto e il basso, fra ciò che penetra e ciò che resiste. Nello stesso periodo in cui lavoravo alla scultura ho realizzato una serie di acquerelli, un’opera che ho poi esposto a Serre di Rapolano (nella mostra “Luoghi ritrovati: 6 artisti europei”, a cura di Zerynthia, presso il Centro civico per l’arte contemporanea “La Grangia”,1997) dal nome “Sonno d’Europa”, composta di circa 150 fogli 50 x35 cm. ciascuno, al centro di alcuni dei quali è dipinta, a pressione con una matrice metallica, la frase “QUI RIPOSA” tradotta in dodici lingue europee, le più diffuse. Le parole sono in negativo, una di seguito all’altra dall’alto verso il basso, circondate da un riquadro indaco scuro, quasi nero. Il tutto è immerso in un alone di colore (sempre diverso da foglio a foglio) liquido, acquatico, emanante colore e luce. Il “qui riposa” dei cimiteri, tradotto, iterato, immerso nei colori diventa qualcosa di trasognato e di evanescente. La forma riposa in una quiete sognante, ancora un equilibrio fra il basso della tomba e l’alto del sogno. In questi acquerelli il rapporto fra parola e colore è simile a quello fra linea retta e curva nella scultura. Lavorando a queste opere ho capito meglio l’origine della curva come trauma della retta, linea spezzata, maggiori sono i punti di rottura  della retta, maggiore sarà l’armonia della curva.

L.M. La curva, in sè, contiene l’idea del dinamismo, di un’energia ascensionale ma disordinata quando diventa serpentina, lontana dal rigore della verticale. Tu comunque, arrivi alla curva partendo dalla retta.

A.P. La curva mantiene la memoria della retta, direi che fra i due segni si mantiene un rapporto omeopatico. Concretamente la curvatura del metallo si ottiene con una serie infinita di traumi che ne sfibrano la materia. Ma l’aspetto più interessante è la rappresentazione “pneumatica” che ne deriva, descrivere i mutamenti interni di pressione, l’aria che circola e pare tenere tutto in piedi. E’ lì che si opera una vera curvatura, che si costringe ogni andamento a dichiararsi come un’atmosfera diversa (mi riferisco alla pressione atmosferica, quella dell’aria compressa), un andamento della pressione che richiama alla vista l’esistenza di una fonte esterna di vita, una macchina che continua a sforzarsi, nascosta da qualche parte, fornendo aria. Quell’aria che si strozza in alto dove il metallo si chiude (quasi).

L.M. Questa scultura è una forma unica?

A.P. E’ composta di più frammenti assolutamente solidali fra loro, quindi è unica. Sono settantasette frammenti di curve che procedono dal basso verso l’alto, cioè dal frammento di diametro maggiore fino a quello minore. I primi, in basso, sono di lunghezza molto ridotta. Sono solo un accenno di curva che parte da una porzione di retta della stessa lunghezza, andando in alto cresce la lunghezza della porzione di curva fino quasi a chiudersi in un cerchio, ma contemporaneamente decresce il diametro del metallo e il raggio di curvatura. Questo fa sì che da una forma tozza, accennata, si arrivi ad una forma armonica, sviluppata, la parte bassa (dove tocca a terra) è realizzata così per dare l’idea di qualcosa che si irrigidisce trovando una resistenza, o meglio potrei dire che il pavimento essendo un piano, costringe la forma ad assumere una rigidità rettilinea della quale si libera pogressivamente in alto. Una specie di strategia visiva (ma come dicevo prima reale, pneumatica) che allude ad una presenza sotterranea di maggiore dimensione e soprattutto di maggiore potenza dinamica. Quello che affiora ne rappresenta l’inerzia, la forma ottenuta dalla resistenza del materiale. In tutto il mio lavoro le forme sono risolte in sè, ma allo stesso tempo denunciano l’esistenza di un meccanismo esterno che le tiene in vita. Quello che vediamo è il risultato silenzioso (perché concluso) di una forza maggiore della quale la forma si rifiuta di parlare.

L.M. Tu parli di forma silenziosa, mancata…L’opera che lascia nel buio tutta una serie di cose, che si situa tra visibilità e invisibilità. Nell’emergenza di una forma dichiaratamente simbolica si afferma la complessità della percezione, che va olte ciò che la vista stessa afferra e perciò in grado di generare nell’osservatore quasi uno stato di attesa, un’estrema libertà di interpretazione.

A.P. La libertà di interpretazione è dovuta alla molteplicità dei punti di vista, quasi che lo spostarsi intorno al lavoro generi, insieme ad una varietà di visioni, pure una varietà di significati. Ad ogni posa plastica corrisponde una diversa interpretazione, un salire o uno scendere che determinano un sentimento differente all’interno di un’unità di visione. Io penso che l’esperienza artistica (sia come spettatore che come autore) debba servire ad aprirsi, aprire la propria percezione, mettere la percezione al servizio dell’Aperto che, come ci hanno insegnato i pensatori moderni, è un fenomeno luminoso e spaziale. (Il concetto di Aperto è espresso da Heidegger nel libro “Sentieri interrotti”). Di più, l’Aperto è il piano su cui luce e spazio si combinano dando vita all’immagine. Il fatto è che l’immagine si realizza grazie all’esperienza dell’Aperto, anzi si installa nell’Aperto sostituendosi ad esso, annulla il dialogo fra luce e spazio facendogli venire meno il terreno d’incontro. E’ così che la finitezza dell’opera si manifesta come strumento aggressivo, che divide, e allo stesso tempo abitante dell’Aperto, suo rappresentante.

L.M. Apertura che parte da un’idea “finita” e non da un’idea in fieri, da una struttura appunto conclusa?

A.P. Per spiegarmi meglio, vorrei usare un esempio letterario. Alcuni critici rimproverano Peter Handke di avere tradito nei suoi romanzi più recenti la sua attitudine sperimentale a favore di un bisogno di racconto. In questi ultimi possiamo riscontrare come la forma chiusa faccia percepire maggiormente un campo Aperto, più di quanto non fosse possibile nei romanzi più “radicalmente” sperimentali nei quali l’Aperto non trovava espressione, rimanendo in un eccesso di evidenza come campo di tensione, in un primo piano talmente ravvicinato da risultare invisibile e irraccoglibile. Naturalmente il momento successivo mantiene col precedente un rapporto di memoria, il romanzo è a volte stordito, disorientato come dall’affiorare di un ricordo doloroso, ma pure familiare. Non ho dubbi però sul fatto che la seconda fase sia scaturita come un procedere rispetto alla precedente e quest’ultima è per me “rivoluzionaria” rispetto all’altra che non temo, al contrario, di chiamare “accademica”. Così come si può definire accademica l’arte che negando la forma o la necessità che questa esercita il suo compito di rappresentante dell’Aperto, si ostina a riproporci ossessivamente la “vicinanza” di questo campo con un fare talmente autoritario da necessitare una rivolta morale. Penso che oggi bisogna combattere l’accademia ovunque essa si nasconda, in un ottocentismo che non ha conosciuto l’Aperto e che continua a guardare al mondo dal chiuso di una stanza-bosco, oppure in un’esperienza-massa che pretende di posizionarsi al centro dell’Aperto, sostituirsi all’opera, scacciandola per poi guardarsi attorno soli e disorientati. Inutilmente soli e inutilmente disorientati. In questo contesto si colloca il mio affetto per un linguaggio “consolidato”.

L.M. C’è un riferimento alla tradizione, di cui tu hai sempre parlato. In un’intervista precedente, citando Peter Handke, parlavi di tradizione come “tramandamento”: “Quello che si tramanda sono le forme, non la realtà storica”.

A.P. Capisco che queste mie risposte possano essere interpretate in modi diversi a seconda di quello che si vuole evidenziare. E’ possibile leggervi una chiusura, qualcosa che rallenta l’avvicinarsi del nuovo. Io credo invece che cercare un rapporto con un “genere” consolidato della tradizione artistica, anche nella dissipazione, crei una maggiore prospettiva di racconto, più di quanto non sia possibile fare attingendo all’enorme offerta di stili e forme espressive disponibili oggi sul mercato della realtà. Quest’offerta che a molti appare una libertà, a me pare un ricatto che l’arte subisce in cambio di una sopravvivenza sempre più misera, non garantita dalla stessa libertà e dallo stesso potere che si affida a questa varietà di forme espressive. Per esempio quando l’arte imita il cinema, la televisione, o i sistemi di informazione, indebolisce se stessa producendo un sottoprodotto che pretende di trovare accoglienza nelle pieghe o nei varchi lasciati vuoti da questi “sistemi maggiori” (?) e così facendo ci si illude di avere ritrovato una collocazione estetica o sociale ormai perduta. Ma l’ibrido ottenuto non fa altro che potenziare il sistema maggiore, alimentandone il mito. L’arte è così costretta a convivere a fianco di “scampoli”, rimanenze d’acquisto di questi generi. Tanto più l’arte si avvicina ad essi, cercando di somigliarvi, tanto più si trova isolata e spogliata dei suoi aspetti più “creativi”, riducendosi ad essere terreno di sperimentazione per forme più evolute da applicare ai “sistemi maggiori”. Questo non significa che l’arte debba vivere nell’isolamento (forse l’artista si), tutt’altro. L’arte è luogo di “riunione”, fuoco intorno al quale raccogliere i popoli stanchi. E’ responsabilità dell’artista, oggi, soffiare delicatamente sulla cenere affinché qualcosa continui a scaldarci, oppure svendere la preziosa polvere al primo offerente che ne farà concime per altri fiori.


In Meloni Lucilla (a cura di), “Sulla scultura”, Ora Locale. Lettere dal sud., n.2, maggio – giugno, 1998.