Testo scritto per Federico Fusi
4. La materia è plasmabile di fronte alla Mente.
22. Definisco l’Immortale plasmato, perché è una forma di energia; è informazione vivente. Riproduce se stesso non attraverso l’informazione o in informazione, ma come informazione.
23. Il plasmato è in grado di unirsi a un essere umano, creando quello che io chiamo un omoplasmato. Questo annette l’uomo mortale al plasmato in forma permanente. Conosciamo questo col nome di “nascita dall’alto” o “nascita dallo spirito”. Venne iniziato da Cristo, ma l’Impero distrusse tutti gli omoplasmati prima che potessero riprodursi.
Tratto da Cryptica scriptura, in “La trilogia di Valis” di Philip K. Dick.
Le righe che seguono, sono finalizzate (per me) a riflettere e guardare meglio le opere recenti di Federico Fusi, artista Senese che ha fatto della scultura la sua pratica preminente. Riflettere sul suo lavoro scultoreo ci sarà utile non solo per comprendere meglio la sua poetica ma per trarne elementi utili a penetrare nelle forme e nelle idee generali riguardanti cosa sia oggi fare scultura. Una pratica che lui compie in maniera danzante, con passo veloce ed elegante mosso da una sintesi di suoni classici e futuri.
Proprio questa sintesi sonora che (sempre in me) fa da sfondo e da vita drammatica ai suoi soggetti, mi spinge a pensare che Federico Fusi abbia dato vita a un nuovo genere artistico: La scultura di fantascienza.
Perché la fantascienza? Perché è la forma narrativa che riesca a tenere perfettamente insieme fantasia e ragione in modo tale che la fantasia risulti reale e la ragione illusoria. La fantascienza è la sola storiografia che porti a una comprensione del mondo, soprattutto di quello futuro. Una forma di saggistica storica e allo stesso tempo visiva che troppo spesso è stata definita “visionaria” (…che naturalmente sta per pazzesca …) volendone indicarne con quel termine la dimensione obliqua e sognante e ignorando invece la centralità del visivo e dell’uso della forma in generale come dimensione sia di pensiero sia di rappresentazione. In questo senso l’accostamento con la scultura di Federico Fusi è realistica; ambedue ci aprono porte finora considerate chiuse, o, almeno socchiuse nel tempo e mai riaperte. Porte dietro le quali si è intravista una luce che siamo stati incapaci di seguire con fiducia standovi dentro. La luce del racconto fantastico e della sua dimensione religiosa, non tanto quanto pratica partecipativa ma come azione formale e formativa finalizzata alla sua esegesi.
Le sculture di Federico Fusi, spesso realizzate con marmi tipici della terra Toscana, hanno una doppia funzione: interpretare e plasmare. Ambedue le funzioni provengono da un perfetto armonico di tradizione e futuro, proprio come in un (buon) romanzo fantascientifico. L’interpretazione del testo Biblico, meglio di un solo termine prelevato dal flusso di parole che lo compongono (in un insieme di relazioni espressive) è praticato attraverso una modellazione dello stesso che appartiene proprio alla pratica secolare dell’interpretazione di ogni singolo passo o parola del testo sacro nel tentativo di fornirgli nuova luce e nuova comprensione. Plasmare le parole e dargli forma tridimensionale allora è atto fondamentale dell’interpretazione stessa, scolpire e recitare sono la medesima cosa, la medesima pratica. Il risultato tecnico e formale di quest’attitudine appartiene più alla natura dell’ologramma che a quello dell’oggetto plastico. L’opera, seppure ci parli con linguaggio tradizionale, addirittura dialettale, ci appare come una proiezione luminosa nello spazio e non siamo più noi, col nostro corpo a ruotargli intorno per vederne tutti i lati e comprenderla meglio, ma è lei che gira nel vuoto di una sospensione linguistica fatata e pesante allo stesso tempo. La mia impressione è che stia lì a mostrarsi pericolosamente con impressione di leggerezza, ma appena tolta la spina e levata l’energia che la tiene in aria precipiti a terra col suo peso di pietra, magari colpendoci un piede e ricordandoci così all’improvviso (e dolorosamente) della natura reale delle parole. Intendiamoci, tutto questo non ha niente a che vedere con i giochi tipografici della poesia visiva, piuttosto con lo stupore che avrà certamente provato chi ha interpretato per primo i Manoscritti biblici di Qumran, ne ha svolto il rotolo ed esposto alla luce del sole i caratteri. Chi l’ha fatto si è esposto all’immediata conoscenza dei suoi versi come al sole stesso, non è stato lui a tradurne le parole ma le parole a trasmigrare in lui (e di conseguenza in noi) evaporando dal rotolo e proiettandosi come fa il cinema su uno schermo. A questo “proiettare” assomiglia il plasmare la materia attraverso la pratica scultorea di Federico Fusi. Non è solo il marmo a essere plasmato dallo scultore, ma tutti noi siamo modellati dalla visione di una sua opera unendoci a essa come si fa con un libro.
Del libro (o poco più) le sculture di Federico Fusi ne hanno la dimensione, potrebbero essere maneggiate se non fossero pesanti, ma questa impressione di maneggevolezza rimane impressa nell’opera e ci fa pensare (proprio in virtù del peso) alla forza di chi si permette di farlo, di chi può con facilità prenderne in mano le parole che compongono la scultura e giocarci come con un palloncino, rigirandole e dandogli ogni volta significato nuovo. Di questo personaggio tanto forzuto lo scultore ci parla, ma noi non riusciamo a comprendere (neanche attraverso il racconto che ne fa Federico) chi esso sia.
Alfredo Pirri, Settembre 2012