Parallelo 42 numero 03 raccolta 42_10
Vuoto per Pieno
Incontro fra Alfredo Pirri e Giorgio Barberio Corsetti
Roma 02 dicembre 2010 a casa di Alfredo Pirri
Alfredo Pirri:
Questo incontro fra me e Giorgio Barberio Corsetti, avviene dopo molti anni di conoscenza, stima reciproca e frequentazione (non continuativa). Abbiamo deciso di fare questo dialogo in forma pubblica, anche se le persone che abbiamo intorno sono tutte amiche e l’incontro si è svolto a casa mia. Pensavamo fosse bene non trattenerlo dentro una dimensione privata, fra noi soltanto intorno ad un registratore ma allargarlo ad altri, persone che stimiamo, in modo da coinvolgerle in un colloquio che ci espone l’uno verso l’altro con fiducia, la stessa con cui si confessa qualcosa d’intimo a una persona cara, sapendo di fare affidamento sull’amore prima che sullo scambio verbale.
Abbiamo trovato un titolo a questo incontro: “vuoto per pieno”, è un titolo che evoca soprattutto la questione del vuoto, presente nel lavoro di entrambi e, come mi diceva l’altro giorno Giorgio, per lui particolarmente importante oggi.
Il termine “vuoto per pieno”, però, non ci spinge a pensare solo a qualcosa di alto e indefinito, ci riporta anche a qualcosa di semplice e pratico. Con questo termine si indica un particolare modo di misurare lo spazio in edilizia che corrisponde anche a un tipo specifico di contratto artigianale: Il muratore o l’imbianchino, per calcolare il costo di un lavoro in maniera semplice misura le superfici vuote, ad esempio i vani delle porte, delle finestre o delle aperture in genere integrandone poi la dimensione in continuità con quelle fatte di muratura e quindi piene. In tal modo si afferma il senso di una totale equivalenza tra vuoto e pieno. A prima vista questo ragionamento appare un imbroglio, un modo subdolo per applicare il costo del pieno anche al vuoto ed equiparando il prezzo di quello che si fà con quello che non viene fatto. La loro equivalenza economica, però, non è data da una corrispondenza di misurazione bensì da un ragionare su un surplus di lavoro e di attenzione necessaria per lavorare sui vuoti (o il vuoto) rispetto ai pieni. Si ritiene cioè che la difficoltà e il tempo lavorativo necessario fa sì che il vuoto sia molto più prezioso del pieno, allora ne risulta che l’equivalenza, in linea di principio, fra i due parametri è in effetti una concessione che il vuoto rende al pieno, una sorta di regalo visto il suo valore molto più elevato. In un certo senso il vuoto rende valore al pieno.
Come dicevo all’inizio, con Giorgio abbiamo deciso di affrontare questo argomento, a partire dal nostro lavoro; da come, cioè, in quello che facciamo, anche inteso in modo semplice e pragmatico vuoto e pieno si equivalgano fino a confondersi. E in effetti così è in ogni opera, il loro equilibrio è la base del lavoro dell’arte. Ma questo rapporto così equilibrato e perfetto non deve impedirci di pensarli come forze contrastanti, drammaticamente in conflitto che lottano dentro l’opera per avere il sopravvento e lottano anche negli occhi e nella mente di chi l’opera la guarda per conquistarne l’identificazione, la comprensione, la condivisione …. Vuoto e pieno sono alternativamente sfondo e figura, si spingono e attraggono a vicenda cercando di annullarsi … almeno io li vedo e vivo così … il loro dialogo, la loro armonia è solo il risultato momentaneo di un’opera che li cattura entrambi costringendoli alla coesistenza …
Giorgio Barberio Corsetti: l’approccio all’argomento che Alfredo ha ricercato nella prassi artigianale rispecchia anche il lavoro del teatro che ne è fortemente impregnata in diversi ambiti, dalle scene, ai costumi, alla costruzione dei caratteri dei personaggi, alla definizione dei testi, ecc. In teatro si lavora per strati, si lavora per passaggi successivi, ed anche l’improvvisazione s’innesca sui momenti precedenti restituendo la percezione della crescita dell’opera giorno per giorno.
Vuoto è ancora il contenuto portante del mio nuovo spettacolo, dove dopo tanto tempo torno in scena come attore, e devo interpretare l’urlo silenzioso, un’emozione da trasmettere però con un’azione fisica e questo è il motivo per cui sono senza voce ora…
(del testo di Corsetti ho una registrazione a tratti, per via della voce bassa, e quindi magari può integrarla)
Alfredo Pirri: parlando di fisicità e di realtà dell’opera, di come il vuoto agisce nel mio lavoro come qualcosa di concreto, voglio sottolineare un aspetto che è molto simile al lavoro dell’artigiano da cui siamo partiti; cioè ad un aspetto quantitativo che difficilmente viene allo scoperto quando si parla di vuoto anche perché il vuoto viene sempre imparentato alla sottrazione, mai all’addizione. Per me il vuoto, la sua azione, è il risultato di una quantità enorme di lavoro; per definirlo, mostrarlo, vederlo all’opera o nell’opera è necessario un surplus di impegno che lo renda qualcosa, una tensione ben più grande del solo essere la rappresentazione di quello che manca, quello che non c’è … che non c’è più o non c’è ancora … per me è come se il vuoto fosse depositario di un maggiore impegno di lavoro e di pensiero, quindi lo percepisco come qualcosa di presente. Anche se è più normale definirlo o intenderlo attraverso una negazione piuttosto che un’affermazione il vuoto non è una negazione o una rinuncia, è invece, il risultato di un lavoro, di un’azione che crea un campo di sensazioni che definiamo vacante. Io lo percepisco come una specie di vacanza voluta, meritata, allegra, mai definitiva; è una vacanza momentanea, fulminea che si consuma in un attimo, quello in cui si riesce a percepirlo … maggiore è la qualità del lavoro impiegato, maggiore la fatica dispiegata, maggiore è la sua permanenza dentro di noi.
Giorgio Barberio Corsetti: questo rapporto tra vuoto e spazio è qualcosa che ha a che fare con l’essere nel presente, nell’istante che dura il tempo di una rappresentazione.
A volte la presenza è costante, a volte la si insegue disperatamente nel momento che non si compie mai, è una benedizione quando succede e il testo diventa uno spazio da abitare. … La domanda di fondo è cosa pensa l’attore: pensa a se stesso come attore o pensa a se stesso nello spazio vuoto? (del testo di Corsetti ho una registrazione a tratti, per via della voce bassa, e quindi magari può integrarla)
Alfredo Pirri: il lavoro che descrivi, quello che porta l’attore a svuotarsi dei propri pensieri, del proprio io per essere nella testa del personaggio che deve interpretare, mi fa riflettere sulla mia difficoltà, tutta occidentale …. anche se innamorato del vuoto … che però non riesce ad immedesimarsi nella percezione di un orientale che vive il vuoto come pulizia interiore, assenza di tensioni, rilassamento … ho provato a essere in quella condizione, nella testa di un orientale e non ci sono riuscito. Non riesco ad avere quella percezione della permanenza eterna nell’idea del vuoto orientale, anche se so che ha a che fare con una profonda ricchezza e bellezza spirituale. Allora mi sono chiesto perchè non ci sono riuscito e ho capito che molto dipende da una differente percezione della luce: Il sole sorge sempre ad oriente … sia per me che sono ad occidente che per gli orientali stessi. La luce nasce ad oriente e tramonta ad occidente … a volte per qualche intervista o durante incontri pubblici, mi viene rivolta una domanda, sempre la stessa: perché nel mio lavoro ritorna l’uso del rosso che riflette sul bianco? A me viene da rispondere sempre così: avete mai notato l’evolversi del tramonto, soprattutto se si è su un aereo, da dove si può osservare quella luce rossa che va a sfumare nell’azzurro attraverso il violetto. Quel colore, che si intensifica col progredire del tramonto è, come sappiamo, il risultato dell’azione della luce del sole che, invisibile direttamente ai nostri occhi in quel momento, urta sulla terra rimbalzando verso l’alto o meglio tutt’intorno, la luce non ci arriva più dall’alto, pulita, diretta, bianca ma colorata dall’incontro e scontro con la terra che si staglia definendo l’orizzonte fino a sparire quando la posizione del sole le sarà esattamente contrapposta. Da questa percezione del tramonto nasce il mio interesse per il rosso. Io, da occidentale, condivido costantemente questo movimento progressivo e dolce verso il buio. Non mi sento a mio agio nella parte dell’illuminato che guarda in faccia il sole sentendosene parte e sparendo in esso lasciandosene bruciare. Mi sento invece parte di un tramonto infinito che ha in se, offrendomene la visione, la percezione momentanea della fine. Sono chi guarda le cose immerso nell’ombra della terra e del suo corpo maestoso che si avvia verso la fine. Questo è il mio osservatorio, da qui nasce quello che faccio.
Giorgio Barberio Corsetti: adesso mi fai pensare al film di Nanni Moretti dove tutti vanno a guardare l’alba…
Alfredo Pirri: sarebbe stato più bello fossero andati a guardare il tramonto. Se Moretti avesse avuto il coraggio di guardare in faccia la fine invece di trastullarsi con un inizio sempre avviato e sempre rimandato oggi avremmo un cinema italiano …. ma sulla questione della luce in rapporto anche al vuoto e al pieno mi piacerebbe ascoltare Luigi che è un astrofisico….
Luigi Spinoglio: se si pensa al rapporto tra vuoto e pieno solo come rapporto tra presenza e assenza di materia, lo spazio che noi siamo abituati a pensare pieno in realtà appare vuoto, se non si considera l’intercambiabilità o, meglio, l’equivalenza tra massa e energia. Se si guarda il nostro sistema solare si scopre che tutta la massa sta nel Sole, la Terra ha meno di un centomillesimo della massa del Sole e così via, Giove ha trecento masse terrestri, che è sempre una infinitesima parte (un millesimo circa) della massa del Sole. Se si aumenta il raggio dell’indagine fino ad ampliarlo a tutto l’universo, si scopre che la densità media dell’universo è estremamente bassa, si parla di (10-30g/cm3) dieci alla meno trenta grammi per centimetro cubo, da confrontarsi con la densità dell’acqua di 1 g/cm3 e dell’aria di 0.0013 g/cm3. Dieci alla meno trenta è un numeretto con trenta zeri dopo la virgola e quindi di massa c’è ne veramente poca per come la vediamo noi, ma certo quello che c’è è diverso da quello che può essere sperimentato.
Albert Einstein disse che E=Mc² in realtà qualunque forma di energia è un equivalente di massa, in effetti la massa si nasconde sotto forma di energia, i due concetti sono intercambiabili in fisica e quindi tutta la luce di cui parlavi tu prima è energia e quindi può essere massa. Se si fa esplodere una bomba si tira fuori questa energia, una bomba atomica trasforma le poche centinaia di grammi di massa che ci sono in una bomba, in una quantità di energia spaventosa …
Alfredo Pirri: … spaventosa non solo perché “micidiale” ma anche inimmaginabile, informe perchè col pensiero non riusciamo ad immaginarne la forma …
Luigi Spinoglio: … il rapporto tra vuoto e pieno in astrofisica è anzitutto un problema di massa mancante la cosiddetta “materia oscura” in cui siamo immersi e che pesa almeno 5 volte più di quella che conosciamo, che non si è mai vista ma della quale si vedono gli effetti indiretti nella dinamica dei corpi dell’universo. Quando i Greci sostenevano che l’universo è fatto di acqua, terra, aria e fuoco, avevano semplificato moltissimo il problema perchè non si occupavano delle grandi distanze, ma a livello locale avevano delle certezze. Questa certezza in astrofisica non esiste più.
Come si scoprì la materia oscura: dallo studio della dinamica dei corpi dell’universo, Fritz Zwicky, astronomo svizzero naturalizzato statunitense, nel 1933 misurò che all’interno di ammassi di galassie locali, nella costellazione “Chioma di Berenice”, le galassie si spostavano con velocità che non venivano spiegate dalla gravitazione della massa visibile. Cioè con la legge di Newton, dall’osservazione delle orbite dei corpi possiamo conoscerne la dinamica e quindi la massa totale del sistema; nello stesso tempo la massa totale può essere misurata dalla luce stellare, perchè le stelle sono sistemi bloccati con una relazione molto precisa tra massa e luminosità. Zwicky verificò, però, che la massa totale misurata dalle stelle era cento volte più piccola di quella misurata dalla gravitazione dei corpi celesti. Allora si cominciò a pensare che dovesse esistere della materia mancante e questa ipotesi è stata confermata anche dall’analisi della rotazione delle stelle all’interno delle galassie tra cui anche la nostra galassia. Anche nella Via Lattea le stelle si muovono in un modo che non è compatibile con la massa presente nella galassia, sono molto più veloci, almeno di tre o quattro volte. Inoltre, visto che la massa si concentra al centro, le orbite stellari dovrebbero diminuire man mano che si va verso la periferia, invece le curve di rotazione delle galassie sono piatte. Cioè le stelle si muovono a trecento chilometri al secondo sia nel centro che nella periferia delle galassie e questo non torna con la legge di gravitazione. E perchè non torna? Perchè si scopre che la massa che noi vediamo è solo il 5% della massa esistente. Oltre alla massa oscura, con le scoperte degli ultimi dieci anni, dell’universo inflazionario e dell’universo che ha un’accelerazione, si è introdotto il concetto di “energia oscura” che è stimata essere il 70% del totale, il 25% è la “materia oscura” il 5% è la materia che noi misuriamo sotto varie forme. Le stelle fanno l’1%, i buchi neri, le nubi galattiche, il mezzo interstellare diffuso, fanno un altro qualche percento fino alla somma del 5% che riusciamo a vedere, tutto il resto non lo vediamo.
Per ora l’unica certezza sulla “materia oscura” è che non ha la forma della nostra materia, non è la materia barionica a cui siamo abituati, fatta di atomi, nuclei, elettroni, protoni, ecc. E’, invece, una materia che sfugge e i grandi acceleratori, tra cui l’LHC (Large Hadron Collider) del CERN, stanno cercando proprio questa materia sottoforma delle cosiddette particelle WIMP (Weakly Interacting Massive particles), che sono particelle con deboli interazioni con la materia normale e così massicce da potersi prendere carico del problema di massa mancante, che è il 25% del totale rispetto al 5% che noi “vediamo”. L’altro 70% della materia che non vediamo è sottoforma della cosiddetta “energia oscura”, che non sappiamo neanche che cos’è nella sostanza, anche se i teorici dicono che è necessaria per spiegare l’accelerazione dell’espansione dell’universo, misurata attraverso le osservazioni delle supernove di tipo Ia, e sarebbe legata a una forma gravitazionale di segno opposto, repulsiva anziché attrattiva, come se anche la gravitazione avesse un polo positivo e un polo negativo, che noi non conosciamo in questo momento, ma secondo queste teorie sarebbe possibile.
Alfredo Pirri: di nuovo mi colpisce in quello di cui parli la questione della quantità. O meglio, mi pare di capire, che la qualità risieda proprio nella quantità delle cose presenti nel cielo e delle potenze che esse racchiudono ed esprimono. Potenze reali o percepite come tali che tu hai chiamato “materia oscura”, mentre ne parlavi mi tornavano alla mente tutti gli sforzi fatti dalle arti, dalla pittura al cinema o alla poesia per dare un’immagine di questa materia che sembra riempire tutto e che viene chiamata oscura forse perchè sconosciuta ma anche percepita come una minaccia. Ho pensato ai film di fantascienza che hanno cercato di interpretarla dandogli delle forme aliene, oppure alle figure oscure e malvage nelle raffigurazioni artistiche del passato così cariche di morale Cristiana o alla letteratura di Philip K. Dick quando parla di “un oscuro scrutare” al servizio di un potere capace di vedere dove altri non vedono…. ma la cosa più importante a cui mi fai pensare è la questione della riproposizione della mimesi, cioè di come l’arte possa, oggi, tornare a considerare la mimesi tra i suoi strumenti. Non più come hanno fatto per primi i Greci come imitazione di quello che si vede e di quello che conosciamo, ma lavorando al tentativo di rendere evidente quella materia oscura (o luminosa visto che si equivalgono) che non conosciamo, che non sappiamo se esista veramente e che forma abbia, o se abbia una forma. Una mimesi capace di riportarci verso l’ombra, di farcela amare e comprendere. Lo straordinario dell’arte sta proprio nello sforzo di imitare ciò che non conosciamo a sufficienza. Il poeta Milo De Angelis parla sempre dell’importanza del ritorno … ritornare ai luoghi dove siamo già stati … I luoghi che abbiamo già conosciuti, io penso che questi luoghi possono essere insieme paesaggi dell’infanzia o del linguaggio insieme a luoghi che non sapevamo ancora di conoscere e l’arte fa lo sforzo di rappresentare questi luoghi dove siamo stati ma di cui non sappiamo la forma.
Giorgio Barberio Corsetti: una delle tesi di filosofia della storia di Benjamin, in cui lui dice che l’automa che gioca a scacchi è la storia ma il nano nascosto che lo muove è la metafisica, la teologia, l’invisibile. Sappiamo bene che quello che noi arriviamo a percepire con i nostri sensi sia scientificamente che psichicamente, nella vita che viviamo è solo una parte minima di ciò che è. Allora cos’è questo “altro” che non possiamo percepire con i 5 sensi?
Per gli orientali che tu citavi prima non c’è solo aria, acqua, terra, fuoco, come per i Greci, ma c’è anche lo spazio che è fondamentale ed è rappresentato dal colore blu e a che fare molto con il vuoto. Lo spazio è il luogo dove avvengono tutti gli altri elementi. Ma essi parlano anche del vuoto mentale che non è assenza di pensiero, ma un modo di non pensare il pensiero come osservazione del nostro essere. Noi non siamo il nostro pensiero. Il monologo interiore non siamo noi, è quella parte di noi che si esplica nella vita quotidiana, al di la dell’essere, quella che gli orientali chiamano il Samsãra il mondo delle reincarnazioni dove siamo imprigionati. Così l’invisibile può apparire nell’opera d’arte e nel testo teatrale. Finalmente questo fantasma del padre lo vediamo, arriva, dice la sua racconta tutti i segreti che non mai andavano rivelati, e il povero Amleto resta a fare i conti con questo, e poi, non contento, continua a blaterare nel sottopalco. L’invisibile che non si può sperimentare con i sensi, ma che in qualche modo ci appartiene, deriva dal flusso della tradizione che determina il simbolico, una tradizione che presuppone anche una trasmissione.
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Pietro Montani: credo che questa discussione eviterebbe il rischio di allargarsi su troppi temi se si facesse lo sforzo di distinguere il concetto procedurale del vuoto dal concetto metafisico. Per procedurale intendo quella forma del vuoto che serve alla comunicazione: gli intervalli nella composizione musicale o nel montaggio cinematografico, le demarcazioni nella concatenazione delle unità linguistiche ecc. Il vuoto metafisico è quello della teologia negativa, l’allusione all’invisibile, il paradosso di Wittgenstein secondo cui “di ciò di cui non si può dire occorre tacere”, che è una frase che verte precisamente su ciò che dovrebbe, invece, essere taciuto… Trovo che l’aspetto procedurale del vuoto sia più interessante perché è quello che serve a dire, a parlare, a rappresentare, a fare musica, e anche a fare storiografia. La storiografia di Benjamin è il discontinuo per eccellenza: un vuoto procedurale, uno scarto improvviso che si apre tra il presente e il passato e dal quale il passato riemerge in forma nuova. Anzi, in forma rivoluzionaria, dice Benjamin.
Alfredo Pirri: non allontanarsi troppo dalle cose, in particolare considerare l’opera come una barriera contro cui sbattere come dei forzati in fuga racchiusi dentro un recinto. La necessità di avere barriere ha molto a che vedere con il vuoto, in fondo un’opera che cos’è se non una barriera contro la quale urtare contro la quale accanirsi, con la quale dialogare e con la quale trovare un accordo, un’alleanza. Non barriere contro qualcuno o realizzate per proteggersi ma per definire una linea immaginaria di confine fra l’opera ed il resto, una linea sottile ma visibile mobile e velenosa come un serpente, che sia allo stesso tempo un terreno di confronto e scontro. Quel confine secondo me è il linguaggio, un luogo dove accade una battaglia, l’opera d’arte vuol essere un luogo di battaglia.
Giorgio Barberio Corsetti: la soglia definitiva penso sia la morte. Credo che ogni opera in qualche modo è un punto di passaggio, un ponte che ha a che fare con la fine di un luogo e l’inizio di un altro.
Alfredo Pirri: ogni singolo gesto del fare arte è un gesto concluso, perfetto, definitivo e avviene dentro un confine, spaziale o temporale. In ogni opera il vuoto è a servizio del pieno, della sua rappresentazione. Il vuoto è come un enorme basamento che regge una piccola porzione di pieno, ce lo offre alla vista come si espone un dono, il dono del suo lavoro.
Pietro Montani: Alfredo ha fatto un elogio della finitudine, l’opera che esce dallo studio non è compiuta eppure è finita, l’arte è un’esperienza che ci invita a distinguere tra finitezza e compimento, qualcosa che ha a che fare con l’esperienza della mortalità. Qui il vuoto, lo scarto tra il finito e il compiuto, ci fa vedere che quell’aspetto che prima definivo procedurale ha delle valenze concettuali che l’arte sa esplorare in modo molto approfondito. Grazie al vuoto procedurale, per esempio, si possono effettuare scambi e commutazioni nei registri della sensibilità che ho spesso riscontrato come un tratto caratteristico delle opere di Alfredo. Penso a una sua opera di parecchi anni fa, Gas, che mi fece una grandissima impressione per la sua capacità di far emergere l’elemento gassoso da qualcosa che a tutta prima non ha alcun rapporto col gas: la saturazione del colore, la stratificazione degli spazi, il rapporto tra diversi gradi di solidità della materia ecc. Ecco un insieme di vuoti procedurali che evidenziano anche valenze filosofiche, ci danno da pensare concetti legati alla sensibilità
Sono abbastanza sorpreso, d’altra parte, che Giorgio si senta così rappresentato dalla concezione orientale e mistica del vuoto, quella che prima ho riferito alla teologia negativa. Lo trovo strano perchè questa intonazione mistica penalizza, mi pare, il lavoro di continua dislocazione dei confini spaziali che Giorgio fa regolarmente nei suoi spettacoli. E qui ritrovo, di nuovo, l’importanza costruttiva del vuoto procedurale.
Ph. Daniela Pellegrini