Dialogo fra Alfredo Pirri e Jannis Kounellis pubblicato sul N1 della rivista Alfabeta2, Luglio 2010.

Pirri – Vedendo alcune foto-ricordo che avete portato dalla Cina, immagini di tuoi lavori in corso d’opera e di città, ho compreso meglio una  caratteristica del tuo lavoro, che mi è apparsa ancora più straordinaria per l’esplosione cromatica con cui si esprime: la questione del frammento e di come si veda il mondo attraverso di esso…. I quadri in lavorazione che hai fotografato, sono fatti con cocci di vasellame variopinto. Anche le foto dei mercati cittadini ci mostrano l’immagine di un mondo frammentato….
Nel 1973, quando ero studente a Cosenza, al Liceo artistico, viaggiavo i fine settimana per venire  a Roma a visitare la mostra “Contemporanea”, e ricordo che già allora ebbi l’impressione, di fronte al tuo lavoro, che questo tuo mostrare un mondo per frammenti non muovesse dal  desiderio di  ricomporlo mitologicamente, come molta arte a te contemporanea; in te c’è invece un ‘accettazione  di questo essere a pezzi, di questo mondo drammaticamente  sconquassato.

Kounellis – In Cina ho fatto dei frammenti di porcellana. Nei mercati, insieme a degli oggetti integri, c’erano anche dei cocci in vendita, successivamente ho saputo che era una cosa dell’epoca: le guardie rosse entravano nelle case delle persone e rompevano gli oggetti perché considerati immagini borghesi, un bene. Così ho deciso di farlo e di rappresentarlo come grafia da sinistra a destra (come noi scriviamo, non come loro scrivono). I cinesi l’avevano fatto anche con il carbone, ma devi avere una quantità enorme di materiale per renderlo in questo modo. Per quest’ipotesi di scrittura, bisognava avvicinarli poi si facevano quattro buchi sulla lamiera e c’erano questi bravi cinesi che inserivano un ferro che univa; l’importante è come si è fatto, non come appare e molte volte sembrava una scrittura, dall’alto verso il basso, da sinistra verso destra.
Quell’epopea della Cina come Grande Impero mi piaceva molto; al contrario, l’atto di rompere i piatti, come immagine del passato, non l’ho apprezzato.

P.– Non vedo mitologia, n’è consolazione nei cocci cinesi, ma lo stesso atteggiamento tragico che c’è dentro i vestiti a fiori incapsulati nel piombo, oppure  nel carbone partorito dalla terra, o nella moltiplicazione variopinta di ali di farfalle. Sono forme che richiamano classicamente (e in modo ordinato) la maternità e la gioia, la bellezza e la pietà. Sono immagini “autenticamente” tragiche e classiche perché sembrano raccontare l’umano attraverso la sua meravigliosa concretezza.

K.– Quando componevo le parole, inizialmente erano delle lettere divise che sono poi diventate fonetiche e lì vedi le distanze, lo spazio, il ritmo, la volontà di cantare in ogni caso rimanendo in una fonetica ermetica; questo è stato il mio inizio che ha dunque qualcosa in comune col frammento, successivamente ci sono stati dei frammenti di umanità, io sono un uomo dell’Ottocento. Altrimenti come spiegheresti I Mangiatori di patate di Van Gogh? È un’immagine speculare a quella del carbone, non è distante ed è evidente che c’è un’umanità, una partecipazione emotiva se non politica con questa fetta di persone emarginate. Io non mi sono mai immaginato neoclassico, non è la mia natura; sono nato lì dove la mattina in distanza si vede il Partenone e anche questo è un frammento. Anche quelle cose di portare i lavori, negli anni Sessanta, nella fabbrica, aveva quel tipo di ideologia. Anche la fabbrica era un frammento, un posto abbandonato e io vado da un abbandono all’altro e non c’è mai la ricomposizione, Les demoidelles d’Avignon, ognuna ha una testa diversa, è frammentata come immagine.

P.– Si dovrebbe, forse, usare un’altra parola al posto di “frammento”. Il frammento fa pensare a qualcosa che appartiene a un’unità perduta e continuamente cercata, mentre quello che vedo nei tuoi lavori è un mondo in rovina, tragicamente e gioiosamente rotto.

K.– Forse c’è un’attrazione insita che ti porta a vedere il mondo, è evidente ci sono cose molto ricomposte e si fa di tutto per ricomporre, solamente che nel dopoguerra europeo la ricomposizione non è mai avvenuta, basta guardare a un quadro di Fontana, di Burri o alla Merda di Piero Manzoni, non sono delle cose componibili. E poi non c’è lo stile che è un’abitudine gestuale prima e poi informale; se togli lo stile vedi la realtà frammentata e volta per volta partecipi con intensità.

P.– Prima parlavi della musicalità, del canto. Il canto di cui parli è soprattutto litania….

K.– Sì, forse ho vissuto una litania. Fisicamente ho vissuto un periodo tragico durante la mia infanzia, ricco di elementi poco gradevoli.

P.– Una curiosità che ho da tempo; ho sempre pensato alla tua passione per i trenini, passione infantile che rimanda al tema  del viaggio e della fuga, a qualcosa che ti porta via per mostrarti paesaggi sconosciuti. Ma il treno è sia un gioco affascinante che, per esempio, la macchina da guerra usata per svuotare l’Europa dagli ebrei. Nel tuo lavoro, c’è un momento limite e nebbioso, fatto di tenebra, in cui l’immagine gaia del trenino infantile si trasforma in quella dolorosa della consapevolezza adulta.<

K.– Il treno richiama i passeggeri e la loro condizione. Il mio trenino però era il trenino della Santa Fe; infatti il primo quadro che ho fatto è il Pappagallo: un campo di ferro con i cactus e non coi fiori, era questo un sogno epico di piacere, anche di fuga mentre non fuggi, di una frontiera da New York a Santa Fe attraversando deserti ed era quello il problema. Il minimalismo: la ripetizione del modulo ferroviario, erano delle piccole cose, dei piccoli particolari nel trenino che poi si sono ingrandite come la carboniera, dove però non c’è alcuna idea minimalista. Il minimalismo richiama sempre il dio unico, per me il problema non è quello.

P.– Nel minimalismo non c’è gioia…

K.– Effettivamente non c’è gioia perché c’è un canto al dio unico, mentre io ho sempre pensato ad un viaggio senza fine, per conoscere.
Per me essere dialettico è importantissimo; un minimalista non è dialettico perché vede solo Dio, io vedo solo gli uomini.

P. – Peraltro, tu sai meglio di me, l’umanità è il senso primo e ultimo del Cristianesimo.

K.– I minimalisti non hanno saputo vedere bene questo Cristo pieno di coltellate. Noi abbiamo un Dio morto in maniera becera e pieno di cose terribili, questo implica che per potere descrivere questo Dio è necessaria la figurazione; solo la figurazione può descrivere realmente la sua presenza estremamente drammatica
Ad esempio in Cina c’è Buddha, Confucio, ci sono dei filosofi. Questo Cristo è uno fatto a pezzi e ciò dice molto sulla drammaticità che c’è nella pittura europea. Questo segno di violenza è presente anche nei lavori di Fontana. Cos’è lui senza questi buchi? Nella cosa bellissima di Fontana c’è il buco che non è dipinto ma che c’è e lo puoi anche toccare ed è estremamente significativo; quest’uomo del nostro dopoguerra ha visto, non in maniera figurativa ma iperfigurativa, cioè ha rappresentato con un buco alla tela un taglio nel corpo di Cristo, dunque senza comporre ha ripetuto questo gesto nei successivi lavori, con buchi e tagli magari poi un po’camuffati con spazialismo per via della modernità. Ma il fondo del ragionamentoè sempre richiamare il dramma.

P. – E l’attesa…

K.– Sì l’attesa, il domani. Non ti dà una via d’uscita su un domani diverso, è morto facendo buchi. E questo è significativo per la pittura europea perché noi siamo, per via della nostra storia recente, gente ferita sulla propria identità, Dunque non esiste ricomposizione, se non si pratica l’identità. Esiste questo paesaggio infernale, di un inferno ragionato dappertutto fra una casa caduta e un frammento, i ricordi. Anche delle cose più drammatiche come la Guernica, anch’essa è frammento, non la riconosci neppure c’è questa poliedria cubista dentro, è una frammentazione la poliedria.

P. – Ci sono anche forme diverse dal neoclassicismo per tentare una ricomposizione. Oggi, per esempio, passa attraverso quello che i filosofi hanno chiamato “Trionfo della tecnica”, anche questo è un tentativo di riconciliare (dominando).

K. – Io penso che la tecnica, il suo il trionfo sia ideologia; e questo si vede nel Caravaggio. La sua tecnica è l’ideologia della Controriforma, l’ombrosità non è riflessa nel Neoclassicismo. Ma come faccio a dimenticare la drammaticità e l’ombrosità del Caravaggio per diventare un simmetrico? Se la mia visione si incrocia per amore, per piacere a quell’ombrosità, io sono un uomo segnato, mi piace l’internazionalità, ma non posso non portare in questo spazio internazionale l’ombrosità del Caravaggio. C’è anche questo perché riguarda la mia crescita, la mia vera identità.

P.– L’ombrosità in Caravaggio proviene dallo sfondo da cui emergono le figure, sfondo che le invade tanto che anche i loro contorni sono fatti d’ombra, non sono netti come nel minimalismo.

K. – Il minimalismo è fatto di colori piatti, rappresenta il diavolo per me ed è semplicistico di fronte alla potenza dell’ombra, è dogmatico. L’ombra racchiude in sé una libertà pagana, contrariamente all’altro

P. – L’ombra evoca la vita più del chiarore; il chiarore, paradossalmente, richiama la morte e la somiglianza fra l’opera minimalista e la bara è evidente…

K. – I minimalisti hanno cercato di trovare la salvezza nella matematica nascondendo però questo ordine dogmatico che nasce da un manifesto, non dalla drammaturgia ma da una cosa di «imposizione» che ha un’idea strategica. Preferisco l’appassionata presenza di Pollock che distrugge la sua vita, non cerca il modo di salvarsi a priori, vive e consuma la sua vita in questo spazio epico americano; gli altri, invece, non la consumano.

P. – Quando hai detto drammaturgia, mi è venuto naturalmente in mente il teatro; la drammaturgia come scrittura preliminare e prefigurazione del teatro da mettere in scena. In quello che dici c’è l’idea di una scrittura che disegna il destino personale di ognuno. Un destino e un’esistenza che Pollock ha  interpretato fino in fondo come atto unico e irripetibile.

K.– Si è amato Pollock perché ha regalato la libertà, ha dato la possibilità di vedere lo spazio diversamente senza un ostacolo critico, vive la realtà dentro al quadro dove consuma la propria vita come su un palcoscenico, con gioia senza drammaticità ottocentesche e ritrova l’epica americana; sì perché l’America insegna l’epica, l’avventurarsi nei confini sconfinati; mentre il minimalismo no, in esso c’è un ostacolo intellettuale, di fronte all’Oceano ha un ripensamento, mentre Pollock l’Oceano lo vive.

P. – Il minimalismo rappresenta l’America consolidata,  che ha concluso la sua avventura…

K. – Rappresenta una società che conta, un salotto che conta, l’America minimalista non è astratta di fronte alla società americana.

P. – C’è però anche uno spirito utopista in alcuni minimalisti, come il desiderio di costruire una città di Donald Judd….

K.– Il desiderio c’è, ma intanto ha creato solo i mobili… .
Molte volte lo considero romantico, e si sono un po’ arrabbiati per questa mia accezione, ma io lo amo anche per questo.

P. – Non solo romantico, ma anche mistico e lo scrive anche nel primo punto degli statements dell’arte concettuale: Gli artisti concettuali sono mistici piuttosto che razionali. Arrivano a conclusioni a cui la logica non può arrivare”.

K.– Il minimalismo diventa più dialettico della Popart che invece indica quel posto. Quando ho visto nel 1958 la mostra di Pollock alla Galleria d’Arte Moderna, ho fatto un respiro; Pollock mi insegna la libertà, la libertà di trovare la propria identità e le proprie tradizioni. Gli altri non ci sono riusciti perché relegati a quel posto. Ma a me non dà niente, mentre il cubismo mi dà molto. L’arte europea è stata una cosa espansiva, compreso Munch che sta a Nord anche lui dà molto, L’urlo di Munch dà molto e ci fa capire anche la nostra esistenza, è un urlo esistenziale.

P. – Rappresenta  anche un confronto diverso con la natura e la mimesi. Munch lasciava i quadri sotto la neve a “maturare”… Come si può, secondo te, oggi, affrontare la raffigurazione della natura?

K.– C’è la natura e il naturalismo. Il problema della natura non può essere ridotto ad una mimesi, in questo modo non si comprende la sua grandezza. Gli antichi avevano ragione, per comprendere la natura è necessario dominarla, solo in questo modo si percepisce la sua forza e grandezza, quindi non tendendo alla mimesi.

P. – Oggi possiamo ridare però un senso nuovo alle parole, anche a quelle consumate. La mimesi potrebbe essere ripensata con un significato più autentico: imitazione ma anche desiderio.
K. – La mimesi diventa automaticamente rappresentativa. I Greci dicevano che «il mestiere del pittore è quello di disegnare vite» e non c’è assolutamente l’idea della mimesi perché la vita è superiore ad essa. Quando vedi Masaccio nella sua ideologia rinascimentale non c è nessuna mimesi, c’è un’ideologia, una drammaticità e un grande potere; ci sono uomini che rappresentano un’ideologia ma non in senso mimetico, c’è un nuovo mondo di vedere un Cristo in gloria e il problema sta lì, altrimenti rimaniamo in quest’apologia della natura, tipica degli anglosassoni.

P. – Le posizioni ecologiste partono da un presupposto giusto: dialogare con la natura compenetrandosi in essa. Non so però se sia giusto abolire del tutto il predominio che l’uomo ha acquisito sul paesaggio… sarebbe come togliere la figura dallo sfondo lasciandolo da solo a dominare il quadro…

K. – Per un eccesso di modificazione, di distruzione sul paesaggio che c’è stato, negli ecologisti c’è qualcosa dell’esercito della salvezza (signore magre vestite di nero che hanno questo atteggiamento da benestanti), perché un poveraccio non ci penserebbe mai, costretto a vivere una condizione terribile e c’è anche qualcosa del minimalismo in una maniera che non scandalizza. Ti dicono che c’è un dio, tutto è dominato prima di noi, se vai per strada e vedi un vecchio barbone, egli non è compreso nel quadrato perché il quadrato è superiore, è di egizia formazione. La questione si complica quando prendi come modello un uomo: la sua storia, la sua sensibilità, la sua vita e i suoi amori. A me interessa quello e la drammatica scena, mi piace questa volontà di creare un dramma per poter vedere la verità.

P. – Torniamo alla questione dei cocci. In essa, come sai, ha origine la parola “simbolo”: pezzi di un vaso ridotto a cocci spartiti fra fratelli che partono per parti diverse del mondo in attesa di riincontrarsi, confrontare i cocci, farli combaciare e grazie a questo, riconoscersi. Nella ricomposizione del vaso è compresa quella dell’unità familiare, la sua verità e realtà esistenziale, il fondamento di ogni nucleo umano (occidentale). A te, mi pare, questa ricomposizione cementata dal sangue non interessa molto.

K. – È un’idea di sangue, ma a me piace l’idea di Dracula, anche quella è un’idea di sangue. Mi interessa questo, per il resto non penso al sangue ma al grandissimo potere di unificazione della cultura, il vero sangue che può diventare familiare per tutti; ilresto riguarda un’antichità. Il problema di sangue ha sottomesso il valore fondante della cultura.

P. – Quest’idea è straordinaria ed è contrapposta a quella su cui si sono fondate le società autoritarie: l’identità di terra e sangue.

K. – Ha portato solo dolori grandissimi nella nostra Europa. Preferisco di gran lunga la storia americana, la condizione da cui parte: quello che conta è la cultura, l’unità popolare.

P. – Infatti da quando l’Europa è stata svuotata dalla cultura ebraica ha perso moltissimo del suo fascino e della sua stessa identità…

K. – Sono cose da pazzi, È stata una pazzia unica, cose da non credersi. Questo anacronismo a volte diventa politica, razzismo e tutto ciò di terribile ma anche di reale che è accaduto nella nostra storia contemporanea. Bisogna essere pronti a capire che questonucleo non esiste, che non si ha ragione per una questione di sangue.

P. – Oggi siamo all’estensione del campo di sterminio a livello planetario; l’idea da cui nasce la soluzione finale: purificare la razza, ha esteso il suo modello fino al mondo delle idee: quelle spurie vanno cancellate…

K. – Si sono creati interessi bancari ed è diventata morale comune. Addirittura se non sei così, sei immorale.

P. – L’estensione del campo di concentramento, è parte del trionfo della tecnica… del pensare in maniera tecnica ovvero del pensare in maniera non ideologica o addirittura anti-ideologica…

K. – Bisogna vedere chi ha in mano questa tecnica. Caravaggio ce l’aveva nelle sue bellissime mani, ma dall’altro lato c’è anche un’organizzazione burocratica che controlla la «tecnica». Capisco finché c’è Caravaggio che rappresenta una «tecnica» raffinata ed estrema, in ogni suo quadro c’è l’idea di nascita e di morte; l’altro tipo mi sembra una cosa ovvia, militare, è sempre presente anche per toglierti le sigarette, dietro c’è un’idea militare che ti indica che se lo fai, morirai. Ma chi se ne frega di quella verità? Perché poi un domani ti possono dire: «Se non scrivi questo, morirai». C’è sempre una proibizione, però quello di cui ho paura è che un giorno arrivi qualcuno alla mia porta con un foglio in cui mi indichi quello che non si può fare o non si può scrivere, che mi dica come vivere e m’imponga di tornare a casa alle sette di sera. Per alcuni questo è un bene, ma so per esperienza ed età, che questa condizione è terribile.

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