Trialogo per Villa Medici
(una domanda al giorno)
di Alfredo Pirri, Hans Ulrich Obrist, Jerome Sans
Alfredo Pirri: Cos’è una domanda?
Mi viene da pensare che sia (sempre) una richiesta di aiuto. Il punto interrogativo, come un uncino lanciato contro qualcosa al quale (si spera) possa fare presa in maniera certa, tanto certa da farsi “ancora”, salvezza. Quale aiuto possiamo ricavare dal lanciare domande ad altri che sappiamo già non si faranno pietra cui aderire, montagna da scalare e neanche carne sanguinante e resistente come la bocca del pesce dilaniata dall’amo del pescatore? L’uncino, quando torna a noi, dopo il lancio, diventa una stampella che si curva e si modella nell’incavo dell’ascella a sopportare il peso del corpo, aiutandolo a camminare più sicuro. Camminare soli, fermarsi, condividere con altri la piazza, guardare di fronte (a testa alta), sentirsi esseri viventi dentro un organismo anch’esso vivo, avere la sensazione di entrare e uscire allo stesso tempo. Ognuno di questi gesti è una domanda che rivolgiamo allo spazio aperto, con questi gesti si disegna l’opera di Villa Medici, come fossero grafite che incide un foglio.
(Non è forse ogni disegno una domanda?)
Jerome Sans: Quale relazione hai con il paesaggio?
A. P.: Cos’è il paesaggio? Cos’è la relazione?
Il paesaggio è una veduta; quella porzione di spazio che cogliamo nell’attimo in cui guardiamo qualcosa. In quel momento, fissando lo sguardo, il mondo ci appare nella sua forma conclusa, stabile. Tutto il resto, però, continua a crescere, muoversi, vivere, indifferente al nostro sguardo, o addirittura ostile, nemico. Come un sabotatore, agisce indifferente alle nostre costruzioni, le aggira, le sfonda. Le forme nascono già in rovina, monumenti alla caduta e allo sguardo transitorio. Quale relazione potrebbe instaurarsi fra i due? (forma e paesaggio). Quella che sceglie di riferire, di raccontare la visione fugace con parole inventate? Quella che si mostra comprensiva, corrispondente della vitalità che batte dappertutto come un delirio d’onnipotenza? Mi è difficile pensare a una mia relazione con il paesaggio senza questi presupposti che mi fanno sentire il mio come un tuo, nostro, vostro… L’unica mia proprietà è l’opera che ho fatto in un ambiente vivo, monocromo, ondulante dietro e davanti a chi cammina e guarda. Un camminare e guardare che orientano e perdono allo stesso tempo. Era mia prima d’esistere, ora non più. Tante più persone la frequenteranno, tanto meno sarà in mio possesso. Lo sguardo di ognuno l’arricchirà di visioni fino a renderla simile a un paesaggio.
(Può un’opera essere paesaggio di se stessa?)
J. S.: Ripartiamo dalla tua domanda: Può un’opera d’arte essere paesaggio di se stessa?
A. P.: L’opera d’arte ricrea il paesaggio sostituendolo pezzo per pezzo. Si installa lì dove lo sguardo distratto dello spettatore è maggiormente mobile, instabile, disinteressato, dando così vita a un nuovo paesaggio. Di conseguenza, l’opera è allo stesso tempo figura e sfondo, albero e veduta. Assume dimensioni e vocazioni differenti fino a riuscire a concepirsi (persino) come autosufficiente, bastante a se stessa. Anche se un attimo successivo a questa convinzione, una forma splendente di luce propria che aveva momentaneamente assunto la dimensione di una piazza, ritorna a farsi strada, percorso, confronto. L’opera è paragonabile all’architettura abusiva; prende forma in luoghi fuori controllo, nascosti allo sguardo pubblico e alle autorità costituite. Per questo motivo non disegna un paesaggio omogeneo, pianificato, urbanisticamente e culturalmente corretto. Però costruisce una casa ospitale e fresca, piena di luce e di colore, luogo di riposo e di festa.
Hans Ulrich Obrist: Come vedi il rapporto arte/architettura?
A. P.: Si è guardato all’architettura pensando all’eternità, a qualcosa che proviene dal passato remoto e destinata a una durata infinita (fino a quando un evento tragico non concorrerà alla sua distruzione). Per Rudolf Steiner la nascita dell’architettura è da ricercare nelle origini rituali delle pratiche funerarie, nella costruzione delle prime tombe. Esse fornirebbero il prototipo dei futuri modelli abitativi. La morte è la casa della vita, il luogo dove se ne celebrano i fasti e la bellezza. All’opposto, l’arte nasce dal tentativo di fissare le ombre dei corpi in movimento, dal desiderio di dare consistenza alla luce e ai suoi effetti sulle cose. Quindi, l’arte muove dall’esistenza per proiettarsi e addentrarsi nell’universo della morte, cercando di rischiararla, proponendola come un fenomeno luminoso. Queste differenze non si possono cancellare, sarebbe non solo impossibile ma addirittura antistorico e lo sforzo ci porterebbe fuori dalla contemporaneità perché ci spingerebbe a vivere un’esistenza priva delle contraddizioni che la fondano. La mia generazione ha condiviso intensamente un tentativo di dialogo con l’architettura, sia essa l’architettura costruita, quella degli architetti, sia quella puramente immaginaria fatta di spazi infiniti e vuoti. Spazi puri della mente, oppure spazi cittadini, spesso vuoti di presenza umana o anche tratteggiati da figure che fungono da misura, rapporto scalare, confronto sfavorevole fra il piccolo e inerte della figura umana contro il grande e aggressivo della misura urbana. In questo tentativo di raffronto e di umanizzazione delle misure e dei rapporti, oggi, non credo più. L’architettura è sempre più spesso espressione privilegiata del potere, di un potere che vuole annullare l’arte imponendo la diluizione di una forma nell’altra, così estendendo la pratica della scomparsa su quella dell’esistenza. L’architettura dei grandi spazi tende a sostituirsi all’arte assumendone il carattere “monumentale”, non solo nelle dimensioni, quanto nel carattere simbolico. In opposizione a questo, l’opera di Villa Medici, pur confrontandosi con il “costruito”, non è “architettura”, non è luogo di messa in scena del potere, invece è luogo che tende a “sparire” manifestandosi come racconto cromatico dove le persone possano incontrarsi pur rimanendo sole.
J. S.: Come relazioni il tuo lavoro con il sociale? Il tuo lavoro prevede una relazione sociale?
A. P.: Questo è un argomento tragico, perché ci spinge a dire (comunque) delle menzogne. Sia che si dica: Il mio desiderio più grande è di riuscire a riconoscermi e dialogare con la comunità, oppure: la mia condizione umana e artistica mi costringe a vivere in isolamento, in ambedue i casi si dice la verità o meglio la menzogna. Questo se si vedono le cose in maniera del tutto soggettiva. Si potrebbe, invece, affrontare la questione in termini meno personali. Allora le domande che mi faccio sono: Esiste per il sociale una possibilità di sopravvivenza che non preveda, o meglio, che elimini dal suo processo evolutivo il trauma rigenerativo dell’arte? Ho la possibilità, con quello che faccio, di trasformare il trauma della lingua in un trauma sociale? Che rapporto esiste fra società estetica e scambio?
Io penso che il sociale, inteso come insieme degli eventi che caratterizzano la realtà, tenda letteralmente a scomparire, quando rinuncia (oppure è obbligato a rinunciare da spinte autoritarie) a farsi tutore del trauma. In questo senso il mio lavoro è fortemente proteso verso il sociale, poiché lo costringe a riconoscere il debito che ha sottoscritto con l’arte, ricordandogli il rischio di polverizzazione a cui va incontro. Penso anche che l’arte (o meglio l’opera d’arte) svolga un compito rifondativo della realtà rinnovandola costantemente e lasciandosi a sua volta rinnovare dai risultati di quest’azione. Solo che questo scambio non avviene per riflessione, cioè non avviene tramite il pensiero e neanche tramite specchiamento, bensì attraverso uno scambio e un confronto di immagini. Questo scambio può dare vita a due differenti società a seconda della prevalenza di un’immagine sull’altra. La prima potremmo chiamarla società-artistica, oppure società-reale, perché nel confronto prevale la solitudine delle forme, il rispettivo dominio, l’azione energetica e sotterranea del mutamento. La seconda si potrebbe chiamare (anzi, si chiama) società-estetica, oppure società-inesistente, perché rinuncia dal principio al confronto, accontentandosi di una visione primitiva dello scambio, quello denominato “delle merci”, dove sia l’arte che la realtà sono rappresentazioni di interessi e poteri estranei alla reciproca essenza. Io penso che nella società estetica non ci sia posto né per l’arte né per alcuna relazione sociale, penso anche che l’arte che pone al centro dei propri interessi il concetto e la pratica di “relazione” operi a favore della scomparsa del reale.
H. U. O.: Puoi dirmi di più su qualcuna delle tue utopie/progetti non realizzati/ non realizzabili
A. P.: Non ho progetti utopici e irrealizzabili in testa, non perché abbia dato una forma chiusa al mio desiderio, più semplicemente perché non coltivo “progetti” ma “immagini”. La carica utopica che si cela in un’immagine è enormemente maggiore di quella presente in un progetto, se intendiamo per progetto qualcosa di articolato, che pretende fasi di studio, di programmazioni varie, di coinvolgimenti ampi. Tutti noi abbiamo a che fare con dei progetti, per esempio l’opera di Villa Medici non sarebbe stata possibile senza tutte queste fasi, però quello che mi interessa è l’immagine finale, il poter pensare a quell’opera come un’immagine sintetica più che il risultato di una pratica progettuale. Vorrei dire che mi piace pensare come non realizzate tutto un insieme di piccole cose, di sfumature di colore, oppure saper rappresentare il vento in un’opera plastica, o ancora riuscire a fare una piccola opera che, pur occupando una porzione ristretta di spazio, lo avvolga per intero con la propria bellezza, o anche fare un opera che faccia ridere di gusto. Insomma quello che vorrei fare (e questo è realmente utopico) sarebbe realizzare delle opere che commuovano e allo stesso tempo siano espressione di una civiltà. Penso alla commozione prodotta dalla lettura della poesia, di una poesia a volte di protesta, non solo perché aiuta ad individuare un nemico e lo bersaglia di accuse “poetiche”, ma perché reinventa ogni volta la lingua rendendola vivente e quindi politica.
H. U. O.: Riprendendo la domanda di Jerome; cosa pensi della reintroduzione della politica in un momento in cui si rischia una depoliticizzazione?
J. S.: Cosa intendi per poesia?
A. P.: A queste due domande ho risposto lavorando per molti giorni, scrivendo un lungo testo di risposta. Un testo quasi autonomo dal resto del dialogo in cui sostenevo l’impossibilità della scomparsa della politica dal contesto artistico poiché ogni ambiente presuppone un contesto civile, quindi politico. Allo stesso tempo mi dilungavo sul (possibile) uso negativo che si fa (soprattutto) in occidente di questo presupposto, usato come un’arma di ulteriore violenza predatrice nei confronti di quella parte del mondo chiamata “povera”. Un’arma di conquista e di arricchimento dei già traboccanti “granai” colmi di immagini di proprietà occidentale. Ricchezza (a volte mostrata con povertà) che si pone come modello da imitare in omaggio alla mancanza di senso ed all’incapacità di raccontare qualcosa di interessante Questo testo è stato divorato dal computer e mai risputato, neanche le ossa ! Di conseguenza, Hans ha proposto la domanda che segue, mentre vorrei rispondere alla questione di Jerome con la citazione da una poesia di Mariangela Gualtieri che spero possa essere più che una (nuova) risposta una cerniera nel dialogo, il passaggio affettuoso verso nuove parole:
NON SIAMO A PEZZI
NON SIAMO SCALZI ABBIAMO CON NOI
L’OMBRA, UNA CERTEZZA CHE
NON S’INCLINA, PORTIAMO ANCHE I VOSTRI
COLORI I VOSTRI ALBUM DI FIGURINE E
NON STRISCIAMO NON RIDIAMO, AFFONDIAMO
NEL PANE SOLO POCHI DENTI.
TORNATE. TORNATE TUTTI, NON SI PUO’
STARE MORTI PER SEMPRE, BERE
I LIQUIDI GIALLASTRI, MASTICARE LE
COSE SPORCHE ATTACCATE. TORNATE BELLI.
H. U. O.: Quale impatto ha avuto il computer sul tuo lavoro, ha cambiato il tuo modo di lavorare? Cosa pensi della possibilità di creare nuove interfacce? Secondo S. Johnson per gli artisti è un grande cambiamento avere la possibilità di creare nuove interfacce.
A. P.: Con il computer si tende a sostituire uno dei fattori costitutivi del disegno: il prefigurare. A differenza del disegno che si esprime sempre come estrema sintesi, con la prefigurazione elettronica non si può essere altro che complessi. In questo senso, negli ultimi ani, ho usato il computer per definire in anticipo spazi e forme. Naturalmente qui non stiamo parlando di come l’uso del computer entri in gioco nelle varie fasi realizzative di un’opera (complessa) come quella di Villa Medici, dove è stato usato in vario modo; per es. per fare i calcoli statici necessari alla tenuta del percorso, oppure nell’uso di attrezzi a calcolo numerico per la piegatura dei metalli etc… Bensì alla sua possibilità di creare (come dici giustamente nella domanda) nuove interfacce, cioè nuove relazioni. Su questo non ho le idee chiare perché non sono certo che il compito di un’opera d’arte si possa (o si debba) esaurire nella messa in moto di un sistema relazionale, anche se compito importante dell’opera è di reinventare di continuo relazioni possibili con modi e mondi lontani da quello che l’hanno generata. Questo confronto incessante si svolge a viso aperto “faccia a faccia” col mondo, lo sguardo che ne deriva è reciproco, scambievole, osmotico, a volte mimetico. Di conseguenza, l’invito a creare “nuove interfacce” è carattere ontologico dell’opera, nel lavoro di Villa Medici, ad es., l’osmosi fra opera e giardino è determinante e a sua volta contribuisce ad un nuovo rapporto (scambievole) fra Villa e Città.
Hans
Mi puoi dire qualcosa sul progetto che hai realizzato a Parigi? (n.d.r. mostra personale gall. Michel Rein Giugno 2001) E’ un opera contestuale? Mi puoi parlare di più sul senso del contesto nel tuo lavoro in generale?
Alfredo
Sempre, quando mi si pone una domanda, cerco di ripensare al significato della parola chiave contenuta nella domanda, quella intorno e grazie alla quale la domanda stessa si pone come questione intorno a cui riflettere. In questo caso la parola centrale è “contesto”. A volte guardare la parola, sentirne il suono, mi fa apparire tutto immediato e semplice, altre volte mi porta lontano dal discorso fino a farmi scoprire qualcosa che non sospettavo. In questo caso, aprendo il vocabolario, scopro che la parola “contesto” proviene dalla parola “tessuto”, nel senso del “tessere” e del “comporre”. Svolto questo preliminare, normalmente, mi ritrovo a considerare l’arte come qualcosa di fortemente connaturato con il significato generale di qualsiasi cosa o parola possibile. In questo caso poi come si può negare che il fare artistico sia fondamentalmente caratterizzato dal tessere rapporti e dal comporre forme che coincidono con questi? Ma la tua domanda riguarda in maniera specifica il mio modo di tessere rapporti con lo spazio (nel senso generale della parola quindi non inteso solo come entità fisica), e del mio modo di comporre le forme necessarie a questo dialogo. Quindi cercherò di non eludere la tua domanda finale proiettandomi in una dimensione astratta dove i sensi non contano più, cercherò invece di descrivere le sensazioni che provo vivendo in un tessuto e dandogli una forma, ma allo stesso tempo sentendomi libero da vincoli ed obblighi oggettivi.
Iniziamo col dire che per me quello del contesto non è un problema di natura strutturale, o meglio architettonico. Contestuale per me significa essenzialmente fare un lavoro di composizione e manipolazione dello spazio in modo tale che esso appaia ai nostri sensi (prima ai miei e poi a quelli degli spettatori) come un filtro diafano e luminoso grazie al quale le opere acquistano rilievo e dal luogo di questo rilievo possano dialogare con l’esterno dello spazio medesimo, nel tentativo di creare un ponte fra il microcosmo dello spazio espositivo e il macrocosmo del mondo. Di conseguenza ogni obbligo architettonico viene valutato alla luce di questa necessità. Alle volte lo spazio è acconsenziente, ha caratteristiche di trasparenza tali da proporsi immediatamente come luogo ospitale. Altre volte, al contrario, il luogo è inospitale e portato ad ammutolire le opere. Se prendiamo ad esempio la mostra alla galleria Michel Rein a cui fai riferimento nella domanda, posso dire che il luogo è fortemente predisposto a proporsi come filtro luminoso con la quantità di luce solare che penetra dall’alto in contrapposizione a quel luogo semibuio della stanza di fronte all’ingresso. Il luogo è in sé concepito come il racconto di un percorso dall’ombra alla luce, dal chiuso all’aperto. La mostra sottolinea questi aspetti esaltandoli, allo stesso tempo però non esaurisce la sua proposta all’interno del suo contesto spaziale, bensì (anche grazie al carattere dello spazio) proietta la sua presenza (o la sua ombra) in un contesto e in un ambito più generale. Tutto questo è ancora più chiaro nel lavoro di Villa Medici, dove il contesto del boschetto di bambù si pone fisicamente come un filtro diafano e luminoso, in più in perpetuo movimento quindi sottoposto a continui mutamenti luminosi che alterano la percezione dello spazio e del tempo. Il lavoro di Villa Medici per me rappresenta l’esempio ideale di come un’opera possa vivere in un determinato contesto fino a confondersi in esso, e allo stesso tempo riuscire a comporre un luogo differente che non si esaurisca con l’attestazione della sua presenza. In questo senso penso che l’opera riuscita sia quella che ci appare naturale, cioè connessa alle cose che conosciamo e destinata a farci percepire qualcosa che non conosciamo ancora. Di conseguenza ogni opera rappresenta un luogo, a volte lo fonda. Il mio desiderio più grande con “Via D’ombra” nel giardino di Villa Medici sarebbe di dare concretezza e percezione veritiera a quest’idea di luogo, con un’opera ibrida che non trova termini per essere definita se non una somma di fatti sensibili che mettono in relazione lo spettatore con il segreto di una pianta consegnando a questo rapporto un “contesto”, uno sfondo cittadino e civile che chiede di essere mutato dall’opera qui intesa come rapporto fra visitatore, percorso e pianta