Intervista a cura di Gilles Tiberghien per la mostra Mots, MEP, Paris, 2006

G.T. Come hai concepito questo nuovo lavoro?

A.P. E’ un nuovo passo avanti rispetto ad un’opera che feci a Roma alcuni anni fa e poi a Rijeka. Non è esattamente lo stesso lavoro, piuttosto è un processo che sto portando avanti e che spero di continuare anche dopo Parigi. Si tratta del ritratto di una città vista dall’alto; un paesaggio a volo d’uccello, non in senso figurativo ma visionario, dove il fenomeno luminoso e cromatico s’integra con quello spaziale dando vita a varie sensazioni: energia, malinconia, pericolo, naturalezza… M’interessa sempre di più un’arte che seppure muova da matrici astratte, riesce a porsi la questione della somiglianza con qualcosa, quello che un tempo in filosofia si chiamava “mimesi”, una vicinanza alle cose che non significa copiarle. In pratica m’interessa un’arte che partendo dall’astrazione riesca a dirci qualcosa di riconoscibile, qualcosa che riguarda il raccontare. Qui, a Parigi, ho inserito un elemento nuovo, importante; una luce particolare, dinamica, che muta in continuazione in seguito a sollecitazioni che provengono in tempo reale dal mondo esterno. Ho voluto rendere omaggio alla fotografia, non a quella d’artista e d’arte, ma ad un’idea della fotografia intesa come sguardo sul mondo e dal mondo. Ecco, direi che si tratta di un omaggio a quel settore specifico della fotografia che è il fotogiornalismo.

G.T. Quando si guarda la prima versione di quest’opera e quando si torna ad altri lavori più vecchi si capisce che il teatro è importante per te, ma vorrei sapere in quale misura. Perché la “teatralità” può anche essere una caratteristica negativa, come è stato per alcuni critici americani degli anni ’60 che tu conosci. Ed allora per te che cos’è?

A.P. Per me l’arte è prima d’ogni cosa rappresentazione. E’ vero che con questo termina si richiama il teatro. L’arte è attitudine a rappresentare, a mettere in scena attraverso l’immagine, per questo m’interessa molto la forma teatrale, vale a dire quello che è destinato a muovere fortemente i sentimenti delle persone che si trovano davanti a qualcosa di vivente, che non vuol dire necessariamente “performativo”, cioè che ha a che vedere con la presenza dell’attore oppure con quella dell’artista come performer, bensì qualcosa che riguarda la capacità di stimolare fortemente dei sentimenti e allo stesso tempo di legare questi sentimenti a qualcosa d’immaginario. In questo lavoro, per esempio, la messa in scena teatrale è evidente, prima di tutto perché i vetri che sono posti verticalmente sono come delle quinte teatrali…

G.T. …sì, e mi fa pensare a due cose. La prima, ovviamente, è Friedrich, il pittore, la barca sul mare congelato…

A.P. …sì, quel quadro si chiama, Naufragio della nave speranza…

G.T. Sì. La seconda cosa, che è legata a quella, è una piece messa in scena da Hengel negli anni ’80, a Chaillot, la Pentesilea di Kleist. La scenografia era chiaramente ispirata a questo quadro di Friedrich; era una specie di banchisa dai rilievi accidentati, con blocchi spezzati e sporgenti. Beh, quando ho visto la tua installazione, ho pensato a tutto questo.

A.P. Sì, è vero, la fotografia che ho chiesto di fare a Rijeka, con una persona di spalle che guarda l’opera, è ispirata ad uno dei quadri di Friedrich, più che al mare di ghiaccio, in questo caso, al personaggio che osserva le montagne. Lì c’è un’idea teatrale fortissima, l’uomo che guarda è, senz’altro, uno spettatore. A me interessa molto questo raffronto individuale, tra spettatore e opera. Non è un caso che in quel quadro lo spettatore è singolo…. non sono due, tre, quattro, cinque persone, non sono un pubblico…. è una persona a trovarsi, da sola, di fronte all’immenso paesaggio che sta osservando, affermando l’aspetto solitario del suo, personale, rapporto con quello che in quel caso è opera divina e opera della natura.

G.T. È strano: quando tu dici che non c’è un pubblico, ma una persona che sta davanti all’opera, davanti al paesaggio, sembra che tu parli di una coscienza astratta e non di una singolarità; d’altra parte si tratta di qualcuno molto concreto che prova fisicamente un senso di rischio davanti a questa opera aggressiva dalle punte aguzze e rosse come il sangue. Secondo te, come sono legate queste due cose che potrebbero sembrare contraddittorie?

A.P. Da una parte, ci sono dei riferimenti oggettivi, appunto, il paesaggio visto da un colle… dall’altra, invece, questi sentimenti, sono percepiti in maniera individuale.

G.T. Come uno spirito e un corpo…

A.P. Sì, questo è molto bello, come uno spirito e un corpo, perché quello che fa chi guarda un’opera d’arte è di fuoriuscire da sé e cercare un incontro con l’opera in un luogo diverso; l’opera e lo spettatore si guardano reciprocamente senza comprendersi, o meglio, trovano un incontro in un terzo luogo, un terzo posto che non è né il posto individuale dello spettatore né il luogo oggettivo dell’opera.

G.T. È vero, ed è esattamente l’idea di Simmel, che in un piccolo testo che si chiama “La filosofia del paesaggio” considera il nome “Stimmung” come una specie di corrispondenza affettiva tra lo spettatore e il paesaggio, qualcosa che per lo spettatore è un modo di essere nel paesaggio, e per il paesaggio un modo di essere nella coscienza di chi lo contempla. In fondo, è qualcosa di vicino a quello che hai detto.

A.P. Questa coscienza, come la chiami tu, potrebbe essere l’immagine che ci portiamo dentro e che ci permette di conoscere e amare il mondo attraverso essa. Veniamo da momenti in cui si è creduto necessario abolire l’uso e la pratica dell’immagine a favore di una partecipazione più diretta dello spettatore, che così avrebbe una parte più attiva nei confronti dell’opera. Attraverso quest’attivismo dello spettatore si è creduto di poter garantire la permanenza stessa dell’arte nel mondo. Io, penso, invece, che bisogna avere la capacità di fare un’arte che lasci da solo lo spettatore, che lo porti verso sé, lo accoglie attraverso l’immagine, ma poi non lo comprende del tutto, proprio nel senso della presa fisica, lo lascia da solo, sulla soglia, così come ha fatto Friedrich ponendo lo spettatore di fronte al paesaggio. È come dire che l’arte ti porta verso di sé, però poi non ti confessa nulla, sei tu, nella tua individualità, a doverti arrischiare perché, se pensiamo alla posizione in bilico dello spettatore di Friedrich, basterebbe un solo passo per cadere nel baratro. Ecco, m’interessa molto l’equilibrio… non m’interessa il rischio in sé, né i meccanismi performativi e attrattivi messi in campo fra spettatore e opera… quello che m’interessa è l’equilibrio…

G.T. Questo sarebbe allora un po’ come per Bed of spikes, realizzata da Walter de Maria nel 1968, un’opera molto aggressiva……

A.P. …delle punte d’acciaio, vero?

G.T. Sì, l’artista aveva chiesto agli spettatori che visitavano la mostra di firmare una carta di responsabilità.

A.P. In questo lavoro la sensazione di pericolo è molto forte… però si tratta di un sentire dolce…non aggressivo, non è un pericolo che ti attacca, tutt’altro, è attraente, nascosto nella bellezza della forma, dal colore che attira a sé e dalla luce che muovendosi ne muta la percezione…

G.T. …che sarebbe il sublime.

A.P. Il sublime per me, ma anche per tutta la cultura classica, è rappresentato come un avvenimento luminoso che in questo caso…per parlare più a fondo della mia presenza dentro questa mostra dedicata alla fotografia, ed io non sono un fotografo, né un artista che usa la fotografia… si mostra come una via di mezzo fra l’evento luminoso e il diffondersi dell’informazione… ancora meglio come il trasformarsi di una sorgente di notizie in fenomeno luminoso, cangiante sia in potenza che in qualità, che spazia dalla penombra alla luce abbagliante e dal caldo al freddo… è’ come quando guardiamo una sorgente d’acqua che sgorga senza fine dal sottosuolo, la stessa materia ma sempre differente… l’opera a terra è illuminata in controluce da una sorgente luminosa comandata da un flusso di informazioni provenienti da tutto il mondo, il sistema di comando ha accesso a circa 2000 notizie al giorno, sempre diverse, tutti i giorni, e a seconda dell’arrivo di queste notizie, in tempo reale c’è un mutamento della luce. Di tutto ciò, però, lo spettatore non sa nulla, assiste ai mutamenti della luce come si assiste al sorgere e al tramontare del sole.

G.T. A questo proposito, hai scritto che la molteplicità delle informazioni fa cambiare la luce e fa reagire diversamente l’opera secondo la maniera con la quale viene illuminata, come il sole che illumina il paesaggio all’alba o al crepuscolo. Dunque l’informazione sarebbe come una condizione del paesaggio; noi possiamo vedere il paesaggio e trarne piacere del tutto semplicemente soltanto perché sappiamo qualcosa pur non avendone coscienza.

A.P. Sì, questo è essenziale, perché accade a nostra insaputa… quello che sappiamo, o che tenta in continuazione di far parte nel nostro sapere, agisce verso di noi con una pressione incessante, continua, tanto forte da determinare in noi una tensione fortissima fra tutto quello che sappiamo del mondo e il desiderio d’ignorarlo, l’attrazione verso il pericolo e l’istinto di salvarsi…questo ha a che vedere col sublime, cioè con qualcosa di nascosto, che muove dall’ombra… l’enorme quantità di “titoli di testa” che ci circondano, sono un dato del paesaggio e, non è tanto dare un giudizio che mi interessa, distinguere ciò che è bene da ciò che è male, preferisco immaginare tutto questo come una manifestazione della natura.

G.T. Mi sembra che è un modo di presentare ciò che nel paesaggio è in un certo senso evidente, direi l’infinito – il poema di Leopardi che ha questo titolo è d’altronde la descrizione di un paesaggio. L’informazione è infinita perché ci porta per gradi fino alle stelle. Il tuo lavoro sarebbe un modo di presentare questa situazione, di dire come siamo sempre legati alle stelle.

A.P. E’ proprio così… mi piace molto quello che dici… le stelle, che per noi sono dei punti luminosi e nient’altro, in questo mio lavoro si trasformano in parole. Esse hanno una funzione chiave, ne ho scelto ottanta spaziando nelle notizie d’agenzia, queste ottanta parole regolano il mutamento della luce in modo infinito. Sono parole che pur presenti nell’informazione quotidiana, nella loro solitudine ci appaiono più misteriose. Parole che sfiorano qualcosa che conosciamo ma che allo stesso tempo ci turbano, ci appaiono misteriose, come appunto una stella che brilla in un cielo buio. Di questa stella potremmo sapere tutto, ma il modo in cui ci rapportiamo ad essa è assolutamente misterioso.

G.T. Un mistero che si sente in certe opere che hai fatto con le maschere e nelle quali il riferimento teatrale è evidente. Alcune di queste maschere sembrano sul punto di leggere dei libri dei quali non vedono che la copertina, senza poter vedere quello che leggono…

A.P. …quello che si vede, è l’effetto luminoso della parola. Nell’opera di cui stiamo parlando, che s’intitola “parole”, le quinte di vetro di cui abbiamo già parlato, sono una sorta di successione di maschere che si nascondono a vicenda. Tutto il mio lavoro riguarda il nascondimento, l’oscuramento, quello che si svela del lato nascosto, quello che noi possiamo vedere è solo qualcosa, come si può dire… in potenza, è la ricerca di quel piano che dicevamo prima che può essere il posto dove s’incontrano spettatore e opera. In questo posto d’incontro si parte da un più per arrivare ad un meno, il percorso che si compie non è un percorso d’arricchimento, il destino di questo percorso è la solitudine.

G.T. C’è anche per te, mi sembra, una sorta di resistenza ad un certo modo di guardare l’arte….

A.P. …tutti insieme…

G.T. Questo è il contrario dell’arte, da un certo punto di vista. L’arte non si dà semplicemente e in modo masiccio, si fa desiderare. Occorre tempo per apprezzarla. Certamente si divide, ma nello stesso tempo si prova una certa solitudine di fronte a lei perché l’opera si nasconde nello steso momento in cui si dà: “ più ti dice e meno sai” diceva Diane Arbous a proposito della fotografia. È questo insieme di tensioni tra lo spettatore e l’opera che mi sembra al centro di questo lavoro…

A.P. …ultimamente ho fatto un lavoro…è un’opera, di dimensioni grandi, realizzata per un ospedale di Roma, destinata ad uno spazio molto particolare, il reparto di rianimazione dove ci sono persone in coma o appena tornate alla vita. E’ un’opera di dimensioni monumentali destinata a poche persone, in un ambiente dove il pubblico non può entrare… si tratta di una dimensione anomala, fuori del territorio dell’arte, fuori di tutto ciò che noi conosciamo, che ha a che vedere con il rapporto tra l’opera e lo spettatore… in chiusura di un breve testo d’accompagnamento, ho scritto che in questo caso l’opera è come l’ostia che ci rimane in bocca rifiutandosi di sciogliersi durante la comunione… ecco, l’opera è un’ostia che si rifiuta di sciogliersi, che non ci mette in comunione, rimane lì come un corpo estraneo, che rifiuta di fondersi in noi… questo è proprio ciò che intendo, quando penso all’arte come qualcosa di fastidioso…

G.T. Un’altra cosa: perché all’inizio di questa intervista hai cominciato a dire che questa opera è un omaggio al fotogiornalismo e perché secondo te è molto legata alla fotografia?

A.P. Si tratta della metafora di una fotografia che ritorna alla sua essenza più intima, quell’atto primitivo che desidera una presa diretta della realtà, per poi esserne assimilato fino a farne parte essenziale. In questo senso, dico, è qualcosa che riguarda di più il fotogiornalismo piuttosto che la fotografia cosiddetta artistica. A me piace molto la fotografia fatta dai fotografi e in particolar modo il tentativo dei fotoreporter di raccontare il mondo. In questo, secondo me, sta veramente il mistero della fotografia: nel vecchio gesto che impauriva gli Indiani, per esempio, perché erano certi che, attraverso l’immagine fotografica, fosse loro sottratta qualcosa. In questo senso la fotografia è rappresentata come potenza luminosa che modifica continuamente la nostra percezione, obbligandola di continuo ad una nuova inquadratura, all’attribuzione di un nuovo valore cromatico al mondo. Ma questo gesto attributivo di realtà è continuamente rimandato, non sappiamo mai realmente se attraverso di esso si certifichi qualcosa di vero o di falso.

G.T. È un po’ la tua idea del racconto. Un po’ come il teatro… mi sembra che per te la fotografia, il fotogiornalismo siano una maniera di raccontare il mondo.

A.P. Lo raccontano in maniera teatrale, perché quella messa in scena ha uno sfondo umano, che è lo sfondo su cui si crea la tragedia teatrale.

G.T. Sì, in effetti si vede molto bene in certe immagini divenute famose come quella fotografia di Hocine del 1997 di una donna algerina in lagrime che fa pensare ad una pietà….sono fotografie tra pittura e teatro, pitture teatrali e nello stesso tempo documentazioni.

A.P. E anche spesso nei fotoreporter si tratta di un teatro inconsapevole, com’è sempre la tradizione teatrale, non di un teatro colto ma invece di un teatro popolare, com’era Shakespeare.

G.T. Nello stesso tempo si può dire che ci sono famiglie di teatro, che da Kantor a Joseph Nadj diremmo oggi un genere di teatro come la Comédie Francaise. Nello stesso modo si può dire che ci sono anche diverse famiglie di fotogiornalismo anche se tutte dicono qualcosa del nostro mondo…

A.P. …appunto, qualcosa che ha a che vedere con la natura umana… questo m’interessa molto… in questo lavoro, come in altri, c’è la rappresentazione di una sentire umano, la messa in scena di un’anima interna all’opera. Un’animazione che origina dall’umano senza esaurirsi nell’antropologia, nel suo pregiudizio…

G.T. In che senso?

A.P. Nel senso di un’arte che pretende di farsi specchio della realtà e di tutto ciò che è umano.

G.T. Mi sembra che nella tua arte ci sia qualcosa di “spettrale”, qualcosa come dire…. Tu parli come qualche parte di Steiner che pensava che l’arte trovasse la propria origine nelle prime tombe. Ho l’impressione che il senso di sogno, o diciamo una maniera di essere avanti o dopo la vita, caratterizzi un po’ il tuo lavoro.

A.P. …vedi, come stiamo parlando io e te adesso… stiamo facendo una piccola avventura, senza rete… senza niente che ci protegga… ecco, questo mi piace farlo con l’arte. Per questo, forse, parli di spettrale, nel senso della volontà di muoversi in maniera leggera, come fa un fantasma che, non avendo un corpo non ha neppure bisogno di rete di protezione, sapendo, come probabilmente sa un fantasma, di non essere compreso appieno perché gli esseri viventi non hanno lo stesso linguaggio. M’interessa molto la leggerezza del fantasma effettivamente…

G.T. In effetti si sente.

A.P. …mi piace molto quest’uso delle parole come lo stai facendo tu, come stiamo cercando di farlo, con una certa libertà. Sono parole che hanno naturalmente un’origine, la parola ‘fantasma’ ha un retroterra teatrale molto forte. Dicevi di Shakespeare per esempio. Da Italiano ti potrei parlare in maniera invece più ironica d’Eduardo De Filippo e di tutta la tradizione nel meridione d’Italia dei fantasmi, non tragici, ma invece casalinghi, quelli che fanno ridere, che fanno dei dispetti. In ogni caso, se mettessimo insieme spettri nordici e tristi, o fantasmini meridionali e giocosi, ne uscirebbe fuori degli esseri che stando fuori dell’esistenza che conosciamo sono mobili, inafferrabili, inqualificabili. A me interessa un’arte che ha queste caratteristiche e che, però, come un fantasma, si mostra. A me interessa un’arte che non dice: devo svanire nel nulla dell’estetica diffusa, oppure, devo svanire nell’anonimato della società dissolvendomi in tutto quanto mi circonda. Invece m’interessa un’arte che sceglie il rischio della forma, sceglie il rischio dell’immagine, ma dentro la forma e dentro l’immagine riesce ad essere mobile e addirittura inafferrabile. Com’è inafferrabile la luce che ci circonda… quello a cui, però, sono maggiormente interessato è l’effetto della luce sulle cose… in pratica sono più interessato all’ombra che alla luce.

per vedere le immagini della mostra clicca qui

per vedere il video della mostra clicca qui